GianniP

LA FELICITA’, UN TIRANNO – 2

È vano chiedersi se il sistema economico a capitalismo pubblico sia teoricamente migliore o peggiore di quello a capitalismo privato. Sicuro è che il primo non funziona, perché è contrario alla natura umana.
La conseguenza è drammatica. In questo sistema ciascuno produce poca ricchezza, non essendo spinto dall’interesse personale. E così è fatale che l’intera collettività produca poca ricchezza e sia povera. L’uguaglianza è un bell’ideale, ma non l’uguaglianza nella povertà, per giunta vedendo che vivono agiatamente soltanto i membri del partito dominante.
Il comunismo è fallito come sono falliti tutti gli esperimenti utopici. Ma ciò non ha spento la tendenza a riprovarci. Gli uomini continuano a sognare una società in cui si sia tutti felici e prima o poi sorge qualcuno che quella felicità prima gliela promette, poi impone le sue regole per realizzarla e, fallendo, invece di andarsene, diviene sempre più esoso ed oppressivo.
Purtroppo anche i moderati – quelli che non sognano una totale rivoluzione – rimangono affezionati a quegli ideali che spingono a istituzioni e provvedimenti contrari alla natura umana. Così realizzano un collettivismo attenuato nel quale lo Stato non ha tutti i poteri ma ne ha abbastanza per essere molto presente nella società, fino a frenarla, impoverirla e metterla in crisi. Come avviene oggi in Italia.
Al riguardo si può fare l’esempio paradigmatico del rapporto di lavoro. Qual è l’interesse di chi l’offre? Ottenere il massimo dal prestatore d’opera pagandogli il minimo possibile. E questo è immorale. Qual è l’interesse del lavoratore? Avere la massima remunerazione faticando il minimo possibile. E questo è immorale. Il correttivo naturale di queste due immoralità è che il lavoratore possa rifiutare il lavoro (se la paga è troppo bassa) e la controparte possa non offrire un impiego se non ne ricava un utile.
Nell’economia classica, seppure dopo un periodo di assestamento, il giusto livello della remunerazione risulta dall’incontro della domanda e dell’offerta. Ma come nelle monarchie assolute comandavano i nobili, che sfruttavano la plebe, nella realtà democratica comandano i più e i più sono i lavoratori dipendenti. La legislazione favorisce dunque i più forti (nel voto), imponendo contratti nazionali che stabiliscono remunerazioni e salari non inferiori a certi livelli. Purtroppo poi le imprese chiudono e riaprono in Romania. A questo punto – l’ho sentito con le mie orecchie – qualcuno invoca “il divieto di trasferimento delle imprese”. Dimenticando che si possono portare i cavalli all’abbeveratoio, ma non si può obbligarli a bere.
Nella realtà, qual è il risultato di quelle leggi che dovrebbero favorire i più deboli? Se, dato il livello dei salari, alcuni rapporti non risultano remunerativi per chi assume, aumenterà la disoccupazione. Poi, dal momento che quella legislazione lascia a spasso lavoratori che hanno comunque bisogno di dar da mangiare alla loro famiglia, si crea un mercato parallelo, quello del lavoro nero. I lavoratori sono pagati meno del dovuto, e perfino meno di ciò che avrebbero ottenuto in un mercato libero, e si sottrae allo Stato il gettito delle imposte su quel lavoro. E se da un lato ci saranno datori di lavoro che diversamente non sarebbero entrati nel circolo della produzione, ci saranno anche loro colleghi che nel nero rimangono soltanto perché avidi e senza scrupoli. Più il lavoro è regolamentato sulla base di malintesi ideali di giustizia sociale, peggio va l’economia. Si è visto nella Russia sovietica, si vede nell’Italia attuale.
Analogo discorso si può fare per la sanità pubblica. Abbiamo un’organizzazione che costa un’iradiddio e vorrebbe offrire il meglio, gratis, a tutti. Di fatto offre un servizio molto mediocre, e a volte, e nei momenti peggiori, è proprio carente: si pensi ai Pronto Soccorso. La nostra sanità il meglio lo offre, ma soltanto a chi può pagarselo.
L’umanità si è liberata del comunismo ma non si libererà mai della spinta collettivista. Forse perché quella tendenza, offrendo apparentemente vantaggi gratuiti (cosa che l’apparenta al furto) trova un addentellato nella natura umana. I cittadini si accorgono dei suoi guasti soltanto quando finalmente vedono che ciò che speravano di avere gratis lo stanno pagando più caro che se avessero deciso di occuparsene da sé. Soltanto allora le società danno un risoluto colpo di timone verso la libertà, per poi ripartire a poco a poco verso il collettivismo. Forse anche per questo Fukuyama aveva torto e la storia non finirà mai.
Gianni Pardo, giannipardo@libero.it
2. Fine
20 novembre 2017

LA FELICITA’, UN TIRANNO – 2ultima modifica: 2017-11-21T06:25:47+01:00da
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