ISTANBUL PUO’ ANCORA RISORGERE?

Le civiltà, ha scritto il poeta Paul Valéry, sono mortali. E infatti molte sono morte. Ma alcune di loro sono nate sul sito dove precedentemente si erano sviluppate altre civiltà, quasi fosse un terreno fertile per quel miracolo. Per esempio, il Rinascimento sullo stessa penisola di Roma. E altre, addirittura, sono risorte decine di secoli dopo essere morte: basti pensare che oggi c’è un Paese la cui lingua ufficiale è l’ebraico.
Se consideriamo il punto di vista politico, la civiltà romana è definitivamente morta. Ma, diversamente dalla civiltà faraonica, pure durata migliaia di anni, la civiltà romana ha lasciato tanti figli e tante tradizioni, da chiedersi se non si sia trattato di una morte apparente. Roma non è più caput mundi, ma il latino – per non parlare del suo alfabeto – è la base di alcune delle più importanti lingue; il diritto romano ha influenzato il mondo intero; la civiltà romana è stata tanto apprezzata e tanto rimpianta, da prolungarsi in simulacri viventi, come il Sacro Romano Impero. E comunque Roma è viva nell’apprezzamento della minima traccia che essa ha lasciato nei territori più lontani, da Volubilis, in Marocco, al Vallo di Adriano, all’Anatolia. Gli inglesi, che pure tanto gelosi sono della loro indipendenza, venerano i resti delle loro poche strade romane. Per non parlare delle terme di Bath.
Una morte apparente può anche darsi sia quella della civiltà greca. Troppa parte della nostra cultura è legata a quel piccolo territorio, se è vero che, come ha scritto il Fisher nella sua famosa “Storia d’Europa”, “L’Europa è figlia dell’Ellade”.
Siamo tutti abituati a considera l’Egeo un mare essenzialmente greco, ed in effetti esso lo fu, tuttavia con una precisazione. Mentre il territorio che stava ad occidente di esso era l’Europa, il territorio che stava ad oriente era l’Asia. Oggi questa parola ci fa pensare a territori sconfinati, fino al mar del Giappone, ma allora l’Attica era in Europa e l’isola di fronte, Lesbo, era in Asia. Ma un’Asia che parlava greco. E così, dopo essere andato ripetutamente in pellegrinaggio nella Grecia europea, sono andato in pellegrinaggio nella Grecia Asiatica. Un’Asia in cui trovare Bisanzio, Troia, Efeso.
Sapevo che, ciò facendo, sarei andato in Turchia, ma accettavo la cosa come una inevitabile condizione: Ankara è la guardiana di quei resti che comunque rispetta e conserva forse con maggiore cura di quanto facciamo noi, malati di un eccesso di ricchezza. Dalla Turchia moderna non mi aspettavo certo molto. Troppo recente era la storia ottomana. La consideravo un Paese molto meno occidentale di altri. Infatti, un’eternità prima, ero stato in Tunisia, e l’avevo trovata impregnata fino agli occhi di civiltà francese. Ero stato in Marocco, un Paese musulmano, ma con una sua dignità di vecchia monarchia tollerante. Del resto “Maghreb” significa occidente, e quella parola è anche l’etimologia di “Marocco”. E invece la Turchia fu capace di sorprendermi.
Sto parlando del 1996 o forse del 1997. Istanbul era piena di moschee e la sua reggia, Topkapi, parlava di sultani, di eunuchi, di tirannia e perfino di crudeltà, ma per il resto nella città si respirava la libertà. Istanbul era Europa. Le ragazze giravano in minigonna, Istiqlal, la famosa strada, era inquinata dal rumore del heavy metal che usciva dai negoziacci di musica pop, e tutto spingeva a sentirsi a casa. Quel Paese aveva veramente girato pagina, dopo la sconfitta del 1918. Avevo davanti agli occhi il risultato di una rivoluzione operata dall’alto, da un coraggioso genio della politica come Mustafà Kemal, Atatürk. Un eroe animato dall’indomabile volontà di riscattare la sua patria e rilanciarla nella storia. La nazione era talmente impregnata del suo messaggio, che tutti gli orologi pubblici erano inesorabilmente fermi alle 9,05, l’ora della sua morte. Ancora quasi sessant’anni dopo.
Mi sono subito sentito pieno d’ammirazione per questo Paese che, simile in ciò al Giappone, aveva improvvisamente compreso di avere sbagliato strada ed aveva avuto il coraggio di imboccare quella giusta. Ma sotto la mezzaluna rossa le resistenze furono più forti che a Kyoto. L’Impero, dopo l’irruzione del Commodoro Perry nella baia di Tokyo, fu spinto dal suo Imperatore – praticamente un dio – ad abbracciare la modernità. Mentre Atatürk non dimenticò mai le radici tradizionali e musulmane del suo Paese. Infatti, non fidandosene, incaricò i militari di intervenire nella politica, ogni volta che la rivoluzione kemalista fosse stata messa in pericolo. E così andò per molti decenni.
Naturalmente non mancarono le critiche delle anime belle occidentali. I nostri maestri della purezza democratica non potevano ammettere che la democrazia fosse rimessa sui suoi binari da persone in divisa, anche se poi queste, ad operazione completata, rientravano nelle loro caserme. A Parigi o a Londra la cosa era inammissibile, e dunque doveva essere inammissibile anche ad Ankara. La solita lungimiranza degli intellettuali.
Così a poco a poco i militari persero potere e coraggio, ci fu una volta in cui non ebbero la forza di reagire, e alla lunga ebbero ragione i retrogradi. Con Recep Tayyip Erdogan la rivoluzione kemalista fu a poco a poco cancellata. Chiunque non fosse d’accordo col nuovo sultano, o rischiasse di non esserlo, finiva in galera. I giornali non erano più liberi, anche i giornalisti erano facilmente sbattuti in pensione, o andavano prudentemente in esilio. La religione ridiveniva un’importante componente dell’anima nazionale. Si votava ancora, certo, ma si sarebbe detto che il popolo, invece di essere allarmato da questo ritorno al passato, ne fosse contento. Quasi avesse ritrovato la sua vera anima campagnola, bigotta, antidemocratica. E poiché il nuovo sultano veleggiava col favore di una sorta di boom economico, era difficile opporsi al governo.
La modernità sembrava una causa persa. La nuova Turchia non aveva più l’ideale della libertà laica e repubblicana. Sognava al contrario di essere la potenza egemone di tutti gli Stati sunniti, di cui sposava perfino i pregiudizi e la retorica più insulsa. Per esempio rinnegando la lunga e proficua alleanza con Israele.
Naturalmente, durante tutti questi anni sono stato a chiedermi se il kemalismo fosse stato un sogno. E come fosse possibile che un intero popolo che non aveva neppure conosciuto la Turchia di prima di Mustafà Kemal potesse riabbracciarne usi e costumi. Incluso il peggio di essi. Le civiltà sono mortali, mi dicevo, ma non possono essere morti tutti i turchi che ho conosciuto io, nel mio primo viaggio. Allora la nostra guida, un giovanotto cristiano nella Turchia musulmana al 97%, mi ricordò che nel suo Paese non sarebbe stato permesso avere un partito chiamato “Democrazia Cristiana”. E appunto, mi dicevo, che ne è stato, di quel giovane? Come hanno vissuto i laici turchi questo ritorno a un Medio Evo che anche loro avevano soltanto studiato sui libri?
Sono tornato altre due volte in Turchia, un Paese che non riuscivo a non amare, finché mi sono rassegnato: la Turchia che avevo amato io era morta. E infatti non ci sono più tornato. E tuttavia non riuscivo a rassegnarmi, il rovello non cessava. Se non era morta l’anima turca retriva, malgrado un’ottantina d’anni di kemalismo, come poteva essere morta l’anima kemalista, solo per una ventina d’anni o poco più di Erdogan? Bastava la galera per gli intellettuali, per i giornalisti, per i militari e perfino per i magistrati, per far dimenticare tutto un mondo laico e democratico?
Così mi son rimesso, quasi per gioco, a ripercorrere la vicenda gloriosa di questa parte del mondo. Prima ci fu Bisanzio, un po’ sotto l’egemonia greca, un po’ sotto l’egemonia del “Grande Re”, cioè della Persia. Poi questa città essenzialmente greca divenne greco-romana. Nel senso che, se il greco rimase la sua lingua ufficiale, il latino fu certo molto noto, quando dal IV Secondo Bisanzio divenne Costantinopoli, la capitale dell’Impero Romano d’Oriente. E tale rimase per oltre mille anni, fino al 1453. Da allora quel bastione della cultura occidentale dimenticò le sue radici e la sua storia e Costantinopoli divenne Istanbul. Non parlò più greco, non ebbe più aneliti democratici, non ebbe più la cultura giuridica romana, divenne orientale e tirannica a tutti gli effetti, come se il Grande Re avesse vinto secoli dopo la propria morte. E tuttavia quella civiltà aveva abbastanza forza, in sé, per sopravvivere alla propria morte e alla più totale disfatta del Sultano che l’aveva ereditata. Con Atatürk sembrava partita per un altro giro della storia. Tanto che io stesso non capivo che cosa aspettasse l’Europa a riaccoglierla nel suo seno. La Turchia si era volta di nuovo ad Occidente, pensavo, e se quell’esperimento era già durato tanto a lungo, si poteva anche pensare che sarebbe durato ancora per secoli, senza neppure avere bisogno della tutela dei militari. Mi sbagliavo. Erdogan è riuscito a ritrovare le radici orientali, medievali ed oscurantiste di quel grande Paese, fino a fargli fare un salto indietro di secoli. Ma se a lui è riuscita questa impressionante piroetta verso il peggio, chi dice che i turchi non si pentano di questa avventura, chissà che non si accorgano di quanto sia bella la libertà, condizione che si apprezza soprattutto quando la si perde?
Le recenti elezioni comunali di Istanbul potrebbero essere un presagio fausto, in questo senso. Quella che fu Bisanzio, e a lungo una Costantinopoli che parlava greco, anche se era stata la prima a lanciare la carriera di Erdogan, votandolo suo sindaco, è stato la prima a stancarsene. Oggi questo politico autoritario, che sembrava imbattibile, ha subito la sua prima sconfitta. Infatti è stato abbastanza sciocco da dar retta si suoi consiglieri, quelli che forse hanno sperato che la prima sconfitta, dovuta a poche migliaia di voti, fosse stata un errore. Hanno richiesto una seconda votazione e stavolta la sconfitta si è trasformata in disfatta. Erdogan l’imbattibile è stato battuto, e dal momento che la Turchia è in piena crisi economica e finanziaria, k0avvenire è divenuto incerto.
Se in futuro la Turchia ritroverà la sua democrazia e il suo kemalismo, vorrà dire che quel militare visionario, missionario dell’impossibile, aveva visto giusto: persino un Paese arrivato all’ultimo livello della decadenza, meritava un uomo come lui ed era disposto a seguirlo. Tanto che oggi, finalmente senza la tutela dei militari, potrebbe riprendersi la democrazia. Se invece permettrrà a Erdogan di completare la repressione del dissenso, fino agli eccessi dei sultani di un tempo, sarà segno che la Turchia non era degna di Kemal, e che l’Europa dovrà tenerla lontana ancora per qualche secolo.
Il Turco non sarà più il pericolo che fu per tanto tempo, ma certo rimarrà un estraneo pericoloso.
Gianni Pardo, giannipardo1@gmail.com
27 giugno 2019

ISTANBUL PUO’ ANCORA RISORGERE?ultima modifica: 2019-06-27T17:59:19+02:00da gianni.pardo
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Un pensiero su “ISTANBUL PUO’ ANCORA RISORGERE?

  1. Bell’articolo, ma purtroppo in Turchia – come in Iran, altro Paese che avevo apprezzato molto – ora conta molto di più la “campagna”, i non istruiti, i “semplici”, sui quali il messaggio religioso, nazionalista, semplicistico, immobile, attecchisce con grande facilità. E non è assolutamente interesse dei dominanti attuali vederli muoversi verso il “progresso” o quantomeno verso l’apertura. Per spezzare questo meccanismo occorrerebbe, “da questa parte”, uno spirito veramente superiore, lungimirante, aperto al rischio. Un buon inizio potrebbe essere ad esempio favorire la formazione universitaria (in Italia? in UE?) con borse di studio di giovani meritevoli. Ma la Turchia (e anche l’Iran) sono nel punto nodale di interessi forti e contrastanti di altri Paesi; quindi, ogni azione esterna, anche se animata da “spirito evangelico”, può avere contraccolpi dannosi.
    Quindi, “i turchi facciano da soli” (dice chi non ha la forza e la possibilità di agire).
    Perché, in fin dei conti, la questione rimane sempre quella: “ma chi ce lo fa fare?”, in particolare quando si leva il coro “no alle interferenze esterne e al colonialismo culturale degli stranieri”. Copione già visto. Pertanto, “cuociano nel loro brodo; che esca fuori lesso o brasato o stufato, sono affari loro”.

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