NEVER TOO BIG TO FAIL

La parola “pregiudizio” è più esplicita di quanto non sembri. Significa: “affermazione data prima di avere sufficienti ragioni per darla”. E tuttavia esso rimane seducente. Orienta le opinioni, semplifica i problemi, fa sentire al sicuro e ben corazzati contro i dubbi. E proprio per questo chi lotta contro i pregiudizi fa un po’ figura di don Chisciotte. Ne so qualcosa anch’io, perché da anni lotto contro un’idea: “l’Italia non rischia nessun disastro”. Fino ad ora ho solo ottenuto di essere considerato un menagramo. “Lo annunci da anni e non è successo niente”.
Il fatto che un disastro non si sia ancora verificato non significa nulla. Se in linea di principio esso fosse fatale, non si verificherà soltanto se si cambiano le condizioni date. Ecco un esempio. La Tour Eiffel fu progettata e costruita per celebrare il centenario della Rivoluzione Francese, nel 1889. La struttura fu giudicata un obbrobrio da tutti gli artisti e gli intellettuali francesi, e si contava di abbatterla dopo quella data. Poi si sa com’è andata, e la Torre è ancora lì. Ma come mai non è stata mangiata via dalla ruggine, in centovent’anni? La risposta sta nella manutenzione. Dal momento del montaggio essa è stata costantemente ridipinta, per proteggerla dall’ossidazione, ed è soltanto per questo che abbiamo la Tour. Non importa che sia il simbolo di Parigi, non importa che sia alta oltre trecento metri, ciò che importa è il costante lavoro di riverniciatura. Di fronte a qualunque organismo, non bisogna chiedersi quanto sia grande e quanto sia glorioso, ma se la manutenzione è sufficiente.
L’Italia è un Paese dal valore storico e artistico straordinario. Ma la sua grandezza è garanzia che non crolli, che non fallisca? Nient’affatto.
Ai tempi dell’imperatore Adriano, l’Impero Romano era immenso ma male amministrato, gravemente corrotto ed esoso in materia fiscale. Col tempo aveva perso le sue grandi qualità militari, e tuttavia era tanto amato (anche dai popoli che aveva conquistato) che si reputava inimmaginabile che potesse venir giù. Non soltanto era too big to fail, troppo grande per fallire, ma persino i suoi nemici sognavano più di impadronirsene che di distruggerlo. Ma la manutenzione era pessima e si arrivò all’inevitabile esito finale. Chi è too big crolla eccome, con l’unica differenza dell’entità del tonfo.
La Fiat era ritenuta troppo grande per fallire e per questo i sindacati l’attaccavano con la serena coscienza di chi sa che, comunque, non farà un gran danno. E invece quella grande impresa è arrivata al fallimento. Se Sergio Marchionne l’ha salvata, è perché l’ha tirata fuori dall’Italia e l’ha portata in un ambiente in cui nessuno cercava di assassinarla. Soltanto così l’ha potuta salvare. Mentre, se il problema si ponesse per l’Italia stessa, non si può certo concepire di portarla altrove.
Sono venuti giù l’Impero di Alessandro Magno, quello di Roma, quello di Bisanzio, quello dell’Austria e quello della Gran Bretagna: smettiamola con il feticcio del too big to fail. Chiediamoci seriamente se sì o no l’Italia sia in pericolo, senza fermarci al pre-giudizio.
L’attuale governo è in carica da due mesi e sarebbe stupido azzardare bilanci. Siamo ancora agli annunci, alle promesse, alle previsioni. La maggior parte dei verbi sono coniugati al futuro. Ma sono coniugate al futuro anche le difficoltà. E alcuni dati permettono di azzardare previsioni.
Governare è oggettivamente più difficile di quanto generalmente si creda. “Le idee camminano sulle gambe degli uomini” e analogamente l’azione politica si attua attraverso la Pubblica Amministrazione dello Stato. Questa è un gigantesco mostro senza testa, armato di prassi, regolamenti, controlli, bolli e controbolli, già per sua natura pigro e torpido, e dunque estremamente difficile da guidare. Come non bastasse, dal momento che le sue alte cariche si sono spesso costituite quando al governo c’erano altri partiti, non raramente il mostro attua una resistenza passiva. Basta un’applicazione volutamente miope delle regole e l’effetto frenante è garantito.
In Parlamento l’azione della maggioranza è poi continuamente sorvegliata dalle opposizioni che ovviamente non perdono occasione per criticare, denunciare goffaggini, errori tecnici e danni per alcune categorie di cittadini. Spesso in malafede, ma è il normale gioco della democrazia. Dunque l’impopolarità comincia già in Parlamento.
Il governo è anche sorvegliato, non sempre benevolmente, dai membri della sua stessa maggioranza. Mentre chi decide a volte punta al bene del Paese, i parlamentari si preoccupano della reazione del loro elettorato e dunque delle prossime elezioni. Da noi ci sono sempre “prossime elezioni”. Sarà pure vero, come dicono a Napoli, che comandare è il più grande piacere, certo è un piacere scomodo.
E questi limiti sono nulla rispetto al più grande di essi: la realtà. Se la politica è l’arte delle scelte è perché i desideri sono infiniti e i soldi sono pochi. Quanto all’Italia è in un momento in cui ha disponibilità minime, se non nulle. Chi ha una scarsissima libertà di manovra deve scegliere che cosa fare e che cosa no, preparandosi a fronteggiare l’insoddisfazione della nazione. Infatti i fischi saranno sempre più sonori degli applausi. Ecco perché pressoché ad ogni legislatura si cambia maggioranza.
Per giunta la gente, con mentalità infantile, pensa che, se qualcosa non si attua (per esempio contrarre ulteriori debiti) ciò avviene perché c’è Qualcuno che dice: “Ti vieto di farlo. Guai a te se lo fai”. E molti hanno la tentazione di rispondere: “Ed io lo faccio lo stesso”. In realtà le cose non vanno affatto così. Se un segnale, prima della curva, ci prescrive come velocità massima 50 kmh, e noi andiamo a 100 kmh, non è che il cartello ci sculacci o pianga sulla nostra perdita. Se ci rompiamo l’osso del collo è colpa nostra, non sua. Il pericolo è la curva, non il cartello. E nell’azione politica non è Qualcuno che ci limita, sono i dati di fatto.
L’Italia è in crisi economica e non ha riserve da spendere. Per spendere, dovrebbe contrarre debiti, e i mercati potrebbero dubitare della nostra solvibilità. Potrebbero dunque non comprare i nostri titoli, richiedere uno spread a 700/800 punti, farci fallire o forse soltanto imporci la Troika. Per non parlare della fine dell’euro ed anche dell’Unione Europea.
Chi deciderebbe quella crisi di fiducia? Nessuno. La Borsa è dominata, in tutto il mondo, da una infinita miriade di teste pensanti, ognuna delle quali è preoccupata soltanto del proprio interesse. Queste teste sono soggette ai dati obiettivi ma anche alla loro emotività e il risultato totale è l’imprevedibilità. Ovviamente, se si dà ai mercati qualche ragione per essere ottimisti, saranno ottimisti, e viceversa se si dà loro l’occasione di essere pessimisti, ma sempre con notevole aleatorietà. E sia l’ottimismo, sia il pessimismo tendono a fare valanga.
A parere degli esperti, la situazione italiana è tale che una minima spinta negativa potrebbe far scoppiare il putiferio. Il governo non era ancora in carica (o lo era da qualche giorno) e per un commento economico maldestro lo spread è passato da 130 punti a 240. Ed è fermo lì, perché nessuno ha sufficientemente rassicurato gli investitori. I 130 punti di aprile sono soltanto un ricordo. Il nervo è scoperto e basta sfiorarlo per saltare sulla sedia.
Quanto sia difficile governare, perfino quando non si tratta di denaro, ce lo dimostrano le prime azioni del ministro Di Maio, il quale ha cercato furbescamente di attuare una parte del suo programma cominciando con due provvedimenti non costosi: il taglio dei vitalizi e il nuovo decreto sul lavoro precario. Il primo avrebbe dovuto portare soldi allo Stato (clap clap) e il secondo – sempre a costo zero per lo Stato – avrebbe dovuto avere il plauso dei giovani e dei sindacati (clap clap). Purtroppo la realtà è spietata. Infatti il primo provvedimento, a parere di moltissimi, è anticostituzionale, e rimbalzerà come una palla di squash, con notevoli spese per lo Stato. Il secondo, a parere degli imprenditori. dell’Inps e della Ragioneria dello Stato, rischia di provocare piuttosto la perdita di posti di lavoro che la loro stabilizzazione. Quando gli hanno fatto notare queste cose, Di Maio è andato su tutte le furie, e non si è reso conto che il problema non è se i competenti lo criticano, il problema è se abbiano ragione. Perché contro la Corte Costituzione e contro i fatti non potrà assolutamente nulla, se non subire i sarcasmi della nazione.
Né la popolarità di Matteo Salvini basterà a sollevare la maggioranza. Fino ad ora il Ministro dell’Interno ha ottenuto grandi risultati e il suo consenso è schizzato verso l’alto: ma l’effetto “migranti” è destinato a spegnersi. Se la chiusura all’immigrazione avrà successo, diverrà routine. Se non lo avrà, gli si ritorcerà contro. E comunque per la maggioranza tutto si giocherà non sui migranti, ma sulla realizzazione del “contratto”. E qui sta il problema.
La flat tax e il cosiddetto reddito di cittadinanza non sono a costo zero, sono finanziariamente in concorrenza e sono inevitabilmente destinati a sbattere contro la resistenza del ministro dell’economia. Giovanni Tria – cioè colui che ha il dovere di evitare l’allarme dei mercati – è difeso dal Presidente della Repubblica, dall’Unione Europea e soprattutto dalla realtà. Non solo l’Italia non si può permettere pazzie ma, se i nostri dioscuri cercassero di imporsi, e Tria si dimettesse, già questo potrebbe far scoppiare il finimondo. In Borsa e nell’intera Europa. Qui si maneggia dinamite.
Il difetto è nel manico. Se quel narcisista di Adrian Bolt dice che correrà i centro metri in dieci secondi (36 kmh), l’applaudiremo. Se invece dicesse che correrà i cento metri in sette secondi (51 kmh), prima ci metteremmo a ridere e poi, quando stesse ancora ansimando per la fatica, lo tratteremmo da sbruffone. Nessuno che non sia uno sciocco prometterebbe mai un’impresa impossibile. Nello stesso modo, per i partiti al governo, l’alternativa è fare, e forse portare al fallimento il Paese, o non fare, ed essere squalificati dagli elettori.
E tutto ciò non è colpa dei due Vice-Presidenti del Consiglio. La colpa è dei loro programmi che condannano chiunque a fallire. In questi casi i francesi dicono: “Avoir les yeux plus grands que le ventre”, avere gli occhi più grandi dello stomaco, e gli inglesi “To bite off more than you can chew”, mordere un boccone troppo grande per poterlo masticare. Propositi da imbecilli. Noi, più poeticamente, diciamo “gettare il cuore oltre l’ostacolo”: ma è un’espressione stupida. Quella pompa meglio tenercela nel costato. In politica il marinettismo non funziona. E del resto, non funzionò nemmeno in letteratura.
Gianni Pardo, giannipardo@libero.it
24 luglio 2018

NEVER TOO BIG TO FAILultima modifica: 2018-07-24T19:50:05+02:00da gianni.pardo
Reposta per primo quest’articolo

5 pensieri su “NEVER TOO BIG TO FAIL

  1. Gli italiani hanno scarso senso civico, ed ecco la ragione dei regolamenti, controlli, bolli e controbolli. Si aggiunga che anche i pubblici amministratori sono italiani.
    La spesa pubblica andrebbe ridotta al venti per cento, un sogno.

    “come dicono a Napoli, che comandare è il più grande piacere”
    Pur napoletano, non la sapevo. Conosco invece la versione siciliana, che mi pare più espressiva: “comandare è meglio che fott…..”
    Paolo

  2. L’articolo mi sembra decisamente ragionevole & opportuno e potrebbe forse essere sintetizzato nel classico & prezioso invito (dal sapore un po’ calvinista) al rispetto del SENSO del LIMITE: come accade in demografia e in tanti altri ambiti, infatti, i numeri hanno un peso ‘oggettivo’ e (quindi) anche cose come il debito pubblico NON possono/NON devono crescere in maniera illimitata, pena un clamoroso ‘default’ in salsa sudamericana con tutte le gravi conseguenze economico-sociali del caso: default che indubbiamente la demagogia sparsa a piene mani & la retorica misticheggiante nazional-sovranista attualmente dominanti in Italia (e in mezzo mondo) NON bastano a evitare e anzi, al di là di determinate buone intenzioni di fondo, possono favorire…

  3. Può benissimo darsi che abbia ragione lei.
    Una volta ho perduto non so quanto tempo per conoscere l’origine del detto secondo cui Giove rende pazzi coloro che vuol perdere, e alla non l’ho saputa0 Ho imparato a rassegnarmi..

I commenti sono chiusi.