UN FALSO AMICO, IL CEMENTO ARMATO PRECOMPRESSO

Gli amici – e soprattutto gli ingegneri – mi perdoneranno se invado un campo in cui ne sanno più di me. Lo faccio perché, rispetto almeno ad alcuni di loro, ho una maggiore pratica didattica.
Tutti abbiamo sentito parlare di cemento, cemento armato e cemento precompresso. Conoscere il significato di questi termini è essenziale per capire uno dei grandi problemi dell’edilizia contemporanea, inclusi i grandi monumenti, i ponti, gli stadi e via dicendo.
Mescolato con acqua, il cemento dà un materiale che funge da eccellente collante dei laterizi. Costruendo un muro e mettendo il cemento fra i vari mattoni (ma di solito si usa la malta), si ottiene un insieme solido e coerente. Il Ponte Milvio, a Roma, legato non da cemento, ma da eccellente malta romana, è lì da duemila e passa anni. Perché in esso le pietre (che in linea di principio sono eterne) disposte ad arco “lavorano” in compressione: per far crollare un simile ponte è necessario prenderlo a cannonate.
In seguito però si è constatato che un manufatto di calcestruzzo (cemento, sabbia e pietre mescolati) mentre resiste benissimo alla compressione, non resiste molto alla trazione e alla deformazione. Immaginate un pilastro di cemento di trenta centimetri di lato, alto quattro metri. Come è ovvio, resisterebbe bene ad una pressione di tonnellate. Ma immaginate di usarlo orizzontalmente, fra due sostegni e di caricarlo di un peso notevole al centro. Già stanco di sostenere il proprio peso, il pilastro comincerebbe a cedere, cominciando da una fessura, nella parte bassa, al centro, che si allargherebbe fino a spezzalo in due.
L’esperimento può anche essere fatto con una tavoletta di cioccolato. Posta verticalmente sopporterebbe un certo peso, anche un chilo, ma pensate di mettere la tavoletta orizzontalmente, fra due bicchieri, e provate a caricarla al centro. Non resisterà certo quanto ha resistito verticalmente. Il cioccolato ha una relativamente buona resistenza alla compressione, e una cattiva resistenza alla deformazione. Esattamente come il calcestruzzo.
I costruttori però si sono accorti che, se il calcestruzzo non resiste molto alle deformazioni (come nel caso del pilastro orizzontale, che si chiama “trave”), in compenso il ferro, e ancor meglio l’acciaio, resistono benissimo alle trazioni. E allora è nata l’idea di combinare le due qualità. Immaginiamo quella trave che ha tendenza a spaccarsi sotto al centro. Se noi, proprio lungo la faccia inferiore della trave mettiamo un grosso cavo d’acciaio, la trave, per incurvarsi verso il basso, dovrebbe allungare quel cavo (facendolo passare da dritto a curvo, e dunque più lungo). E poiché il cavo d’acciaio resiste egregiamente alla tensione, di fatto la trave non si rompe al centro e può sostenere un notevole peso. Poi, anche per proteggere l’acciaio dalla ruggine, oltre a coprirlo con un antiruggine, lo si inserisce all’interno del calcestruzzo, non lontano dalla faccia inferiore. Ciò che si è ottenuto è una trave in cemento armato. Il ferro inserito all’interno della trave si chiama armatura. Nella realtà non si tratta di un solo bastone di ferro, ma di un insieme di bastoni, detti “tondini”. Questi vengono inoltre resi ruvidi (zigrinati), in modo che non possano scorrere all’interno della trave, così resistendo in ogni punto alla trazione.
Il cemento armato precompresso è realizzato mettendo in tensione i tondini, in modo che sotto sforzo resistano meglio. Tralasciando la tecnica, la cui esposizione renderebbe troppo lungo l’articolo, va comunque segnalato che, mentre il cemento armato normale mostra dei segni visibili di degrado, permettendo di intervenire in tempo, il precompresso cede di colpo. Per questo, pur apprezzando la sua resistenza, gli ingegneri lo reputano meno “amico” del cemento armato normale.
Vediamo comunque vantaggi e svantaggi del calcestruzzo accoppiato con l’acciaio. Utilizzando le pietre in compressione, l’una sull’altra, si realizzano i muri, i templi greci e, con le invenzioni dei romani, l’arco e la cupola, ma nient’altro. Al contrario, col cemento armato, tecnica costruttiva semplice, non troppo costosa ed estremamente duttile, si può fare qualunque cosa. Grandi solai (pavimenti fra un piano e l’altro), balconi che sembrano non essere sostenuti da nulla, ponti arditissimi, strutture curve, edifici altissimi. Il limite è per così dire soltanto il prezzo e un calcolo esatto delle forze in campo. Ecco perché la stragrande maggioranza delle strutture edili di ogni genere (salvo i grattacieli) è in cemento armato.
Purtroppo questa tecnica ha degli svantaggi. Mentre la pietra è eterna, il ferro è soggetto alla corrosione. Anche se lo si è adeguatamente protetto ed annegato nel calcestruzzo, alla lunga vince la ruggine. Naturalmente, si può ovviare a questo inconveniente usando acciaio inossidabile. Ma, a parte il costo, che sale alle stelle, anche ad ammettere che con l’acciaio inossidabile si raddoppi il ciclo di vita dell’acciaio normale, non lo si rende per questo eterno. E insomma qui si sta dicendo che, se il Colosseo si avvia ai duemila anni di vita, non altrettanto si potrà mai dire di qualunque costruzione in cemento armato. Queste sono “a scadenza”. Fra l’altro l’armatura è annegata nel calcestruzzo, e potrebbe tradire le aspettative, soprattutto dove c’è parecchia umidità (per esempio nelle fondazioni, se c’è una corrente d’acqua sotterranea), se si è vicini al mare, dove la salsedine è particolarmente aggressiva, e via dicendo. Ecco perché non si capisce l’idea dell’ing. Morandi di annegare gli stralli (tiranti del piano di calpestio) del ponte di Genova nel cemento. Chi mai avrebbe potuto verificare il loro stato di salute? E poi, perché affidare al cemento, anche se precompresso, la resistenza alla trazione, che non è il suo mestiere, invece di contentarsi dei “trefoli” (trecce) di acciaio, come quelli che sostengono il vecchissimo ponte di Brooklyn, a New York, nati soltanto per resistere alla trazione?
Per le costruzioni in cemento armato, e soprattutto per i ponti, dove il momento flettente è particolarmente accentuato, si impongono ispezioni periodiche. E poi bisogna rassegnarsi all’idea che, dopo un certo numero di anni, è meglio buttar giù la struttura e rifarla. Non solo si eviterà qualche collasso, ma forse, tenendo conto del costo della manutenzione, si risparmierà qualcosa. Ciò purtroppo urta contro le disponibilità economiche, ed anche contro difficoltà tecniche. Per esempio, per rifare un ponte, bisognerà cominciare col farne a meno durante la costruzione del nuovo.
Insomma l’uomo ha inventato un’eccellente tecnica costruttiva che ha moltissimi vantaggi ma non ha la durata indefinita che hanno dimostrato di avere le Piramidi, il Teatro di Epidauro, il Ponte Milvio e il Pantheon. Non si può avere tutto.
Gianni Pardo, giannipardo1@gmail.com
19 agosto 2018

UN FALSO AMICO, IL CEMENTO ARMATO PRECOMPRESSOultima modifica: 2018-08-19T12:24:52+02:00da gianni.pardo
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5 pensieri su “UN FALSO AMICO, IL CEMENTO ARMATO PRECOMPRESSO

  1. “E poi bisogna rassegnarsi all’idea che, dopo un certo numero di anni, è meglio buttar giù la struttura e rifarla”

    Questa nel caso particolare puo’ essere la soluzione, ma nel caso generale rappresenta uno dei problemi capitali, se non il problema capitale, dei prossimi decenni, sia nel settore dei beni pubblici che di quelli privati: nel tempo, nei decenni, e nel caso dell’Italia addirittura nei millenni, abbiamo accumulato una tale quantita’ di “roba”, e continuiamo ad accumularla a ritmo sempre piu’ accelerato, senza pensare al fatto che da un bel giorno in poi gli oneri di manutenzione avrebbero cominciato ad accumularsi uno sull’altro divenendo insostenibili, e avrebbero cominciato a tirarci a fondo, oltretutto massacrando il nostro amor proprio di fronte a tale compito divenuto oggettivamente impossibile (adesso siamo gia’ nella fase del “volare degli stracci”, in cui tutti accusano tutti gli altri, guardandosi bene pero’ dall’affrontare il problema nella sua peculiarita’ inevadibile).

    Le dichiarazioni piu’ terrificanti, da “pensiero magico”, sono percio’ quelle dei politici che promettono la revisione, il controllo e la riparazione di tutto il patrimonio universale, pubblico e privato, “non importa quanto costi”, spalleggiati dalle sempre piu’ deleterie lobby professionali ed economiche che badano solo al loro interesse tribale.

    Quanto costa purtroppo importa, e non sono i soldi che mancano, e’ la capacita’ presente e futura di eseguire tanti lavori in crescita esponenziale, ammesso poi che ne valga la pena: se la vita dell’uomo si riduce alla manutenzione di sempre piu’ “roba” di cui tutto sommato potrebbe fare a meno, e’ ben grama e triste (oltreche’ piuttosto stupida e destinata ad un inevitabile fallimento, se me lo si concede).

    Se il problema dovesse davvero essere questo che ho esposto sopra (e’ da parecchio che ci medito, mi mise la pulce nell’orecchio un ingegnere che lavorava in un ufficio brevetti vent’anni fa) accusarsi a vicenda non serve a nulla, anzi e’ patetico.

  2. È da un paio di giorni che mi chiedevo: “Come mai nessuno parla del cemento, il famigerato cemento precompresso? Si parla di tutto, ma non di un tema la cui importanza è fin troppo evidente. Capisco che calcestruzzo e tiranti d’acciaio sono soggetti molto tecnici. Ma su cui si potrebbe dire qualcosa di semplice e di comprensibile [Il professor Gianni Pardo lo ha fatto]. Perché non se ne parla?” Come tacita risposta ad una tale domanda è intervenuto il solito mio commento che io riservo ormai alle cose italiane: anche questa omissione deriva dalla strana mentalità italiana portata, nelle discussioni e analisi, a moralismo, polemica, esibizionismo, ideologismo, e che difetta quindi di realismo e concretezza (ma se il problema riguarda l’italiano personalmente, questi si trasforma in un pragmatico imbattibile) . Qui in Nord America, se una tragedia simile si verificasse, il pubblico vorrebbe subito chiarimenti sul materiale con cui il ponte è stato costruito, ossia il calcestruzzo, che è uno dei grandi imputati (insieme con il mancato intervento in seguito agli allarmi sul carattere pericolante della struttura).
    Occorre dire che io ho sempre attribuito il mio senso pragmatico, cosi’ diffuso nei paesi anglosassoni, appunto al fatto di aver vissuto per tanti anni in Canada; e di aver quindi assorbito “dall’ambiente” una tal mentalità, aggiungendola – è vero – a quella avuta in eredità dai miei genitori, di mentalità “austriaca”). Ebbene vedo che le analisi del professor Pardo, sempre rigorose e profonde, rivelano una forte dose di realismo e concretezza, tanto da dimostrarsi al limite “poco italiane” (o che dio mi perdoni poco “sudiste”). Sono veramente curioso: il professor Gianni Pardo ha forse “perfezionato’ una sua naturale tendenza al pragmatismo vivendo anche lui qualche tempo – la mia è un’ipotesi – in un paese non latino?

  3. Niente del genere, a parte una naturale simpatia per gli inglesi e persino per la loro filosofia, tanto diversa da quella tedesca. Il massimo dei contatti con l’estero l’ho avuto con la Francia.
    Devo molto a mia madre, una maestra elementare piuttosto incolta, ma dallo straordinario e implacabile senso del reale. Io l’ho abbracciato rino a farne la mia religione. Per quanto posso.
    Per il resto la ringrazio.

  4. Ma la cosa, se vogliamo, “divertente” è che il cemento armato viene utlizzato anche per i piloni di fondazione, ad esempio in un altro “ponte Morandi”, a Sabaudia (ma anche in tanti altri), che per definizione lavora in compressione. A che pro? O era (ed è) un fatto di “moda”?
    Secondo elemento: quindi, il cemento armato è “a scadenza”, e ogni tanto – ed il quanto dipende da vari fattori; ma corre avere le “radiografie” dei manufatti – occorre demolire e ricostruire; e mica solo ponti, ma anche dighe, palazzi pubblici e privati ecc. ecc. Bella notizia per i proprietari. Beh, certo, con i tagli dei vitalizi e delle pensioni d’oro si può fare tutto.

  5. Non sarei così pessimista. Basta sapere come stanno le cose, e tenerne conto. Negli aeroplani di linea, le lampadine (oggi saranno a led) venivano sostituite dopo un certo numero di ore di funzionamento, anche se perfettamente funzionanti, perché si sapeva che la loro vita era limitata. Anche per l’edilizia si potrebbe fare altrettanto. Un palazzo deve durare un massimo di cento anni. E dopo novantanove anni vale molto meno di quando era vecchio di soli cinque anni.
    Naturalmente sto solo stabilendo un principio, non sto dando dati precisi. Per questo bisognerebbe ricorrerere ai competenti.

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