COME PERDERE SUL ROSSO E SUL NERO IN ECONOMIA

Discutere le leggi dell’economia è vano quanto discutere la legge di gravità. Ma questa frase non si adatta ad ogni genere di economia. Si adatta a quella della massaia che spende bene i suoi soldi al mercato, cercando di avere il meglio col denaro che ha. Senza mai rischiare la fame e senza mai rischiare il fallimento.
Non si adatta affatto invece alla macroeconomia, l’economia in cui mette le mani lo Stato. Questa ha tutta un’altra logica, che ha ben poco a che vedere con la mentalità della massaia. Lo Stato ha il potere di battere moneta, di rubare, di prevaricare, di delinquere ed anche di fallire. Infatti non maneggia soldi suoi ed è guidato da gente che ha come sola preoccupazione quella di indovinare se riuscirà a galleggiare bene dopo le prossime elezioni. Il popolo, il futuro della nazione, la sorte dei cittadini cui si sono fatte tante promesse, tutte balle. Persino quando un uomo di Stato, non un piccolo politico da quattro soldi, pensa di fare qualcosa di grandioso per il Paese, non lo fa per il Paese, ma per la propria gloria. Per la propria vanità. Tanto che, quando si riesce ad identificare qualcuno la cui personalità non rientra nel quadro tremendo che si è delineato, come Charles De Gaulle, si sa di essere di fronte ad un indimenticabile gigante della storia.
Ma torniamo all’economia. Questa, dal punto di vista dello Stato (qualunque Stato) non deve rispondere ai principi più ovvi – per esempio che non si può spendere più denaro di quanto si abbia – perché, per quanto riguarda il denaro, lo Stato ha il potere di crearne quanto ne vuole. E lo fa sottraendo ricchezza, con l’inflazione, a chi se l’è guadagnata, per darla a chi non se l’è guadagnata. Se si accorge che i singoli agiscono per il loro interesse (esattamente come i politici) cerca di demonizzarli, di educarli, di punirli. Lo Stato prima della ricchezza del popolo pensa al suo riscatto morale. Così tenta in tutti i modi di falsare il mercato per motivi etici. Il risultato è che mentre un euro nelle mani di una massaia rende il massimo del suo valore, un euro nelle mani dello Stato spesso è sprecato, a spese della comunità. Ma, anche se glielo si fa notare, lo Stato non batte ciglio: il valore morale delle sue intenzioni vale più delle conseguenze per i poveracci che questi lussi morali non possono permetterseli.
Purtroppo, quando la società si accorge di tutto ciò, non pensa affatto a cambiare strada. Pensa che lo Stato debba intervenire ancora di più nell’economia. Pensa che bisogna punire ancor più severamente chi fa i propri interessi, anche se in quel modo crea più ricchezza per il Paese. Perché “in generale” siamo tutti idealisti, e “in concreto” siamo tutti egoisti. Ma siamo fregati dalla suggestione del punto di vista “generale” e non osiamo dichiararlo sbagliato. Anche se poi, se qualcuno lo fa, come Salvini, lo sommergiamo sotto una valanga di voti.
Ecco un esempio. La società italiana produce un numero insufficiente di laureati e una parte di questi laureati, magari i migliori, vanno poi a lavorare all’estero. E ci rimangono. Bisogna ricordare che, per portarli alla laurea, lo Stato ha speso molti soldi, infinitamente di più di ciò che gli studenti pagano come tasse universitarie. Se così non fosse, non esisterebbe il numero chiuso in medicina: basterebbe assumere più professori, costruire nuovi immobili, creare nuove aule universitarie, aprire nuovi laboratori, moltiplicare le cliniche universitarie e via dicendo. Fra l’altro sarebbe una manna per i posti di lavoro. Invece lo Stato, parlando degli studenti, dice: “Non me ne posso permettere più di tanto, e così scelgo i migliori”. Solo che poi questi migliori, una volta divenuti dottori, vanno all’estero. E i nosocomi italiani – è su tutti i giornali – hanno carenza di personale. Ipotizzano di richiamare in servizio i medici in pensione, di chiedere aiuto ai medici militari o agli specializzandi. Sicché oggi è come se noi preparassimo con grande cura e spese dei prodotti alimentari di lusso che poi mandiamo all’estero perché gozzoviglino, gratis, i cittadini di altri Paesi. Mi chiedo quante migliaia di medici italiani operino in Gran Bretagna.
Nel frattempo – anche questo è su tutti i giornali – siamo sommersi da un’alluvione di immigrati clandestini, per la maggioranza analfabeti o comunque senza un mestiere. Qual è il significato economico di tutto ciò?
La società italiana paga male i laureati. Forse pensando alla famosa uguaglianza di Beppe Grillo, secondo la quale uno vale uno. Ho così saputo che Albert Einstein non vale più di me, e la cosa mi ha molto consolato. In compenso quella stessa società cerca di pagare i poveri più di quanto offrano i datori di lavoro, per esempio stabilendo salari minimi, punendo il lavoro nero, e via dicendo.
Ma qual è il risultato finale di questi due fenomeni? Per i laureati non c’è modo di fermarli. Non soltanto l’Italia è un Paese libero da cui ci si può allontanare se soltanto lo si vuole. Ma anche a rendere difficili gli espatri, come faceva l’Unione Sovietica, non è che poi il risultato sia stato la prosperità. Dunque i professionisti vanno dove li si tratta meglio e li si paga meglio, secondo l’economia della massaia. Nel frattempo i migranti arrivano a decine di migliaia perché con la metà del salario minimo europeo nutrono sé stessi e le famiglie lasciate a casa molto meglio che se fossero rimasti in Africa o nell’Europa orientale. Ma non basta. Dal momento che, per quelle che sono le condizioni obiettive dell’economia italiana, i poveri sono ancora troppo ben pagati, gli immigranti vanno ad occupare il vero posto di lavoro che offre la società italiana: cioè, a parte la delinquenza, il lavoro in nero, per una paga inferiore al giusto. Inferiore al giusto persino per i nostri standard. E questo senza nessuna garanzia riguardo agli infortuni, alle malattie, all’invalidità e alla vecchiaia. L’economia, ed anche la giustizia, vorrebbero che i poveri “regolari” fossero pagati un po’ di meno, e i lavoratori “irregolari” fossero pagati un po’ di più, perché i due tipi di lavoro dovrebbero convergere. Quando Di Maio parla di salario minimo di nove euro l’ora (che non si permettono nemmeno Paesi più ricchi di noi) non sa che sta predicando la creazione di una casta di privilegiati, quelli che avranno un posto nelle nuove condizioni, mentre molte imprese dovrebbero chiudere, non potendosi permettere una mano d’opera così cara (considerando anche lo schiacciante cuneo fiscale).
L’intervento dello Stato per motivi asseritamente morali ma in sostanza demagogici, distorce la realtà economica, fino ad ottenere il contrario del risultato sperato. L’Italia, moralmente impettita e pronta a dare lezioni a tutti, proclama che i poveri dovrebbero essere pagati bene e poi tollera che migliaia e migliaia di poveracci senza arte né parte vivano ai margini della società, e della legalità, sperando di lavorare per chi, correndo qualche rischio legale, è disposto a sfruttarli. Ma si fa pagare anche il rischio. E la nostra società buonista riesce a non vedere chi coltiva i nostri campi e raccoglie la nostra frutta, per un salario da negrieri.

Gianni Pardo, giannipardo1@gmail.com

COME PERDERE SUL ROSSO E SUL NERO IN ECONOMIAultima modifica: 2019-07-02T08:12:16+02:00da gianni.pardo
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2 pensieri su “COME PERDERE SUL ROSSO E SUL NERO IN ECONOMIA

  1. “Dal momento che, per quelle che sono le condizioni obiettive dell’economia italiana, i poveri sono ancora troppo ben pagati”: caro Gianni, questa è una frase che, se fosse letta da una platea più ampia dei lettori di questo blog, scatenerebbe indignazione e insulti. Sarebbe un caso di scuola per chi vuole studiare la superficialità della massa dei commentatori nell’era 2.0.
    Fortunatamente lei rischia solo che qualche altro ipersensibile le chieda di essere tolto dalla mailing list:-)

  2. Non c’è dubbio che l’Italia è “malata”: ha la febbre e forti dolori di pancia. Ci sono due modi per affrontare la situazione:
    1) rompere il termometro (“è colpa del caldo, infatti se faccio una doccia fredda sto meglio”) e farsi bastonare la schiena, in modo che il nuovo più forte dolore faccia “dimenticare” quello precedente; ma anche pensare alle sofferenze di NSGC sulla croce ed offrirgi il dolore ad espiazione dei peccati;
    2) fare tutte le analisi del caso, capire origine della malattia (chessò… inquinamento batterico di acqua e cibi?), stabilire una terapia adeguata secondo scienza e coscienza, seguirla e sperare che, secondo le esperienze storiche prevalenti, essa funzioni.
    Mi pare che sulla immigrazione si segua, secondo le preferenze delle singole “parti”, la soluzione 1 nelle diverse modalità. Cosa che non mi pare molto intelligente.
    Circa la triste sorte dei giovani laureati italiani (e non solo laureati), la “fuga dei cervelli” (beh, non esageriamo: non è che chi non fugge non ha “cervello”, è che si rassegna o ha dei “vincoli”) mi pare che la ragione principale sia lo scarso apprezzamento del merito (meglio l’amicizia, la parentela, il comparaggio: vincono gli “affetti”: siamo dei sentimentali…), lo scarso livello retributivo (ti pago da operaio ma mi fai l’ingegnere, e massimo 1 anno, poi si vede; e ogni tanto dai una botta di straccio per terra), la scarsa autonomia e inventiva concessa e apprezzata. Insomma, la “demotivazione”; oltre a vantaggi di “welfare” in alcuni Paesi. Ma stiamo parlando di laureati in discipline tecnico-matematico-scientifiche, perché di laureati in Giurispudenza, Scienze Politiche, Economia (roba buona per entrare nella PA) o in Lettere, Scienza della Comunicazione o al DAMS siamo pieni, senza “numeri chiusi”. E se mancano i medici, qualche colpa ce l’ha sia il “numero chiuso (stabilito in epoche in cui le previsioni di fabbisogno futuro erano completamente sballate) sia il regime di “consorteria” delle facoltà e specializzazioni mediche, senza trascurare che altri Paesi si trovano a dover “importare” medici, dalle ex colonie o – che dio ci salvi… – da certi Paesi dell’est (“vabbè, sempre medici sono, siamo in regola”).

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