IL TPI E LA GUERRA

La verità è che non avrei dovuto leggere “La Guerra del Peloponneso”. E neppure “Il Principe”. Tucidide e Machiavelli mi hanno rovinato. Chissà, senza di loro forse sarei stato un onesto borghese. Invece della guerra e della politica ho un concetto che mi rende impresentabile nella buona società.
Riferisce l’Ansa che il Tribunale Penale Internazionale dell’Aja ha condannato all’ergastolo l’ex generale Ratko Mladic, “per genocidio e crimini di guerra e contro l’umanità perpetrati durante la guerra in Bosnia (1992-95)”.
Immagino che quel tribunale segua eccellenti regole giuridiche, e che la condanna di Mladic abbia solide basi. Per parte mia in generale penso che la guerra ha un codice composto di un solo articolo: “Ciò che conduce alla vittoria è buono, e ciò che conduce alla sconfitta è cattivo”. Se, per vincere una battaglia, devo creare un diversivo, per esempio mandando a morire un certo numero di uomini, sono colpevole di omicidio premeditato? Se poi arrivo alla vittoria, sarò giustificato? E se no? Proprio non so come la penserebbe il Tpi. Sicuro è che Marte – uno che di queste cose si intendeva – avrebbe applaudito l’iniziativa, e altrettanto avrebbero fatto quei delinquenti di Tucidide e Machiavelli.
Dubito che la condotta di una guerra possa essere giudicata in tempo di pace. Le due condizioni sono troppo diverse. La guerra è selvaggia, brutale, pre-civile. Con essa è come se si tornasse a prima che l’uomo si desse delle regole decenti, all’età della pietra.
E tuttavia non si creda che tutto sia permesso. Se si depreca il principio secondo cui “è lecito tutto ciò che conduce alla vittoria”, un principio che sembra machiavellico nel peggiore dei sensi, è segno che non ci si è accorti che quel principio implica a contrario che “è illecito tutto ciò che provoca distruzione o dolore, e non conduce alla vittoria”.
Questa regola non soltanto è tutt’altro che senza conseguenze, ma è alla base delle “Convenzioni di Ginevra”. Se un esercito invade Parigi e, per impedire al nemico le sue comunicazioni, distrugge il Pont Neuf (che a dispetto del suo nome è il più vecchio di Parigi) commette un’azione culturalmente orrenda, ma si può ancora discutere se sia funzionale alla guerra. Se viceversa quello stesso esercito prendesse a cannonate Notre Dame, non ci sarebbero giustificazioni e in caso di sconfitta sarei lieto di veder giudicare e condannare i responsabili.
E fino ad ora si è parlato di cose, figurarsi se si parla di persone. Lo sterminio degli ebrei avrebbe potuto aiutare Hitler a vincere la guerra? No. Dunque quel crimine è soltanto un crimine e chiunque vi abbia volontariamente collaborato merita la morte.
Un capitolo a parte meritano i bombardamenti. Fino alla Prima Guerra Mondiale, la guerra si svolgeva al fronte. Con la Seconda, la guerra è divenuta totale e i bombardamenti delle città hanno fatto centinaia di migliaia di vittime civili. Questi bombardamenti si devono considerare leciti o illeciti?
Qui il problema diviene difficile. Nel momento in cui è necessaria una enorme industria di guerra, che richiede a sua volta un enorme numero di operai, la morte di questi operai è uno strumento per ostacolare la produzione bellica e diviene pressoché plausibile. Ma se il bombardamento non ha neppure questo scopo, e tende puramente e semplicemente ad uccidere, come hanno fatto inglesi e americani a Dresda, allora siamo di fronte ad un crimine imperdonabile. E tuttavia – si noti – per esso nessun inglese e nessun americano ha mai pagato.
Nell’ultima guerra abbiamo visto azioni tremende mirate a scoraggiare ogni resistenza: ne sono buoni esempi in Europa i bombardamenti e soprattutto le due bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki. Ma per queste due bombe Marte assolverebbe senza esitazione gli americani perché l’azione non soltanto era mirata ad ottenere la vittoria, ma in concreto la conseguì. E tuttavia temo che per il Tribunale Penale Internazionale quel bombardamento non sarebbe commendevole, se dovesse giudicarlo.
Il diritto è in difficoltà, in caso di guerra. Sono sempre i i vincitori che giudicano gli sconfitti, ed anche a trovare dei giudici “terzi” c’è sempre il rischio che essi siano “moralmente scrupolosi”, e dunque severi come chiunque non viva o non abbia vissuto quei momenti.
Forse bisognerebbe accettare il principio della “legittimità della vendetta”: i vincitori impiccano i vinti per completare la propria vittoria, senza bisogno di nessuna giustificazione. Che i russi abbiano impiccato Nagy, dopo la Rivoluzione Ungherese, si capisce. Che prima l’abbiano processato no: la vittoria giustifica qualunque cosa salvo l’ipocrisia.
Gianni Pardo, giannipardo@libero.it
22 novembre 2017

IL TPI E LA GUERRAultima modifica: 2017-11-23T11:42:01+01:00da gianni.pardo
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