CONTE NON È NESSUNO

Ogni volta che qualcuno, in Italia, vuol parlare di ansia e sospensione, si butta sull’inglese e parla di “sàspens”. Ogni volta che qualcuno dice “sàspens”, io dico, a bassa voce, “s-spèns”. Perché quella è la pronuncia giusta. Come mai tanta cura, come mai una tale programmata e costante reazione ad un innocente errore come tanti? Non voglio che mi entri nelle orecchie una parola inesistente. Non voglio abituarmi a considerare normale ciò che è anormale. Perché spesso non si tratta soltanto di piccoli errori. Qualcuno ha detto che una bugia ripetuta infinite volte diviene verità e ne prende il posto. Dunque l’unico modo per contrastare un monotono errore, una monotona bugia, è ripetere mentalmente la smentita, con uguale testardaggine e uguale costanza. Sento “pèrformans”? Ed io ripeto: “p-fòrmans. Dicono “manàgement”? Ed io: “mànagment”. Per decenni. Per infine essere costretto ad indignarmi sentendo “flet tax”. Dio mio, la vocale è la stessa: o “flet tex”, o “flat tax”, mentre in realtà è “flaet taex”, con la “a” inglese, che non è né “a” né “e”. Ma poi, questo inglese gliel’ha prescritto il medico?
La ripetizione ha una sua pericolosa suggestione. C’è stato un momento in cui l’Europa ha ripetuto e ripetuto il concetto di “razza ebraica”, mentre una razza ebraica non è mai esistita. Eppure così si è passati da “esiste una razza ebraica”, a “loro sono di razza ebraica e noi no”, per infine concludere: “ammazziamoli”.
Quello di reagire immancabilmente alle inesattezze è un esercizio faticoso, ma è l’unica maniera di non darla vinta alla pubblicità, all’ignoranza, alla demagogia. Per esempio, sentiamo dire che il Presidente del Consiglio dei Ministri è Giuseppe Conte. E infatti lo si aspetta all’uscita, lo si ascolta, lo si intervista, lo si filma e si manda in onda il prezioso risultato. Ed io, ogni volta , ripeto senza la minima animosità: “Non è nessuno”.
Non ce l’ho affatto con lui. Per quanto ne so, Giuseppe Conte è un professore universitario di diritto (tanto di cappello), un avvocato, parla inglese, veste benissimo, è garbato. Non è parlando del prof.Conte chei direi: “Non è nessuno”.
Partiamo dalla Costituzione: “Il Governo della Repubblica è composto del Presidente del Consiglio e dei Ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei Ministri. Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i Ministri”. Come si vede non si tratta di funzioni da poco. Il primo comma sembra mettere sullo stesso piano da un lato il presidente, dall’altro tutti gli altri ministri e il secondo gli affida la scelta dei ministri. La Costituzione gli dà tanta importanza perché immagina che egli sia alla testa di una maggioranza parlamentare, un politico che determinerà l’azione dell’intero governo. Se tutto questo è vero, in che misura Giuseppe Conte rientra in questo quadro? La risposta è semplice: in nessuna.
Questo Primo Ministro pesa meno dei suoi vice e anche meno di semplici personaggi come Giorgetti. Non ha scelto lui i ministri, che anzi ha fatto lui stesso parte del pacchetto scelto dai Di Maio e Salvini. È lui che deve avere la loro fiducia, non loro la sua. Insomma questo signore non è il capo del governo perché non è più forte del governo, non ha un suo potere politico, non può minacciare nessuno e non può certo determinare la linea politica del governo. È un facente funzione, un portavoce. Un cappello su una sedia vuota.
Non è colpa sua. Chiunque fosse stato scelto al suo posto sarebbe nelle condizioni in cui è lui. Dunque, dicendo: “Non è nessuno” non si vuole disprezzare quell’uomo, si intende dire che non è il Presidente del Consiglio dei Ministri descritto dalla nostra Costituzione. Ciò posto, se qualcosa si può addebitare al prof.Conte, è che lui tutto ciò sembra dimenticarlo. Concede interviste e, parlando del governo, dice “noi”, mentre per la costituzione dovrebbe dire “io” e per la realtà né “io” né “noi”. L’art.95 della Costituzione recita infatti: “Il Presidente del Consiglio dei Ministri dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile”. Ora c’è qualcuno in Italia che reputi che la politica generale del Governo sia determinata da Giuseppe Conte?
A Conte può essere rimproverato il fatto che ci costringa a ricordare continuamente come stanno le cose, s-spèns, non sàspens. Invece di tendere alla visibilità, dovrebbe tendere all’ombra. Invece di concedere interviste, dovrebbe star zitto. Dovrebbe provare a farsi dimenticare. Una donna non è responsabile delle sue brutte gambe, ma è responsabile di mettersi in minigonna.
Gianni Pardo, giannipardo1@gmail.com
8 aprile 2019

CONTE NON È NESSUNOultima modifica: 2019-04-08T10:41:59+02:00da gianni.pardo
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11 pensieri su “CONTE NON È NESSUNO

  1. No, avendo letto che aveva frequentato un’università americana, presumevo conoscesse l’inglese. E poi dicono che sono pessimista. La verità è che non lo sono abbastanza.

  2. Pronunce all’amatriciana…
    Le parole “inglesi” sono comicamente pronunciate dagli italiani, le cui bocche roteanti, pur capaci d’ingollare senza causare un solo schizzo forchettate maiuscole di pasta al sugo, toppano invece pronunciando l’inglese.
    Qualcuno deve poi aver spiegato agli italiani che in inglese la “a” si pronuncia sempre “e”. Una “e” aperta, strascicata, impigrita, romanesca, da bocca cascante per il troppo vino dopo un lungo pranzo “coll’amici” in una trattoria di campagna. E allora “jazz” diventa “geeezz”, “ham” è pronunciato “eeem”. Il cattivo, “bad” che è pronunciato “beeed” si trasforma così in un “letto”. Il flash del fotografo, pronunciato “fleeesh”, si trasforma in “carne”. Los Angeles diventa “Los Eeengeles”. “Blackout” diventa un voluttuoso “Bleeecaaut” ancora più soave di un’autarchica “panna”
    I baresi eccellono in questa pronuncia e pare che le varie Berlitz school italiane se li contendano a suon di “cash”, anzi di “keeesh”.

  3. Sai che se metti una foto o comunque un’immagine, pochi minuti dopo la pubblicazione il tuo articolo comparira’ nella sezione “news” della pagina dei blog “scelti” http://blog.virgilio.it ?
    In questo modo un pubblico piu’ ampio di lettori potra’ apprezzare il tuo bel blog

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  4. Un momento: qui siamo alla deriva. Perche’ dobbiamo essere tutti sottoposti ad esami di inglese o derisi? Non e’ mai stato vietato italianizzare le parole ed anche gli inglesi anglofonizzano cio’ che vogliono.

    220 Volts (vogliamo prendere in giro gli inglesi?)

    E quando noi parliamo di Maometto e non di Mohammad (chi ce l’ ha messa quell’ acca poi? Gli inglesi) chi ci prende in giro?

    Io non voglio deformare la mia faringe per pronunciare la loro mezza vocale “ae”, semmai deformo le loro parole per farle entrare nel mio linguaggio corrente. Tanto io parlo con altri italiani e se parlo con uno straniero la regola e’ sempre venirsi incontro.

    Per quanto riguarda il povero Conte, lafigura del Presidente del Consiglio e’ depotenziata dalla Costituzione. Non nomina, non licenzia, non surclassa nessun suo ministro e, come ha spiegato la Corte Costituzionale a Berlusconi in occasione del Lodo Alfano sulla protezione da attacchi giudiziari alle alte cariche dello stato, Il presidente del consiglio NON E’ SUPERIORE a nessun altro ministro, quindi non e’ una alta carica dello stato e la sua investitura e’ comunque da parte del Presidente della Repubblica. Piu’ che fare commenti su Conte si potrebbero fare commenti sulla ingegnerizzazione delle nostre istituzioni.

  5. Nessuno mi obbliga a vestirmi bene, e infatti vado in giro costantemente con i pantaloni della tuta, non posseggo né giacche, né cappotti, né cravatte. Ma non posso pretendere che mi si dica un uomo elegante.
    Lo stesso vale per la lingua. Il prossimo ci giudica prima da come vestiamo ma poi, soprattutto, da come parliamo.

  6. Gli italiani, inventori dell’opera lirica, sono ossessionati dai suoni. Il “Suona bene? Suona male?”, test per loro supremo, è una camicia di forza che va a scapito della chiarezza e della ricchezza linguistica: vedi i participi passati di tanti verbi italiani che nessuno in Italia osa pronunciare perché giudicati “cacofonici”.
    Il linguista Aldo Gabrielli ha proposto, senza successo ahimé, che si comincino ad usare i participi “procombuto, penduto, spanduto, striduto, mesciuto, splenduto, risplenduto, fenduto”. Ha scritto Gabrielli (“Si dice o non si dice”, Mondadori, 1976): “So già che tutti arricceranno il naso e diranno che sono orribili; ma solo perché non abbiamo mai fatto l’orecchio a queste forme verbali; tuttavia corrette sono, non ci son santi; e fanno male, malissimo i dizionari e le grammatiche a ignorarle, e peggio a dire che non esistono affatto. La verità è, ripeto, che a certi suoni bisogna abituarsi, come ci siamo abituati a suoni non meno brutti come quelli dei participi perduto, creduto, caduto, bevuto, riflettuto, piovuto, giaciuto, combattuto, taciuto, temuto, piaciuto, cresciuto, rincresciuto, e via all’infinito.”
    Anche secondo me sarebbe necessario fare un grande sforzo collettivo per cercare di non rattrappire ancor di piu’ la nostra lingua, già di per sé non troppo ricca e addirittura un po’ stitica se raffrontata a francese, inglese, spagnolo… L’effetto dei diktat impostici dalle nostre orecchie, sensibilissime ai nuovi suoni, è d’impoverire la nostra lingua. Eppure, attraverso un uso ripetuto, anche la parola che a tutta prima risultava inusuale, strana, cacofonica, cessa poi di essere tale.
    È proprio vero: l’ossessione del “suona bene?” “suona male?” mette in secondo piano l’esigenza dell’efficacia, della chiarezza, della precisione della lingua italiana. E impoverisce inoltre la ricchezza del linguaggio, immiserendo in particolare le forme verbali ridotte solo a quelle che “suonano bene”.
    Ma ecco che l’esterofilia, nostro male cronico, ha un risultato sorprendente sul piano linguistico: gli italiani sono innamoratissimi dei suoni sgangherati della lingua anglo-italiana che trionfa nella penisola. Lingua, l’inglese, che è estranea e ostile al sistema fonetico italiano, ma che viene accolta con voluttà. Perché alla base del “suona male/suona bene” vi è pur sempre un certo snobismo, malattia nazionale, accoppiato al disinteresse per una comunicazione coi comuni mortali – il deprecato popolino – che sia ben chiara. E quello stesso snobismo che favori’ nel passato il latinorum, oggi ci impone quel nuovo latinorum, che è l’anglo-americano (welfare, killer, flop, job act, spending review, e via “cacofonizzando”). Ma nel caso degli anglicismi tutto suona bene all’orecchio, pur cosi’ delicato, dell’italiano, ammalato di esterofilia linguistica; e non solo linguistica…

  7. Claudio Antonelli, mi hai fatto ricordare alla lezione sulle preposizioni articolate della mia maestra delle elementari alla cui memoria solo rimasto legato con affetto.

    collo (con lo), colla (con la)

    oppure il remoto del verbo cuocere:

    io cossi, tu cocesti, egli cosse…

  8. Ragionandoci, magari causa la mia deformazione professionale di addetto alle telecomunicazioni, una lingua e’ un protocollo di comunicazioni ed e’ viva se condiviso con altri che riceveranno i concetti. I vocaboli non utilizzati perche’ non condivisi da tutti vanno a popolare la parte di lingua morta. Vocaboli che causano incidenti di comprensione possono essere abbandonati o sostituiti. Ora non mi vengono esempi validi, solo un anedoto:

    Da ragazzino in professore, non in contesto scolastico, parlando dei miei studi mi ha chiesto (malizioso o forse stronzo??) “e in quali materie sei piu’ deficiente?”. Io ho capito che ha usato il “deficiente” per dire “dove defici”, “dove sei carente” e ho continuato il discorso con naturalezza, ma alla maggior parte dei miei coetanei la parola deficiente aveva un unico solo impiego.

  9. Che sia chiaro, io non sono contro l’uso di parole coniate dagli Americani e che identificano prodotti o conoscenze “made in USA”. Pertanto accetto computer, anche se sono sicuro che l’adozione di “elaboratore”, o di un altro termine autarchico, non ritarderebbe di un nanosecondo l’avanzare dell’informatica. Il fatto è che nella loro precipitazione imitativa, gli Italiani – questo popolo afflitto da un cocente bisogno di seguire le mode, meglio ancora se mode straniere – non si fermano a “computer”. Vanno oltre, ben oltre, masticando parole e frasi mal comprese, senza accorgersi di suscitare il riso. E parlando del ridicolo di chi usa “jackpot” al posto di monte premi, “flop” invece di fiasco – questa parola italiana usata universalmente – “killer” invece di assassino (o omicida, o sicario), e che ricorre gioiosamente all’espressione “traffico in tilt”, che consacra nella Gazzetta Ufficiale l’espressione “question period”, devo dire che trovo molto meno ridicoli i Francesi. Adesso anche la parola italianissima “tifoso”, così espressiva, è diventata rara nei giornali, sostituita sempre più da “supporter”, parola, evidentemente, tecnologicamente più avanzata come lo è computer nei confronti di “calcolatore” o “elaboratore”.
    L’inglese è senz’altro una lingua straordinariamente ricca, bella, e soprattutto utile perché lingua della più grande potenza economica e militare, e inoltre perché diffusa in tutto il mondo. Ma bisogna poterla capire, parlare, in tutta la sua ricchezza, e pronunciarla chiaramente. Allora sì , che potrà sostituire efficacemente, in tutto o in parte, le lingue nazionali, a mo’ di nuovo esperanto. Nel frattempo, parliamo tra noi “come ci ha fatto nostra madre”.
    Le parole “international”, “welfare”, “killer”, “jackpot”, “flop”, comicamente pronunciate dagli italiani, con suoni forti e vibranti che fuoriescono dalle loro bocche come da canne d’organo, lungi dal garantire una patente di cosmopolitismo e di progressismo, riescono solo a far ridere.
    Parlare americano come sembrano voler fare gli Italiani somiglia un po’ al gesto di quelle bambine che si pavoneggiano dopo essersi infilate la gonna e le scarpe della madre, e che incespicano ad ogni passo. Così fanno loro con l’inglese, sorta di formula magica di Aladino, con la quale non riusciranno ad aprire nessuna caverna del tesoro.
    Io so che gli Italiani non possiedono la sensibilità necessaria per trovare ridicolo un popolo che scimmiotta un altro popolo. Ed è, secondo me, un vero peccato.

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