MASSAIE E COCCODRILLI-2

Il lavoro è entrato anche in un’altra interessante discussione: la valutazione dei beni. I pensatori del Settecento distinguevano il valore d’uso di una merce dal suo valore di scambio. Il valore d’uso dello zucchero consiste nel fatto che preferiamo un tè zuccherato a un tè amaro. Il prezzo di un chilo di zucchero può variare nel tempo, ma il nostro piacere del tè zuccherato (cioè il nostro valore d’uso) rimane invariato. Ma se, per il singolo, il valore d’uso è pressoché costante, il valore di scambio di ogni merce varia col tempo e con le circostanze (variazione dei prezzi). Se un chilo di zucchero vale tre chili di grano, diremo che il valore di scambio fra le due derrate ha il rapporto uno-tre. Poi, se lo zucchero diviene scarso, il suo valore di scambio aumenta (e ci vorrà più grano per averlo), e viceversa se diviene abbondante. Il valore di scambio di una merce è misurato con i termini del baratto, o col denaro, che quella merce costa.
Alla ricerca di un elemento obiettivo per determinare il valore di una merce, David Ricardo – uno dei fondatori dell’economia classica e dunque uno dei miei idoli – ricorse all’idea che questo valore oggettivo fosse la quantità di lavoro necessaria a produrlo. Metro che, essendo sganciato, almeno teoricamente, dal valore di scambio (nel senso che è costante) è “incorporato” nella merce. Secondo Ricardo, in un’economia di mercato equilibrata, valore d’uso e valore di scambio (prezzo) tendono a convergere. Non intendo rivedere le bucce di Ricardo, non me lo potrei permettere, ma se non credo in niente sarò pure autorizzato a muovere obiezioini.
Innanzi tutto, non vedo a che scopo ricercare il valore oggettivo delle merci. Non serve a niente, e per giunta non è nemmeno detto che un valore oggettivo esista. Quanto al valore d’uso è troppo soggettivo per essere usato come metro del valore oggettivo della merce. Né mi sembra che lo stesso lavoro sia un buon metro, in materia di valore. Se camminando trovo una pepita d’oro da cinquanta grammi, come lavoro mi sarà costata soltanto la fatica di abbassarmi a raccoglierla e come valore di scambio andremmo a parecchie migliaia di euro. Il lavoro “incorporato” in essa è insignificante. Inoltre il tempo e la fatica necessari alla produzione di un bene variano molto nel tempo e nello spazio. Filare la lana con un fuso di legno significava produrre poco filo in molto tempo, mentre una moderna filanda produce moltissimo filo in poco tempo. Il valore dei beni misurato con il lavoro “incoroprato” in essi, è fuorviante. Il contadino del Burundi che gratta la terra con la zappa si affatica come uno schiavo e ricava poco dalla terra; l’americano della “Corn belt” coltiva i cereali con macchinari moderni, sta comodamente seduto e produce infinitamente più grano del contadino del Burundi. Il lavoro incorporato in un quintale di grano del Burundi è costato molto più sudore di quello incorporato in una tonnellata americana ma non per questo potrà essere venduto ad un prezzo maggiore.
Il riferimento alla fatica del produttore – oggi così frequente – risponde a mio parere a un pregiudizio morale, che del resto presumo Ricardo non avesse affatto. La gente sarebbe capace di pensare che bisognerebbe rimunerare più generosamente la merce che è costata molto lavoro rispetto a quella che è costata poco lavoro. Perché essa ha “più valore”. Ma è un errore. In questo campo ho ricevuto una lezione indimenticabile. Parlando con un amico del più e del meno mi è capitato di dire che avevo per le mani una traduzione di lingua francese, e mi sentivo come un ladro perché, venendomi molto facile, andavo come un treno. Quasi mi limitassi a copiare il testo. Soprattutto procedevo molto più speditamente che se la traduzione fosse stata di lingua inglese. Forse, dicevo, dovrei proporre uno sconto al committente. Il mio amico mi smentì con sdegno: “Dici sciocchezze. Al contrario, dovresti chiedere di più. Se per il francese vai tanto veloce significa che sei estremamente competente e il tuo lavoro sarà ottimo. Dunque meriti di essere pagato di più per il francese che per l’inglese”. Aveva perfettamente ragione. Al cliente non importa quanta fatica è costato il lavoro, gli importa soltanto la qualità del risultato.
Non credo nel tempo di lavoro incorporato nella merce come misura del suo valore. Non credo al valore morale del lavoro come elemento che debba influenzarne la remunerazione. Rimane soltanto il valore più pedestre: il prezzo , quale lo determina il mercato. E questo elemento mi basta e avanza, per orientarmi . Il resto è letteratura.
Tutto ciò vale, al passaggio, per sorridere ancora una volta della nostra Costituzione, quando dice che il lavoro deve “in ogni caso” assicurare al lavoratore e alla sua famiglia una vita dignitosa”. Al datore di lavoro del genere di vita della controparte non importa assolutamente nulla, come al lavoratore non importa nulla sapere se i produttori della merce che compra al supermercato siano stati sufficientemente remunerati, per fargli avere quel prodotto a quel prezzo.
Il lavoro non deve assicurare niente a nessuno, a parte la remunerazione al lavoratore e la prestazione al datore di lavoro. Il loro quantum – in un mercato libero – dipende dalla domanda e dall’offerta. Se nel villaggio c’è un solo idraulico ed avete la casa allagata, quell’artigiano potrà richiedere qualunque prezzo e voi dovrete pagarlo. Se invece nel villaggio ce ne sono quattro, cioè troppi, voi potrete tirare sul prezzo, magari fino a non assicurare una vita dignitosa a quell’artigiano e alla sua famiglia. Se poi vi facesse pena, dategli un buon consiglio: che cambi mestiere o luogo di residenza.
Quando si tratta di denaro, la realtà è spietata. E sono spietati anche i moralisti. Costoro sono molto generosi col denaro degli altri o dello Stato, ma al loro badano come tutti gli altri. Nessuno pagherebbe a ciglio asciutto un prezzo abnorme solo per fare vivere dignitosamente la famiglia dell’elettricista o del tappezziere. La realtà non ha mai letto la Costituzione Italiana.
Gianni Pardo, giannipardo1@gmail.com
13 marzo 2019, fine

Ho letto qualche pagina su Marx e mi riservo di commentarla. Si direbbe che il filosofo di Treviri, nel caso del lavoro dipendente (che è un caso particolare di scambio) – capisca l’utilità del capitalista (e la chiama plusvalore) e non capisca l’utilità del lavoratore, che per lui è sfruttato. Se ho capito bene, siamo all’assurdità più completa. Ma mi riservo di scrivere un autonomo articolo, al riguardo.

MASSAIE E COCCODRILLI-2ultima modifica: 2019-03-13T07:28:37+01:00da gianni.pardo
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