PHILOSOPHARI

Quando avevo dodici o tredici anni i compagni di gioco mi irridevano chiamandomi “filosofo”. Sono cresciuto e sono diventato vecchio – nel momento in cui scrivo ho superato da tempo gli ottant’anni – e filosofo non lo sono affatto divenuto. Ho visto divenire professori di filosofia persone che al pensiero si interessavano più o meno quanto un carrozziere o un salumiere, mentre io in questo campo non ho fatto un passo e da autentico professionista sono stato soltanto un pensionato. Non ho nemmeno letto molte opere di filosofi, anzi quasi nessuna. Di ogni sistema di pensiero m’è interessata solo la sintesi, quale può darla un buon testo universitario o di divulgazione. Troppi filosofi si sono lanciati in complessi e sistematici modelli di pensiero fondati su un assunto mitologico e personale, basti pensare allo Spirito di Hegel.
Non ho mai avuto abbastanza tempo e abbastanza pazienza, per leggere grandi libri. E non parliamo poi degli autori di cui si sa che hanno scritto libri “grandi e difficili”, come Hegel, appunto. Di lui non tenterei di leggere una pagina perché il nulla non ha sapore neppure in confezione regalo. Al riguardo la penso come Schopenhauer. Ho letto molto di più Voltaire, perché sa anche essere divertente. Montaigne, perché è un amico. Nietzsche, perché certi suoi pensieri (a volte contenuti in brevissimi aforismi) sono lampi di luce folgoranti e indimenticabili. E se ho letto un grosso libro di filosofia è stato quando esso era grosso come numero di pagine, ma piccolo, per quanto riguardava ogni singolo argomento. Ad esempio la Storia della Filosofia Occidentale di Bertrand Russell. E questo anche perché quel gentiluomo ha il senso dell’umorismo e in fondo non sembra prendere molto sul serio né i filosofi né la filosofia.
Sarei dunque assolutamente abusivo, nella confraternita dei filosofi. Né questa esclusione potrebbe provocarmi un dolore, perché verso di loro non ho mai sentito il minimo sentimento di reverenza. Al massimo di simpatia, quando ho potuto considerarli persone che avrei amato frequentare, come Socrate, Hume o Russell, appunto. I grandi nomi, le grandi cariche non riescono ad impressionarmi. Il Papa è per me un signore che ama vestirsi in modo curioso. Ma ci sono perfino periodi dell’anno in cui la gente comune può vestirsi come meglio crede.
Ciò che forse val la pena di dire, per onestà, è che il mio non essere un filosofo è stato in un certo senso conseguenza della mia filosofia. Un po’ come Rousseau, che i libri pongono fra gli illuministi, lui che odiava a morte gli illuministi e l’Illuminismo. Il fatto è che il libro della mia filosofia, invece di scriverlo, e magari imporlo ad incolpevoli studenti universitari, l’ho semplicemente vissuto. Come Socrate. Soltanto che, diversamente da Socrate, non ho meritato nessun Platone accanto a me.
Ora chiunque sghignazzerà: “Vuoi vedere che questo imbecille vuole paragonarsi a Socrate?” E allora mi spiego meglio.
Immaginiamo un pittore convinto che la pittura sia morta. Per coerenza, la sua unica opera possibile sarà una tela bianca. E infatti per un mese o due egli appende al muro una tela, come sua opera; poi se ne stanca, va ad aggiungerla alla collezione, in cantina, e appende al muro una nuova tela bianca. Direte che è un pazzo, naturalmente, ma non rimane un pittore? Io sono un filosofo come quel pittore è un pittore. La mia teoria filosofica mi ha ridotto all’afasia. A meno che non siate tanto generosi da chiamare pittore qualcuno che si limita a contemplare tele bianche.
Tutto cominciò quando, ragazzino, fui “convertito” al Cattolicesimo da un amico appena più anziano di me che mi parlò di Aristotele e di Tommaso d’Aquino. Divenni un cattolico fervente e ciò dette un senso all’intera realtà. Poi però, ragionando sulla Fede, mi posi cento problemi e arrivai alla conclusione che quell’edificio razionalmente non stava in piedi. Qualcuno avrebbe potuto chiamare la mia crisi “religiosa” ma in realtà fu “intellettuale”. Prima avevo creduto perché convinto dai ragionamenti, poi smisi di credere perché non sapevo obiettare più nulla ai miei stessi ragionamenti. Avrei preferito continuare a credere ma non potevo nulla contro la mia razionalità e vissi quel cambiamento di prospettiva con autentico strazio.
Per un tempo che a quell’età mi era sembrato lunghissimo, il Cattolicesimo era stato la spina dorsale del mio pensiero, e all’incirca a sedici anni la decostruzione di quella teoria mi obbligò ad accettare il sistema di pensiero risultante da quella demolizione. Non fu impresa da poco. Venendo meno Dio, l’anima e in generale lo spirito, tutto crollò. Fu come abbandonare i grattacieli e ricominciare dalle caverne.
La gente non ci pensa, e non ci pensano neppure i miscredenti, ma non è che si possa togliere Dio dal panorama lasciando il resto invariato. Se Dio non esiste, o se esistendo non si occupa degli uomini (fa lo stesso), e l’uomo non è stato creato da Lui, la vita umana non ha senso. O, almeno, l’uomo non ha più senso di qualunque altro animale. Lo stesso l’Universo, se non è stato creato per un fine, è pura materia, e non può avere uno scopo. Dunque aveva ragione Shakespeare: “La vita è una favola narrata da uno sciocco, piena di strepito e di furore, che non significa nulla”. Non è verità da poco.
L’intera realtà va guardata con altri occhi. Mentre gli uomini credono confusamente che ci sia qualcosa al di là dell’evidenza quotidiana – e parlano di Bene, di Legge, di Morale come di valori oggettivamente esistenti, al di fuori del nostro pensiero personale – in realtà al di fuori e aldilà non c’è assolutamente niente. Il Bene è ciò che gli uomini, secondo i tempi, i luoghi, e gli interessi di chi ha il potere, dichiarano Bene. La Legge non è diversa dal Bene. La Morale, lo dice la stessa etimologia, è il risultato delle convinzioni prevalenti dei singoli. Certo, è meglio che non si uccida, ma soltanto perché, se ci fossero molti omicidi, avremmo paura per noi stessi e non vivremmo tranquilli. L’unica cosa che esiste è la materia. Il mondo in cui crediamo di vivere, quello in cui sembra che ci sia “molto di più”, non è che la rappresentazione mentale di ciò che siamo riusciti ad organizzare, come guide del vivere insieme. Siamo maggiormente intelligenti, rispetto agli altri mammiferi, ma non diversamente intelligenti.
In particolare, la realtà non mostra nessuna prova dell’esistenza di un’anima immortale e per giunta la sua sostanza “spirituale” sarebbe in contraddizione con l’essere all’interno del nostro corpo, come già obiettavo durante la mia crisi religiosa. Ciò che è all’interno e non all’esterno ha una frontiera fisica, e dunque non è spirituale.
Comunque l’anima è un’ipotesi di cui non abbiamo bisogno. Chiunque abbia avuto un cane ve lo confermerà. E ovviamente, non esistendo l’anima e non essendo spirituale, nulla può sopravvivere alla nostra morte. Non ha senso parlare di aldilà, di inferno, di paradiso, di giudizio universale. Siamo degli esseri il cui orologio biologico è programmato per farci invecchiare e morire. I discorsi che i preti fanno in occasione dei funerali sono da schiaffi.
La mia decostruzione fu coerente, spietata, totale. Non rimase in piedi nulla. Non fu soltanto un individuo insignificante come me a rimanere orfano e solo. Divennero dei falliti esistenziali assolutamente tutti gli esseri umani, anche se non se ne accorgevano e si davano delle arie. Qualcuno potrebbe definire questa posizione nichilista, ma era soltanto la conseguenza della morte di Dio.
Questa visione della realtà fece svanire le sovrastrutture, le ubbie e i sogni della società umana. Le nuvole si erano diradate, la visione aveva contorni chiari, addirittura scolpiti, e il Sole non era certo colpevole di mostrare un deserto di pietre. La mia vita non aveva senso e non valeva la pena di strapazzarsi per nessuno scopo. Perché nessun fine valeva nulla. Come scrisse Jules Laforgue: “Et devant ta présence épouvantable, ô Mort, Je songe qu’aucun but ne vaut aucun effort”, e dinanzi alla tua spaventosa presenza, o Morte, mi accorgo che nessuno scopo vale alcuno sforzo.
Perché trascurare la bellezza di albe e tramonti, perché rinunciare al riflesso della luna sul mare, soltanto per non perdere qualche ora di studio o, peggio, un buon voto agli esami? Chi mi diceva che non sarei morto prima di godere del frutto delle mie fatiche? Così ero già il professionista del non far nulla di utile. Ero per la vita contemplativa, senza nemmeno sapere che la raccomandava caldamente Aristotele.
La parola “cosmo” oggi significa universo, ma in origine significava “ordine”. Infatti gli uomini credono di vivere in un universo ordinato. In realtà, già allora, gli uomini erano per me degli animali nemmeno tanto pensosi, e certo non tali da meritare la qualifica di “sapiens”. Il panorama intellettuale risultante dalla mia crisi adolescenziale, se vogliamo chiamarla così, può far paura, ma per un’intera, lunga vita, esso mi ha fornito un indefettibile orientamento che nessun fenomeno mai è venuto a turbare. Forse l’ho pagato caro, ma non è stato un cattivo acquisto.
I principi che reggevano la società umana erano privi di base. Dostoevskij ha sbagliato, scrivendo la famosa frase: “Se Dio è morto allora tutto è lecito”. La morte di Dio non è l’autorizzazione a divertirci come ragazzini incustoditi, è l’ordine di farci carico di noi stessi e del nostro destino. Io sentii allora il bisogno di costruirmi una morale e per fortuna la trovai, d’istinto, nell’utilitarismo. “Vivi moralmente perché vivere in modo morale è più comodo che vivere in modo immorale”. Naturalmente ciò implicava che, se l’immoralità mi fosse venuta comoda e non avesse comportato rischi, avrei dovuto adottarla con entusiasmo. Dunque in campo sessuale sono sempre stato del tutto immorale. Ciò che due adulti consenzienti possono fare di comune accordo non riguarda affatto i terzi. Sono stato per l’eutanasia, per le unioni degli omosessuali, e per la libertà di ogni comportamento che non riguardi gli altri.
Forse la tragedia della mia adolescenza fu determinata dall’aver preso tanto sul serio la religione e le sue implicazioni. Mentre per molti Dio è una convenzione fra le altre, per il teologo, venuto meno quel pilastro, vien giù tutto. Rimane un cielo vuoto e, sotto di esso, una realtà puramente materiale. Tutto ciò di cui la gente si riempie la bocca – gli ideali, il senso della storia, le religioni, le filosofie, i pregiudizi e perfino le superstizioni – sono scomparsi. Tutte le cose cui la gente attribuisce una sorta di esistenza autonoma, divengono inconsistenti idola. Un modo di dare sostanza a semplici concetti. Un’allucinazione prodotta dal linguaggio, quasi che ogni parola rimandasse ad un oggetto effettivamente esistente, dietro di essa e al di là di essa.
Del resto, non è forse questa l’origine del concetto di anima? Che cos’è, questa cosa impalpabile, se non un’indebita sostanzializzazione del pensiero? L’unica cosa certa è che pensiamo e il pensiero non è un “qualcosa” in sé: è soltanto l’attività del cervello, come il movimento del braccio è l’attività del braccio. Il nostro stesso “io” non esiste in sé, è soltanto il momento in cui col pensiero ci riferiamo a noi stessi.
La decostruzione delle illusioni è seria quando è totale. Purtroppo, quando riesce, piuttosto che scrivere un libro per enumerare tutte le cose che non esistono, diviene più facile indicare ciò che è rimasto: ed è rimasta soltanto la materia.
Non potevo fare una carriera di filosofo, se tutto ciò che avevo da dire era: “Non c’è niente da dire”.
Gianni Pardo,
giannipardo@libero.it
20 febbraio 2018

PHILOSOPHARIultima modifica: 2018-02-20T11:06:46+01:00da gianni.pardo
Reposta per primo quest’articolo