IL PICCOLO BORGHESE IPERSENSIBILE

I motivi per cui non sopporto la volgarità sono così numerosi, che a volte ho la tentazione di prendere in giro me stesso. Ma chi credi di essere? Sei nato piccolo borghese ed hai giocato in piazza, come gli altri ragazzi della tua età. Qualcuno scalzo. Non era certo il prato di Eton. Ma non posso farci nulla, odio la volgarità in tutte le sue forme. Da quella intellettuale a quella sentimentale, come non usare mai i termini madre e padre, e perfino chiamare mamma l’assassina del proprio figlio. Ed oggi in particolare ho scoperto perché odio la volgarità del linguaggio.
Se uno scaricatore di porto si esprime come uno scaricatore di porto, il mio fastidio è minimo. È nel suo mondo, e non vuole certo impressionare nessuno. Viceversa la volgarità dei media mi provoca piccoli accessi di odio impotente. Perché qui la volgarità è una serie di piccole gomitate d’intesa, vecchie e dimenticate tracce di ironia, a volte – e questo è peggio – sfoggio di linguaggio tecnico orecchiato, tanto per mostrarsi superiori all’utente, che quel termine non lo conosce, come non lo conosceva fino alla mattina il giornalista che se ne fa bello. L’uso del gergo della malavita, poi, è talmente usurato da essere divenuto banalità borghese. Ma i giornalisti si credono obbligati ad usarlo, per “parlare come parlano tutti”, come se tutti vivessimo nelle fogne. Così dobbiamo continuamente sentire incastrato invece di dimostrato colpevole, pizzicato invece di arrestato, killer (che al massimo andrebbe usato per sicario) invece di omicida, cantare per confessare, e mille di questi termini che mi fanno il contropelo.
Molti di coloro che usano questi termini, lo fanno come per dire: “Lo so che dovrei esprimermi in altro modo, ma preferisco questo linguaggio perché so che è anche il tuo. Voglio esprimermi come un amico, e perché dovrei mettere la cravatta, se parlo con te? Parlo come faremmo tutti e due, se stessimo cenando insieme in cucina”.
Ebbene, io mi arrabbio come una bestia. Innanzi tutto perché non ho mai concesso questa familiarità ad uno sconosciuto scervellato. Preferisco lo scaricatore di porto di prima, a costui, come amico. E purtroppo non ho modo di dirglielo, lo schermo non ha orecchie. Non posso spiegargli che a casa mia si parla in italiano, con tutti i congiuntivi giusti, forse perché ci costano meno che a Di Maio. Da noi – nientemeno – non è nemmeno morto il futuro anteriore. Sicché vorrei gridare al giornalista: “Ma, caro il mio ciuchino, chi ti dice che io mi esprimerei come te?”
E tuttavia non c’è niente da fare. I giornali sono pieni di questo parlare ammiccante, simil-familiare, inframmezzato di termini inglesi pronunciati malissimo e non raramente usati a sproposito . Per non dire che, proprio coloro che conoscono l’inglese più o meno quanto io conosco il portoghese, usano quei termini senza risparmio, anche senza nessuna utilità. Perché usare gap e spread, quando esiste un semplicissimo “divario”? Perché parlare di breaking news invece che di grande notizia, di gossip invece di pettegolezzo, di wrestling invece di lotta libera, di sequel invece di seguito, e addirittura di prequel invece di antefatto? Come si diceva in un film, “chi parla male pensa male e vive male”.
Ma soprattutto, perché credere che solo il gergo e solo il dialetto ci facciano sentire veri e vivi? L’italiano non mi ha mai impedito di sentirmi autentico, e dire che l’italiano è la mia seconda lingua, la prima essendo il dialetto. La lingua nazionale non è un limite per la verosimiglianza. Per decenni abbiamo visto film americani doppiati in perfetto italiano, da attori che avevano studiato dizione, e nessuno ha mai trovato i loro gangster o i loro bovari inverosimili.
Noi italiani ci comportiamo come dei lord che volessero mettersi al livello dei loro contadini, dimenticando che qui i bifolchi sono spesso i giornalisti mentre chi è infastidito dal loro prendersi delle confidenze sono degli uomini qualunque che però sono andati a scuola. Magari la scuola di una volta, quella nozionistica e parruccona, col latino, col greco, con la filosofia, con la storia dell’arte, insomma, e tutte quelle materie inutili che nessuno più conosce. Tanto a che servono? Abbiamo tutti una sufficiente cultura cinematografica e televisiva, e “Non è mai troppo tardi” per cominciare a commettere errori di ortografia.
Gianni Pardo, giannipardo1@gmail.com
3 gennaio 2018

IL PICCOLO BORGHESE IPERSENSIBILEultima modifica: 2019-01-03T15:02:23+01:00da gianni.pardo
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