UN SINTOMO: LA LIBIA

Una domanda che molti si porranno distrattamente: “Ma che sta succedendo, in Libia?”
L’atteggiamento disinteressato è comprensibile. In primo luogo, se non ce ne vengono dei fastidi, chi comanda in Libia è cosa che non ci riguarda. In secondo luogo, la situazione è confusa, e la stessa domanda corrisponde a dire: “Non che me ne importi molto, ma non ho capito che avviene. Voi sì?”
La realtà è che siamo in molti, a non capirci niente. Esiste tutto un gioco in cui si incontrano e si scontrano parecchi fattori. C’è una questione di legalità: Sarraj è sostenuto dall’Onu, Haftar no; di potenze: confinanti o lontane, schierate – almeno teoricamente – con l’uno o con l’altro campo: una situazione sulla quale prevale, e con largo margine, la forza militare.
Paolo Mieli, sul Corriere, insiste sul fatto che avremmo il dovere di stare dal lato del potere legittimo, e non vede che sta parlando di un dato ininfluente. Se Haftar, da solo o perché sostenuto da altri, prenderà il potere a Tripoli, nel giro di qualche mese la Libia sarà unificata sotto questo “uomo forte”. Se invece Sarraj riuscisse a resistere, Haftar dovrebbe ritirarsi nei suoi quartieri, e rischieremmo comunque una partizione della Libia, secondo nuove linee di frontiera. Una cosa è sicura: dal momento che, di fronte alla forza, la legalità in politica internazionale non vale niente, non rimane che aspettare di vedere come si concluderanno gli scontri sul terreno.
Ciò che del resto stanno facendo anche le grandi potenze. Il sostegno della Francia ad Haftar sembra fatto prevalentemente di parole, e quello dell’Italia a Sarraj addirittura di mormorii. Quanto agli Stati Uniti, secondo una politica cominciata da Obama (e proseguita entusiasticamente da Trump), visto che non sono coinvolti i loro interessi, non appena si è visto Haftar all’orizzonte, i pochi militari americani, temendo di farsi accidentalmente male, si sono imbarcati e sono spariti.
Certo, se l’Europa invece di essere un club litigioso e sostanzialmente impotente, sapesse parlare con una voce sola – e possibilmente la voce del cannone – la sorte della Libia sarebbe decisa a Bruxelles o a Strasburgo. Ma l’Europa non ne è capace. La Libia è il caso esemplare di un mondo disordinato, in cui non esistono neppure grandi alleanze capaci – sia pure nel loro interesse – di imporre una certa sistemazione. L’egemonia è una prevaricazione a carico dei più deboli, ma spesso offre loro un bene che non saprebbero conquistarsi da soli: la pace.
Un’ultima nota riguarda la terminologia usata in questi frangenti. Per la Libia qualcuno ha parlato di “guerra civile”. Evidentemente è passato molto tempo, da quando l’Europa sapeva molto chiaramente che cosa fosse una guerra. La Libia è un Paese non molto sviluppato, non molto popolato, e certamente non molto forte, in cui si scontrano due fazioni in quella che è poco più di una rissa. I telegiornali parlano commossi di oltre duecento morti, fra cui anche dei bambini (come se le bombe avessero il dovere, o la possibilità, di schivarli), dimenticando quanti morti ci sono stati nella battaglia della Somme o a Verdun. Quanto alla guerra civile, per sapere che cos’è, chiedere agli spagnoli.
Se tutto ciò è vissuto come allarmante, è perché il nostro disarmo morale, il nostro atteggiamento imbelle ci fanno temere il minimo alito di vento. Noi speriamo sempre che siano altri ad occuparsi della nostra sicurezza. Dimentichiamo – noi italiani che calpestiamo il loro stesso suolo – che i romani persero l’impero quando rinunciarono a combattere per sopravvivere e affidarono la loro difesa agli stessi barbari.
Il mondo va avanti a caso. Sembrano salvarsi da questo marasma soltanto Paesi che per la loro forza economica e militare (Stati Uniti), oppure per il loro peso complessivo, sostenuto da una guida forte e unitaria, come la Cina, non esitano ad agire per i loro propri interessi. E fra i forti dobbiamo mettere la Federazione Russa, non tanto per il suo potenziale economico (francamente trascurabile) quanto per la determinazione e la spregiudicatezza di una guida politica che la fa pesare molto più di quanto dovrebbe. Esattamente il contrario di ciò che avviene per l’Europa: un gigante economico castrato dalla sua decadenza. Un continente discorde per temperamento e imbelle per vocazione.
Noi assistiamo da puri spettatori all’intera storia del mondo. Ci limitiamo a sperare che il destino ci risparmi, che altri cavino le castagne dal fuoco, e ci facciamo forti della nostra debolezza, del nostro pacifismo, della nostra superiore moralità. In altri termini siamo come un cane randagio, in attesa che qualcuno ci metta il guinzaglio.
Gianni Pardo, giannipardo1@gmail.com
19 aprile 2019

UN SINTOMO: LA LIBIAultima modifica: 2019-04-19T14:28:39+02:00da gianni.pardo
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Un pensiero su “UN SINTOMO: LA LIBIA

  1. In tutte le guerre contemporanee il numero di morti è molto contenuto, rispetto alle guerre mondiali: così in Jugoslavia, così in Ucraina e cosi anche in Siria, tutto sommato. In parte per il minor numero di combattenti in campo ed in parte perché non ci sono più i generali che mandano allo sbaraglio le truppe come un tempo.
    Si spara da grosse distanze e con livelli di copertura elevati, con rischio relativamente basso per il tiratore ed anche con bassa possibilità di centrare dei bersagli.
    Se guardo le immagini della Siria o della Libia, più che dei soldati mi sembrano gente che spara nel tempo libero e la sera va a casa a mangiare e dormire. E probabilmente spesso è davvero così.

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