E SI PARLA SEMPRE DI INVESTIMENTI PUBBLICI – 1

Due articoli su un tema eterno
Per il credulone l’atteggiamento dello scettico è sorprendente: “Se lui dice che è così, perché non dovrebbe essere vero?” Lo scettico invece ragiona in modo del tutto opposto: “Che prova ho che sia vero?”
In qualche caso, chi è meno diffidente crede d’avere in mano una briscola: “Ma sta parlando di medicina e tu non sei medico”. E questa è certamente un’osservazione ragionevole. Ma si può rispondere: “Dal momento che io non sono un medico, non ho nessuno strumento per dire che ha ragione o che ha torto. Se la questione fosse importante per me, chiederei un consulto”.
Lo scettico non abbandona il proprio atteggiamento nemmeno se si accorge di essere solo contro tutti. Questa è una precauzione necessaria soprattutto in un Paese, come l’Italia, disposto a credere le cose più assurde, purché sufficientemente ripetute. Ad esempio la leggenda dell’efficacia bellica della nostra “Resistenza”, cosa di cui non si trova traccia in nessun libro straniero di buon livello. E del resto gli Alleati, imponendoci la resa “senza condizioni”, non ne hanno tenuto nessun conto, in sede di Trattato di Pace. Proprio perché non avevamo nulla con cui negoziare.
E come avrebbe potuto essere diversamente? La guerra moderna si combatte coi mezzi corazzati e i partigiani non avevano un solo carro armato. Malgrado ciò, milioni di ingenui sono disposti a credere che la Resistenza abbia “liberato l’Italia dal nazifascismo”. Aggiungendo che la Resistenza ci ha dato “i valori democratici”, come se l’Italia non li avesse avuti prima del fascismo e come se li avessero inventati i comunisti e non gli inglesi. In un Paese così bisogna essere costantemente diffidenti, senza arrendersi mai alla retorica corrente. Quand’anche fosse occasionalmente avallata da un galantuomo come Sergio Mattarella.
Nel campo delle bufale ce n’è comunque una di dimensioni mondiali, forse perché aureolata di scienza e fondata sulle teorie di John Maynard Keynes: quella degli investimenti pubblici come risposta al rallentamento dell’economia e alla disoccupazione.
Si comincia col dimenticare che il famoso “acceleratore” di Keynes è una misura economica temporanea. In un momento di stasi, lo Stato lancia grandi lavori, distribuisce molti salari (anche con spesa in deficit) e, incentivando la domanda, rilancia l’economia. Il meccanismo somiglia alla partenza a spinta di un’automobile. Se la batteria è scarica ma l’auto è in ordine, basta farla arrivare a cinque kmh, inserire la terza e lasciare la frizione: il motore si avvierà istantaneamente. Ma – attenzione – il motore deve appunto essere in ordine. Se per qualche motivo nelle candele non scocca la scintilla, non c’è motorino d’avviamento o discesa che faccia partire il motore. Insistendo, piuttosto che avviare il motore, si inonderà di benzina non bruciata lo scarico, danneggiando la marmitta catalitica.
A rischio di attirarmi un diluvio di critiche, dichiaro che credo poco alla teoria di Keynes. Non che l’acceleratore temporaneo non possa, qualche volte e in astratto, avere effetti positivi, ma è sicuro che ne ha di negativi. In particolare, considerando l’applicazione concreta che è stata data della teoria – per esempio in Italia, dagli Anni Settanta/Ottanta in poi – cioè traducendola in un costante intervento in deficit dello Stato, non soltanto non credo affatto ai suoi effetti positivi, ma sono sicuro dei suoi effetti catastrofici.
Inoltre lo schema presuppone che la nazione abbia un’economia sana e che basterà darle una spinta. Ma chi ce lo assicura? E se non arrivasse elettricità alle candele? E poi, se il marchingegno non funziona, chi e quando dirà: “Basta”?
Riprendiamo comunque la teoria dal principio. Keynes ha ipotizzato un investimento in deficit nella speranza che avvenga quanto segue: lo Stato lancia una sua industria per produrre scarpe, assume tremila operai e distribuisce tremila salari. I lavoratori, che ora hanno un reddito, possono finalmente fare acquisti, dando fiato alla domanda, e rilanciando conseguentemente l’economia, oltre a riassorbire il debito contratto per la spesa in deficit. Astrattamente perfetto. Ma bisogna far caso a un particolare: si è detto che Keynes ha ipotizzato un investimento in deficit. Ciò implicherebbe che, per essere valida la teoria, alla fine di tutta l’operazione si sia prodotta più ricchezza di quanto speso in deficit. E se poi – come spesso accade – quella ricchezza, non si produce? Questo dovrebbe far rovinare la teoria. Se a conti fatti si è speso più di ciò che si è prodotto, si è avuto sperpero di ricchezza e si è favorita la miseria.
1 Continua
Gianni Pardo, giannipardo1@gmail.com

E SI PARLA SEMPRE DI INVESTIMENTI PUBBLICI – 1ultima modifica: 2019-08-01T20:29:44+02:00da gianni.pardo
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Un pensiero su “E SI PARLA SEMPRE DI INVESTIMENTI PUBBLICI – 1

  1. Quando si parla di modello keynesiano si ignora sempre di dire una cosa. Esso funziona in un paese dove la politica ha il pieno potere di intervenire su ogni singolo aspetto della vita del paese.
    Viceversa, non avendo la gestione della spesa pubblica, non si ha il controllo della spesa e il debito cresce incontrollato.

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