IL MONDO È COME L’AFGHANISTAN

Gli americani si ritirano a rate dall’Afghanistan e i Taliban riconquistano a rate il territorio. Il finale è chiaro: i Taliban comanderanno di nuovo in Afghanistan e questo Paese ridiverrà ciò che era quando George W.Bush decise da un lato di dargli una lezione – e fin qui! – ma anche, stupidamente, di portarlo nel mondo civile contemporaneo.
Gli esseri umani spesso non sono liberi. A parte la schiavitù, tanto antica, a parte le malattie e la miseria, per le quali meritano sincero compianto, soffrono anche di catene immaginarie. Non meno solide di quelle reali. Basta vedere i film del tempo e si nota che nel dopoguerra tutti gli uomini portavano il cappello. Oggi invece non lo fa nessuno. Neanche quando fa veramente freddo. Possibile che ci siano state intere generazioni appassionate di cappelli, e ora generazioni che li odiano? Il fatto è che in quel tempo tutti consideravano “obbligatorio” il cappello, mentre oggi è obbligatorio non metterlo. Il fenomeno è banale ma esemplare. Se a un poliziotto dei film di Humphrey Bogart si fosse chiesto: “Perché porti il cappello?” avrebbe reagito con il più totale stupore, quasi la domanda fosse stata: “Perché hai il naso in mezzo alla faccia?”
La morale, gli usi, i costumi di un popolo, per chi ne fa parte, sono altrettante ovvietà. Non soltanto gli interessati le accettano acriticamente, ma non sono neanche disposti a metterle in discussione. Inutile chiedere agli iraniani perché le donne debbano andare in giro velate. Non sanno neppure se sia un obbligo religioso o no, ma per loro una donna perbene va in giro velata. E basta.
Ecco perché i Taliban finiranno col comandare di nuovo in Afghanistan. Gli americani hanno creduto di regalare a quel Paese la libertà, magari facendogliela assaggiare per un decennio, ma ignoravano che quel vantaggio, per loro, non vale nulla rispetto alla tradizione, che loro confondono con una religione intesa nel senso più bigotto e oscurantista. I loro pregiudizi sono stati dettati da Dio.
Qui è giusto inserire un’osservazione. Forse molti hanno notato come, nei Paesi che sono stati liberati da un’oppressione – per esempio le regioni dell’Iraq da cui il sedicente Stato Islamico è stato scacciato – ci sia un enorme sospiro di sollievo. Le immagini mostrano uomini felici di tagliarsi la barba e di fumare, e accanto a loro donne sorridenti, a viso scoperto. Significa che adotteranno modelli occidentali? Meglio andarci calmi.
In primo luogo i giornalisti potrebbero aver scelto di filmare il gruppo di persone che dimostra la loro tesi. Poi i casi sono due: se le norme imposte dall’oppressore erano estranee alla civiltà locale, la manifestazione di sollievo è autentica; se invece il Paese era vicino alla mentalità degli oppressori, allora quel giubilo è una follia passeggera. Dopo la momentanea vacanza, si tornerà alla normalità. Insomma mi chiedo con tristezza se le ragazze afghane, quelle che recentemente sono state felici di andare a scuola, non troveranno naturale, quando i Taliban torneranno al potere, che il regime vieti alle loro figlie di essere alfabetizzate.
Ma se queste sono le catene sociali, più incomprensibili e imperdonabili sono le catene che gli uomini impongono a sé stessi. Quelle che un tempo si chiamavano manie e nevrosi. Il timido che non osa corteggiare nessuna donna non riesce a comprendere che la sua impossibilità è soltanto un pregiudizio. Non basta dirgli: “Tu provaci, al massimo ti manda al diavolo”. Perché c’è qualcosa che lo frena in modo irrimediabile. Se proprio tentasse l’impresa, la sua formula spontanea sarebbe: “Ho deciso di dirti che mi piaci ma, ti prego, dimmi immediatamente che non ti piaccio. Così finisce lo strazio che mi sto imponendo”. Nello stesso modo il giocatore non riesce a non rovinarsi al tavolo verde, la donna religiosa e morigerata esagera al punto che rimane zitella, il dongiovanni compulsivo esagera fino a rendersi ridicolo. Un amico modenese mi raccontava di avere conosciuto un maniaco delle “avventure”, che aveva tradito sua moglie durante il viaggio di nozze. Non si finirebbe mai. L’ipocondriaco ha paura di malattie cui gli altri non pensano neppure, e la sua vita ne è gravemente limitata. Lo spaccone corre dei rischi inutili soltanto perché non può fare a meno di cercare lo stupore del prossimo. Il mitomane si fa giudicare un imbecille. La nota comune di tutti questi casi è l’incapacità di vedere queste catene, e soprattutto di spezzarle. L’uomo libero è l’eccezione, anche nella più avanzata delle democrazie. Già è difficile la diagnosi, figurarsi la terapia.
È libero l’uomo fortunato che non ha mai trascurato una coraggiosa autoanalisi ed è stato disposto a contrastare le sue proprie tendenze.
Gianni Pardo, giannip.myblog.it
4 gennaio 2017

IL MONDO È COME L’AFGHANISTANultima modifica: 2017-01-04T15:57:03+01:00da gianni.pardo
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3 pensieri su “IL MONDO È COME L’AFGHANISTAN

  1. Mi pare di poter dire quanto segue:
    E’ doveroso il rispetto per il prossimo, singolo individuo o popolo che sia.
    Se una differente cultura ci appare, per certi aspetti, criticabile, possiamo certo
    discuterne, ma con tatto e cautela, senza la pretesa d’avere la verità in tasca.
    La ragazza afghana trova naturale restare ignorante? Buon pro le faccia,
    chi siamo noi per correre a “liberarla”?

    La nostra cultura, essenzialmente illuministica, ci induce al pregiudizio negativo riguardo la tradizione. Essendo la tradizione un insieme di pregiudizi, siamo affetti
    dal pregiudizio del pregiudizio.
    Se si rinunciasse alla tradizione ogni generazione dovrebbe ripartire da zero e l’uomo non avrebbe mai neanche acceso un fuoco.
    Utilizziamo la debole luce della ragione per rischiarare il palmo di terra che ci sta
    intorno e procediamo con cautela e modestia tra errori e correzioni.

    Lei, caro Pardo, giudica imperdonabili manie e nevrosi.
    Suvvia, un pizzico di carità cristiana!
    D’altronde non scorgo nessun Prometeo all’orizzonte.

    Paolo

  2. Bello (ma pericoloso) il concetto di “necessità di essere liberi da pregiudizi” come “pregiudizio”.
    Tuttavia una nota: il pregiudizio è caratterizzato dall’essere un pre-giudizio. Chi invece sostiene un’idea dopo averla, per così dire, post-giudicata, non ha un pregiudizio, ha un’opinione. E chi apre alla discussione su una pratica, con ciò stesso – appunto – la mette in discussione, e chissà che non cambi parere. Il peggio del peggio è il pregiudizio che non accetta nemmeno la discussione.
    Un’ultima nota: io non giudico severamente manie e nevrosi (nessuno sceglie di essere malato), giudico le loro catene più inammissibili di quelle sociali, perché non sono imposte dall’esterno, ma dalla stessa vittima. Anche se in fin dei conti – dal punto di vista della loro “irresistibilità” – la distinzione è inconsistente.

  3. Tutto molto bello, Paolo, se non fosse che lo stesso ecumenismo si accompagna, sovente, al biasimo per le nostre di tradizioni. Una sorta di razzismo al quadrato

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