CETERUM CENSEO

L’intervento dello Stato nell’economia nazionale
Scrivendo ad un amico economista, mi son lasciato andare a scrivere questa frase: “Ogni intervento nella macroeconomia è nocivo”. Messo il punto mi sono accorto dell’enormità di ciò che avevo detto. Ma ne rimanevo convinto e dunque dovevo spiegare il mio punto di vista.
La macroeconomia – secondo Wikipedia – è “un ramo dell’economia politica che, diversamente dalla microeconomia (che studia i comportamenti dei singoli) studia il sistema economico ‘a livello’aggregato’, cioè sociale”. In altri termini, studia la politica dello Stato in materia di economia. Naturalmente partendo dall’idea che lo Stato possa meglio dirigerla di quanto farebbe da sola. E “La nascita della macroeconomia moderna, intesa come approccio sistematico e coerente ai fenomeni economici a livello aggregato, viene fatta risalire alla pubblicazione nel 1936 dell’opera di J.M.Keynes, The general theory of employment, interest and money”.
Keynes è stato talmente importante che da quasi un secolo gli economisti si sono divisi in keynesiani (la stragrande maggioranza) e anti-keynesiani (eretici attardati. Sarei anch’io un eretico attardato, se fossi un economista). E una cosa va detta: la teoria di Keynes di cui qui si parla non è quella che ha concepito il suo autore, ma quella che hanno immaginato i politici. E per loro la teoria si riassume nel dovere dello Stato di spendere facendo debiti, suppostamente per rilanciare l’economia.
Ovviamente la teoria non ha funzionato. Ma ciò non è stato sufficiente a convincere nessuno. La possibilità di spendere facendo debiti all’infinito è troppo affascinante. L’Italia entusiasticamente keynesiana dagli Anni Settanta in poi ha speso come una pazza ed oggi ha un debito pubblico di proporzioni inimmaginabili. Tanto inimmaginabili che la gente non le immagina. E tuttavia gli economisti continuano ad invocare investimenti pubblici. In deficit. I “virtuosi” parlano di “investimenti produttivi”, i più “disinvolti” (tipo Luigi Di Maio) invocano investimenti e basta, per regalare soldi alla gente. Per rilanciare l’economia, dicono, in realtà per ottenere voti alle elezioni.
Che tutti costoro sbaglino, quelli della foglia di fico dell’aggettivo “produttivi” e gli altri, è provato dal fatto che più o meno l’intera Europa è in crisi. E più in crisi di tutti è lo Stato che più entusiasticamente ha seguito la teoria del deficit spending, cioè l’Italia. Ma oggi vado oltre. Non sostengo che sia sbagliato il deficit spending, sostengo che sia sbagliato qualunque intervento dello Stato nell’economia nazionale.
Dimostrare questa tesi può essere difficilissimo, perché il destinatario delle argomentazioni ha sempre, dietro la testa, questa risposta: “Ma se tu avessi ragione, tutti gli altri avrebbero torto?” Ed io rispondo: preferisco credere all’evidenza che ad un’opinione universale. Tutti sono per l’auto elettrica e io continuo a pensare che è troppo costosa, ha un’autonomia limitata, non si può fare velocemente rifornimento e dopo una decina d’anni bisogna sostituire le batterie, che corrispondono come costo alla metà del valore della macchina nuova. Che so, trentamila euro su sessanta. E infatti le auto elettriche non si vendono. Senza dire che, a livello globale, inquinano più di un Diesel, dal momento che per produrre un kw di elettricità si consuma più energia dell’equivalente in carburanti fossili, e conseguente inquinamento. E non parliamo delle centrali elettriche che vanno a carbone.
Ma torniamo all’economia. L’economia del singolo non abbisogna di commenti. È quella della massaia, che calibra le sue spese sulle sue entrate e in tutto e per tutto segue il buon senso. L’economia di uno Stato invece parte da altri presupposti. Innanzi tutto non spende denaro proprio, ma denaro dei contribuenti. Poi, in teoria, persegue fini sociali, fini morali, in una parola fini politici. Per esempio, dare un contributo alle famiglie numerose. Purtroppo, questa esigenza di bene collettivo anche a costo di danneggiare il bilancio dello Stato incoraggia i peggiori sprechi, le operazioni più antieconomiche e perfino la corruzione. Lo Stato troppo spesso lo spende male e sorveglia malissimo il proprio denaro. E proprio per questo i liberali sognano uno “Stato leggero”, che faccia l’assoluto minimo.
Facciamo un paio di esempi. Immaginiamo che l’economia cominci ad andar male e il governo si chieda in che modo può raddrizzarla. In questo caso interviene (appunto) la macroeconomia. 1 Poiché, per certi beni, la produzione straniera è troppo concorrenziale, fino a strangolare le nostre imprese, lo Stato impone dei dazi per rendere più competitive le merci nazionali. 2 Lo Stato si accorge che le comunicazioni sono troppo costose, per esempio perché il Paese è lungo e le merci devono percorrere distanze eccessive, e allora sovvenziona le ferrovie. Queste ora opereranno in deficit ma assicureranno un servizio pubblico a buon mercato. 3 E può anche avvenire che, per fini sociali, lo Stato adotti una legge che all’erario non costa un centesimo, come nel caso dell’ “equo canone”, ma modifica le condizioni del mercato. Sviluppiamo gli esempi.
1 Con i dazi, i consumatori pagano più cara una merce che potrebbero pagare meno cara. Pensiamo a quanto dovremmo pagare tanti beni prodotti in Cina, se fossero prodotti in Italia. Ma a volte gli Stati rendono i prezzi artificialmente alti (reprimendo il contrabbando) per far sopravvivere imprese tecnicamente fuori mercato, che normalmente dovrebbero o migliorare la loro produzione, divenendo concorrenziali, oppure chiudere. Naturalmente la vita di quelle imprese si traduce in un aggravio di costi per i cittadini e in totale in una distruzione di ricchezza. Per giunta, la manovra non migliora l’industria che non è costretta ad innovare e migliorare il suo sistema produttivo. L’intervento dello Stato si traduce in un costo per la collettività.
2 Se lo Stato induce le ferrovie ad operare in deficit, accollandosi quel deficit, non solo a sua volta lo pone a carico dei contribuenti, ma le ferrovie, una volta perduta la bussola del pareggio dei conti, diverranno inefficienti, spendaccione e corrotte. Un pozzo senza fondo tipo Alitalia. L’intervento dello Stato si traduce in un costo per la collettività.
Ovviamente lo stesso avviene quando lo Stato nazionalizza un’impresa agonizzante. Posto che il caso che riesca a risanarla e rimetterla sul mercato sia assolutamente eccezionale, qualunque impresa che viene statalizzata rimane di Stato per sempre ed è autorizzata a sprecare. Anche quando l’intervento dello Stato è effettuato con le migliori intenzioni del mondo, per esempio per non lasciare a spasso centinaia di padri di famiglia, essi si traduce in un costo per la collettività.
3 Ma lo Stato è capace di far danni anche senza costi per l’erario. Anni fa, partendo dall’idea che il padrone di casa è sempre un ricco nullafacente, e l’inquilino un poveraccio bisognoso di un alloggio, si impose un canone precostituito, ovviamente molto inferiore a quello libero. Era una gravissima distorsione del mercato, oltre che un gravissimo attentato al diritto di proprietà, ma quale fu l’esito? I proprietari di case furono posti in una condizione economica tanto negativa, che preferirono vendere le loro case che locarle. Così chi voleva un tetto, in Italia, dovette comprarselo. E infatti oggi circa l’80% degli italiani vive in casa propria, spesso pagando un mutuo mensile succhiasangue. Lo Stato è riuscito ad assassinare l’edilizia per fini di lucro e a lasciare senza casa chi non può comprarsela. L’intervento dello Stato si traduce in un costo per la collettività.
Ma torniamo alla teoria. L’economia è qualcosa di diverso dalla morale. Per la morale, il più forte deve aiutare il più debole; per la natura (e per l’economia) il più debole deve o rinforzarsi o morire. In ogni caso, la sua vita è affar suo. Del resto, è impossibile aiutare tutti coloro che hanno bisogno. Anche in un Paese sostanzialmente cattocomunista come il nostro, la nazione si commuove soltanto se rischiano di rimanere senza lavoro cinquecento o mille lavoratori, mentre nello stesso periodo perdono il lavoro, individualmente, migliaia e migliaia di operai di piccole imprese cui nessuno bada, migliaia di piccoli artigiani e di piccoli imprenditori, come i negozianti. E lo Stato, non che aiutarli, continua a pretendere che paghino le tasse.
Anni fa (non so oggi) se qualcuno aveva due case, e una la teneva chiusa, lo Stato gli raddoppiava le tasse, perché trovava immorale che non utilizzasse quell’appartamento, mentre tanta gente ne cercava uno. Poi quello affittava la casa, l’inquilino non pagava e lo Stato non lo metteva fuori da quell’appartamento, perché aveva pietà del povero moroso. Però nel frattempo il padrone di casa non guadagnava nulla, doveva pagare il condominio, doveva pagare le spese condominiali straordinarie, doveva pagare le spese legali per l’infinita procedura dello sfratto e infine doveva pagare le tasse sulla pigione che non aveva riscosso. Se questo non è falsare il mercato, forse non so che significa falsare il mercato.
Tutte le osservazioni che ho fatto, nel corso di una lunga vita, mi hanno condotto a credere fermamente che l’intervento dello Stato in economia dovrebbe essere ridotto all’assoluto minimo. Lo Stato deve fare soltanto ciò che assolutamente non possono fare i privati, per esempio dotarsi di un esercito. Ma per il resto, meno fa e meglio è. Anche quando i cittadini ricevono un beneficio dall’azione dell’Amministrazione Pubblica, per esempio col Servizio Sanitario Nazionale, e credono che almeno quella sia un’istituzione buona, nel complesso quel servizio lo pagano più caro che se se lo fossero pagato privatamente. Ché del resto, anche col SSN, se non vuole morire, molta medicina deve pagarsela da sé anche oggi. Catone concludeva tutti i suoi discorsi con queste parole: “Ceterum censeo, Carthaginem esse delendam” (del resto penso che bisogna distruggere Cartagine) e io concluderei sempre che l’intervento dello Stato in economia si traduce praticamente sempre in un costo per la collettività.
Gianni Pardo, giannipardo1@gmail.com
24 settembre 2019

CETERUM CENSEOultima modifica: 2019-09-25T07:52:17+02:00da gianni.pardo
Reposta per primo quest’articolo

Un pensiero su “CETERUM CENSEO

  1. Probabilmente bisognerebbe togliere la macroeconomia dal novero delle materie oggetto di insegnamento.
    Materia che, altrettanto probabilmente, non è un caso se prima degli anni trenta non esisteva neppure

I commenti sono chiusi.