OMICIDIO D’AMORE

Tema ricorrente: “L’amavo, non mi amava, l’ho uccisa”. Inutile citare casi particolari. È un episodio tanto frequente che anche chi non leggesse i giornali non potrebbe evitare di sentirselo raccontare da quel grande cortile che sono le televisioni.
Benché annegato nel kitsch della cronaca nera, il dolore dell’abbandono da parte della persona amata, soprattutto se improvviso, soprattutto se in favore di una terza persona, è fra le cose più dure da sopportare. Non è un caso se un genio come Shakespeare ha messo questo infortunio fra i cinque o sei che, nel famoso soliloquio, “Essere, o non essere”, fanno mettere in dubbio che valga la pena di continuare a vivere.
Così è un topos della letteratura criminale quello dell’innamorato abbandonato che non si dà pace, sente la sua vita distrutta e distrugge quella della “colpevole”. La folla potrebbe addirittura farne una speciale fattispecie di omicidio, come ha scioccamente preteso per quello “stradale”. In realtà è forse soltanto un caso psichiatrico. Intendiamoci, non si sta dicendo che l’omicida abbia diritto all’infermità mentale, cioè che bisognerebbe dichiararlo non colpevole per incapacità di intendere e di volere. Questi assassini – come ormai è di rito dire – “devono marcire in galera”. Ma potrebbe essere interessante capire i loro meccanismi mentali. Anche per parlare in primo luogo a nome dei milioni di esseri umani che hanno fatto questa triste esperienza e non per questo hanno torto un capello a chicchessia. Infatti “The pangs of despriz’d love”, per riprendere il monologo di Amleto, gli spasimi dell’amore non apprezzato possono indurre a gesti estremi ma nelle persone normali non lo fanno. E ciò perché le persone normali capiscono alcune cose elementari, anche se piuttosto dure da ammettere.
In primo luogo, posso dire: “Io sono mio”, ma lo sono nella misura in cui riesco a dominarmi. Quanto agli altri, non sono miei in nessun caso. Né se lo dico io, né se sono stati tanto pazzi da dirlo loro stessi. Il fatto che qualcuno, abbandonandoci magari con noncuranza, ci abbia inferto una coltellata la cui ferita non accenna a rimarginarsi, non ci dà nessun diritto. Nemmeno quello alla protesta. Ognuno è padrone di vivere la propria vita come vuole e del resto, che senso avrebbe piangere, inveire, rivendicare diritti, se è ovvio che l’amore non si può imporre? Si può portare un cavallo all’abbeveratoio, ma non si può costringerlo a bere.
Per molti, il momento in cui sono abbandonati dalla persona di cui credevano di non poter fare a meno è il momento in cui nascono alla vita adulta. Il momento in cui gli diviene finalmente chiaro che sono degli individui isolati e non parte di un tutto. Non esiste nessun cordone ombelicale. Mamma gatta morirebbe per i suoi cuccioli, ma appena crescono li manda via a sberle, a procurarsi da sé il loro topo. Grande saggezza della natura.
L’evidenza della frontiera fra noi e gli altri; fra ciò che noi sentiamo e ciò che sentono gli altri; fra ciò che è nostro diritto e ciò che è loro diritto, e soprattutto dell’equivalenza di questi diritti, è una conquista dell’età adulta. Il bambino può pensare che, se dà un calcio al papà, questi lo rimprovererà ma certo non gli darà a sua volta un calcio da adulto. Crescendo invece deve imparare che, se provoca un elefante, questo risponderà con una forza da elefante. In tutta legalità. In natura non è prevista nessuna franchigia per l’aggressore.
Purtroppo, chi è stato troppo amato dai suoi genitori, chi è stato viziato, chi ha avuto un’infanzia e un’adolescenza troppo facili, si crea l’idea che la realtà dovrà sempre avere per lui un occhi di riguardo. È capace di dire con infantile, solipsistico egoismo: “Tu sei mio perché a me piace averti”. E non si accorge che questa è una tale colossale stupidaggine che può condurre anche al delitto. Per poi a passare decenni dietro le sbarre, in un posto in cui – finalmente – nessuno avrà per lui speciali riguardi.
Gianni Pardo, giannipardo1@gmail.com
18 luglio 2019

OMICIDIO D’AMOREultima modifica: 2019-07-18T12:21:49+02:00da gianni.pardo
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