IL SENSO DEL DOVERE

Il senso del dovere è la tendenza del singolo a fare ciò che reputa giusto ed è suo compito, anche se nessuno lo controlla, anche se nessuno gli dirà grazie, anche se personalmente non ne ricaverà nessuna utilità. La lode per questa tendenza nasce dal totale disinteresse e dall’altruismo che la caratterizza. E tuttavia, se la si esamina più da vicino, la prospettiva cambia radicalmente.
Prima di apprezzare il cosiddetto senso del dovere bisogna chiedersi se il risultato dell’azione sia opportuno o inopportuno, positivo o negativo, morale o immorale. Infatti si può fare il male anche con le migliori intenzioni.
Al riguardo può essere utile un parallelo con l’obbedienza. Bisogna intanto dire che l’obbedienza è dichiarata “virtù” da coloro che desiderano essere obbediti. E non si tratta certo di una fonte obiettiva. Poi, se è sbagliato il comando , sarà sbagliata anche l’obbedienza al comando. Il sicario che uccide un rivale del capobanda perché il capobanda gliel’ha ordinato non avrà certo fatto un’opera lodevole. Né era una virtù quella dei militari tedeschi che, avendo la possibilità (non tutti l’avevano) di sottrarsi al programma di eliminazione degli ebrei, hanno partecipato alla Shoah “perché obbedienti”.
L’obbedienza e il senso del dovere due facce della stessa medaglia: si obbedisce a ciò che altri reputa giusto, mentre si fa per senso del dovere ciò che noi stessi reputiamo giusto. Ma in ambedue i casi ciò che dà valore all’azione è lil suo essere positiva, non il fatto che si sia compiuta per supposti motivi morali. Se è sbagliata, se è negativa, l’obbedienza e il senso del dovere non sono sufficienti scusanti.
Il senso del dovere inoltre riceve molte lodi perché è astratto, e non ci si accorge che questa astrattezza è il suo peggior limite. Una pulsione che prescinde dal suo contenuto fa dimenticare il valore delle azioni da compiere. E questa può essere una qualità soltanto per chi ha il potere di determinare il contenuto del comportamento richiesto: perché non ha più il dovere di giustificare il proprio ordine. Così chi obbedisce diviene un semplice strumento acritico nelle mani di chi comanda. E questa è la condizione di uno schiavo, non di un uomo libero.
Chi è libero, chi vuol essere libero si chiede se e perché debba fare qualcosa. E soltanto dopo avere attentamente esaminato il problema ed avere approvato un comportamento generoso e disinteressato, potrà farsene una regola. Non certo per un astratto e immotivato imperativo .
Purtroppo, ragionando così, si entra in conflitto col grande Immanuel Kant. Questi pose a fondamento della morale non uno specifico principio (quale potrebbe essere stato il bene o l’utile) ma un astratto dovere, da lui chiamato “imperativo categorico”. Ma quel grande filosofo credeva in Dio e dunque si può pensare che reputasse quel “tu devi” un imperativo messo nel cuore dell’uomo da Dio stesso. Se non fosse che proprio Kant aveva prima provato che l’esistenza di Dio non può essere dimostrata. Questo crea un insuperabile circolo vizioso. Infatti la bontà del contenuto dell’imperativo categorico sarebbe garantita da Dio, ma nulla garantisce che Dio esista, e dunque nulla garantisce che quel contenuto sia buono.
Ma questo è un genere di problema per il quale il mondo contemporaneo non ha una grande sensibilità. Oggi si prescinde da ogni innatismo e da ogni metafisica, e si tende dunque a pensare che l’uomo considera doveroso ciò che gli è stato insegnato essere doveroso. E questo al di fuori e a prescindere da qualunque esame personale della validità dell’imperativo stesso. Ci sono interi Paesi in cui gli uomini sono prevaricatori con le donne perché il loro ambiente gli ha insegnato che l’uomo deve comandare: forse che non farebbero bene a riflettere sulla validità di questo principio?
Il concetto di imprinting è valido anche per gli esseri umani. Basta cambiargli il nome e chiamarlo “condizionamento”. Dunque ognuno dovrebbe chiedersi: “Come mai reputo ovvio questo principio? È veramente valido, o mi sembra valido perché così mi hanno insegnato?”
L’impresa non sempre è agevole. Se è difficile essere liberi dagli altri, non è meno difficile liberarsi da sé stessi e dai propri pregiudizi. Ma è questa l’unica via per divenire realmente responsabili delle nostre azioni e conquistare la nostra libertà intellettuale.
Gianni Pardo, giannipardo1@gmail.com
13 dicembre 2018

IL SENSO DEL DOVEREultima modifica: 2018-12-14T09:45:37+01:00da gianni.pardo
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3 pensieri su “IL SENSO DEL DOVERE

  1. La virtu’ del dovere come obbedienza a un comando esterno gerarchicamente imposto probabilmente trova la sua ragione nell’esser l’uomo un essere preminentemente sociale, per natura tendente all’organizzazione tribale, la cui “potenza” viene moltiplicata proprio dal suo riuscire ad agire in societa’ organizzate e gerarchiche (l’associazione a delinquere se non erro e’ un’aggravante proprio perche’ piu’ potente nel suo delinquere, per quanto sia ovvio che un uomo all’interno di quell’associazione sia meno libero e meno obiettivo e quindi meno responsabile, quando non nel tutto impossibilitato nel compiere un’autonoma e “libera” valutazione morale). Nelle piccole organizzazioni tribali della preistoria l’organizzazione era orizzontale e poco o nulla gerarchica, mentre nel mondo ipercomplesso e superorganizzato e specializzato di oggi, sara’ anche vero che si esagera coi diritti, ma in realta’ sono i doveri che si sono moltiplicati in maniera esponenziale e ingestibile per un normale cervello adattato geneticamente alla semplice organizzazione tribale. Oggi le guerre le vincono gli eserciti di massa e obbedienti, non necessariamente limitati alla organizzazione militare propriamente intesa, di cui la scuola stessa e’ tutto sommato una replica e una preparazione, chi ha fatto la naia seriamente sa che la prima parte dell’addestramento consiste nel letteralmente distruggere la capacita’ di giudizio, autostima e autonomia individuale in funzione dello spirito di corpo, usando ogni tipo di vessazione e umiliazione – in qualche grado infatti la stessa cosa succede a scuola, e in qualsiasi altro tipo di gruppo, solo che tendiamo ad accorgercene solo quando ne siamo le vittime).

    Se la virtu’ dell’obbedienza arriva invece dall'”interno”, da una valutazione interna (“il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”, diceva kant se non erro), si pone il problema di come si formi, da dove arrivi, tale capacita’ di giudizio e conseguente scelta fra alternative diverse. In primo luogo c’e’ da dire che per i cultori del determinismo, la questione non si pone nemmeno, dato che qualsiasi atto e pensiero e’ predeterminato fin dalle origini del mondo, non esiste alcun tipo di scelta in nessun caso, e tutto cio’ che accade e’ frutto dello svolgersi di meccanismo inanimato e intrinsecamente amorale. Per gli altri, quelli che considerano il determinismo un’ipotesi come un’altra, del sentimento morale condiviso c’e’ una spiegazione, riscoperta piu’ e piu’ volte nella storia, a cui sono stati dati vari nomi, ma nella sostanza sempre uguale nei suoi fondamenti: la “chiesa” intesa come comunione spontanea dei credenti al di la’ di ogni concetto di divinita’, l'”inconscio collettivo” e gli “archetipi” di jung, l'”ideologia” di marx, la “catallassi” come teoria della determinazione soggettiva del valore degli economisti austriaci del secolo XIX, lo “spirito assoluto” di hegel, l’oggettivita’ degli “oggetti sociali” della moderna ontologia della realta’ sociale di derivazione postmoderna (Ferraris), il “mondo delle idee” di Platone, il “mondo 2” e il “mondo3” di Popper. Probabilmente ci sono molti altri esempi, ma mi vengono in mente solo questi al momento.

  2. Articolo interessante e profondo, aggiungerei solamente che il buon vecchio Kant nel rispondere al quesito “Che cos’è l’Illuminismo?” (1784) sottolineò acutamente l’importanza di (sforzarsi di) conoscere/pensare con la propria testa (‘sàpere aude’). Saluti

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