LA GIUSTIZIA SOCIALE A SCUOLA

Don Lorenzo Milani, nel 1967, pubblicò un famoso libro dal titolo: “Lettere a una professoressa”. In esso sosteneva che la scuola – com’era allora – promuoveva i figli dei ricchi e bocciava i figli dei poveri. I primi infatti beneficiavano delle nozioni apprese nell’ambito familiare, mentre i figli dei poveri, che come fonte di cultura avevano soltanto la scuola, rimanevano indietro, e per questo erano bocciati. Il risultato concreto fu la tendenza a promuovere tutti, per ragioni di giustizia sociale. Ancora oggi il diploma di scuola media superiore viene rilasciato ad oltre il novanta per cento dei candidati, mentre ai miei tempi, quando eravamo tutti asini, Francesco Monfrini, mio compagno di classe, si presentò tre volte agli esami di maturità classica e inspiegabilmente fu bocciato tre volte. Ai miei coetanei è rimasto il dubbio che allora la “maturità” non la regalassero.
Quel libro di Don Milani, quando ne ebbi notizia, mi sembrò un’enorme e pericolosa sciocchezza. In tutte le classi che avevo frequentato, i risultati scolastici erano forse influenzati dall’ambiente di provenienza degli alunni, ma erano soprattutto influenzati, ed anzi determinati, dal personale “profitto degli alunni”. In quinta ginnasiale e prima liceo ebbi come compagno di classe Angelo Munzone, figlio di un marittimo costantemente assente, abitante in un basso di periferia e abbandonato a sé stesso, che però batteva tutti con margine. Era il primo della classe, oltre ad essere amato da tutti, ed in seguito è anche divenuto sindaco di Catania. La decima città italiana, per quanto ne so.
In seconda e terza liceo cambiai sezione, e primo della classe risultò Italo Andolina, talmente un genio degli studi che fu assunto come assistente da un professore di diritto quando era ancora fresco di laurea. Tanto che, nel mio unico anno fuori corso, nientemeno feci esami di storia del diritto romano con lui. Era forse figlio di un arciduca? Nient’affatto, abitava in una scalcagnata casa popolare, non in un castello e studiava come un dannato, note dei libri comprese. E se poi divenne ordinario di diritto all’Università, lo dovette soltanto a sé stesso.
Chissà quanti, fra i miei coetanei, hanno avuto esperienze analoghe. Cinquant’anni fa l’Italia aveva strane idee. Per avere buoni voti bisognava studiare. Se non si studiava, si era bocciati e non si era chiamati per questo “sfortunati figli di proletari”, ma più sbrigativamente “somari”. Era un mondo barbaro.
Ma parliamone seriamente. La scuola opera per così dire in vaso chiuso. Le conoscenze richieste agli alunni sono quelle che hanno fatto parte delle spiegazioni e che sono contenute nei libri di testo. Infatti, come professore, avendo come libro di testo soltanto un’antologia, spiegavo letteratura avvertendo che avrei interrogato su ciò che dicevo, non su ciò che c’era nel libro. E a scanso di sorprese gli alunni avevano la lista delle domande. Per il resto, come dicevano i giuristi romani, quod non est in actis non est in mundo, ciò che non è nei documenti non esiste.
Dunque, in generale, per essere promossi non si richiedeva di saper tutto ma soltanto ciò che era stato detto in classe o tutto ciò che stava scritto nel libro di testo. In realtà, il vantaggio di cui parlava Don Milani era un’ubbia derivata dalla sua ideologia di sinistra. È vero che il figlio di un ricco, a dodici o tredici anni avrà già visitato Parigi, ma nessun maestro mai, nessun professore mai avrebbe dato come tema: “L’ultima volta che vidi Parigi”. Quello fu solo un film. Il tema riguarderà esperienze scolastiche o esperienze comuni a tutti. E Angelo Munzone, dopo tutto un ragazzo di strada, in questo era il più bravo.
Nei fatti, Don Milani e i molti che l’hanno pensata come lui, hanno gravemente danneggiato la scuola. Soprattutto i figli dei poveri. Allora, il figlio del povero, se primeggiava negli studi, si distingueva dal figlio del ricco e magari faceva più strada. Mentre oggi sarebbe indotto, dal fatto che tutti sono promossi, a non strapazzarsi neanche lui. E comunque, anche se lo facesse, i voti non sarebbero poi tanto diversi da quelli degli altri (todos caballeros, cioé poi, da adulti, todos ignorantes). Infine nella lotta per la vita sarebbe scavalcato dal figlio del ricco, che non sa niente ma ha lo stesso suo titolo di studio e disporrà di quella possente raccomandazione che lui non avrà mai. Come diceva un mio ex alunno medico: “La capacità di essere un grande chirurgo è ereditaria. E infatti, negli ospedali i chirurghi giovani hanno spesso lo stesso cognome del primario ”.
Ecco che cosa hanno ottenuto Don Milani e le altre anime nobili.
giannipardo1@gmail.com

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LA GIUSTIZIA SOCIALE A SCUOLAultima modifica: 2019-10-13T09:41:21+02:00da gianni.pardo
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6 pensieri su “LA GIUSTIZIA SOCIALE A SCUOLA

  1. Gentile professore, sono d’accordo.
    Direi anzi che il primo strumento per il famoso ascensore sociale, tanto importante in una democrazia, risiede proprio in una scuola pubblica (e quindi sostanzialmente gratuita) che sia molto selettiva.
    Solo così, infatti, i figli del popolo, purchè veramente in gamba, possono compiere un salto di qualità generazionale, a dispetto delle origini umili.
    In una scuola di asini, invece, i figli dei ricchi saranno sempre comunque privilegiati, o perchè possono accedere alle scuole private, più costose ma migliori, o per il supporto nepotista della propria famiglia.
    Non credo che la sinistra queste cose non le capisca, ma si comporta in modo opposto per motivi di convenienza (elettorale e di finaziamenti).

  2. Semplicemente si è confuso il sapere con il pezzettino di carta, il fine con il mezzo, il contenuto con l’etichetta, il peso netto con la tara.
    Alla base la non conoscenza dei concetti economici di inflazione e svalutazione: se tutti hanno il diploma, semplicemente quel diploma non vale più niente.

  3. Gianni, imitando cio’ che Lei ha fatto, ho cercato di ricordare chi fossero i primi della classe durante la mia carriera scolastica. Cioe’ se fossero poveri o benestanti, ed ecco cosa ne e’venuto fuori.

    Prima media, Petrini (nome di battesimo dimenticato). Era di famiglia povera, forse il piu’povero della classe.
    Seconda e terza media Lucio Lanza, di famiglia benestante. Il padre era avvocato.
    Prima e seconda liceo (scientifico): Giorgio Clemente, famiglia benestante (il padre era ingegnere delle ferrovie).
    Terza, quarta e quinta liceo: … il sottoscritto (!). Famiglia medio/benestante.
    Insomma, a parte il Petrini, sembra che la media borghesia imperasse.
    E di contro, ricordando gli ultimi della classe (quelli degli ultimi banchi che fumavano e giocavano a palline durante la lezione, quando non venivano mandati fuori dal professore), erano invariabilmente di famiglia medio/povera. (Pero’ loro erano i “dritti”, quelli che noi secchioni sotto sotto ammiravamo, e da cui cercavamo di prendere esempio.)

    Dunque, almeno dalla mia esperienza personale, sembra che forse il don Milani avesse un po’ ragione nell’associare il maggior profitto scolastico con le classi benestanti. E la cosa dopotutto non deve stupire, a quell’epoca le “buone famiglie” avevano una certa cultura, e cercavano di instillarla nella loro prole con citazioni classiche, brani di poesie del Manzoni, aneddoti storici, o magari intonando pezzi d’opera. Cultura spicciola, d’accordo; ma quando da noi sciorinata a scuola, soddisfaceva i professori.

    D’altronde, ciascuno di noi ha avuto le sue esperienze personali, e non credo sia possibile trarre alcuna conclusione sull’equazione povero = diligente oppure no.
    Lo sbaglio fu, come Lei scrive, la reazione a quella situazione. La risultante “tendenza a promuovere tutti, per ragioni di giustizia sociale”. E’ purtroppo uno dei mali del comunismo, quello di cercare di cambiare una certa societa’ abbassando i livelli piu’alti, invece di cercare di innalzare quelli piu’ bassi. Succede lo stesso qui da noi in Sud Africa, dove la sinistra e’ al potere da alcuni anni, e il livello culturale degli alunni e’sceso ormai a livelli abissali.

  4. Ogni caso è a se stante. Può essere che il figlio del povero sia spronato proprio dal desiderio di uscire dalla propria condizione e cerchi quindi di dare il massimo, così come altri possono perdersi perché non seguiti. Sull’altro versante, magari il figlio del ricco può non essere stimolato proprio in ragione del fatto che non ha bisogno dell’istruzione per vivere: è già socialmente promosso. Mi vengono in mente i figli di Berlusconi che non sono arrivati alla laurea (tranne quella più giovane che ha preso una laurea triennale, che come noto non è nemmeno considerata una laurea, al di fuori delle statistiche).
    Quello che è sicuro è che il problema non si risolveva regalando diplomi.

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