LA CULTURA DEI TITOLI

Sappiamo tutti che cos’è una citazione, ma può essere interessante vedere da che cosa nasca e perché viene usata.
La citazione è innanzi tutto un’associazione d’idee, una reminiscenza, un’eco delle proprie conoscenze. Se qualcuno dice: “Ma gli voleva fare un regalo!” e un altro risponde: “Se è per questo, anche il cavallo di Troia era un regalo”, è perché ha studiato l’Iliade, da ragazzo, e quell’episodio gli è rimasto in mente, come l’esempio classico (classico, appunto) del “regalo avvelenato”.
La citazione è innanzi tutto un’eco delle proprie conoscenze, e poi un appello alle analoghe conoscenze dell’interlocutore. La citazione ha la funzione di sostenere la tesi di chi parla, richiamandosi ad una verità affermata disinteressatamente in altro contesto, e magari da una persona stimata e famosa. Un tempo, il classico riferimento era Aristotele, al punto che si arrivò a far passare in detto corrente l’espressione “ipse dixit”, l’ha detto lui stesso, dove lui era Aristotele.
La riprova della citazione come nascente dalla comune appartenenza alla stessa cultura è data dal fatto che, quando chi parla non è sicuro delle conoscenze del’interlocutore, la completa, per così dire, col riferimento bibliografico, appesantendola. E si dirà: “Come ha detto Karl von Clausewitz, forse il più famoso polemologo, la guerra è la politica proseguita con altri mezzi”. Essendo magari pronti a spiegare che significa la parola “polemologo”.
La citazione è una strizzata d’occhio con i pari grado in cultura, un argomento a proprio favore in base al “principio d’autorità” e, magari involontariamente, un dito che indica i gradi culturali cuciti sulla propria manica. Essa può essere giocosa o solenne, appropriata o inappropriata, rara o correntissima, ma costituisce in ogni caso un segno di appartenenza.
Tutto ciò che si è detto è stato vero per millenni, quando le uniche conoscenze comuni, a partire da un certo livello sociale, erano quelle che poteva dare una scuola intesa come un privilegio cui non tutti potevano accedere. I greci citavano Omero perché Omero era l’autore più noto, un patrimonio che apparteneva a tutti, così come i giuristi dell’Occidente, per secoli e secoli, hanno citato brocardi latini, perché essi appartenevano alla cultura di ogni avvocato. Brocardi che, se usati al momento opportuno, agivano come un’arma imparabile. “Si può negare che il mio cliente avesse il diritto di far questo, se è vero che, essendo il proprietario, aveva lo ius utendi et abutendi della cosa che gli apparteneva?” Il diritto di usare ed abusare, ma detto in latino dimostra da quanto tempo quel concetto è considerato evidente.
Tutto ciò è stato vero per millenni, si è detto: ma si è detto così perché non è più vero. Oggi non si studia più seriamente. A nessuno scappano di bocca citazioni da Dante. Dante è soprovvissuto a secoli e secoli di allarmanti percentuali di analfabetismo, ma non è sopravvissuto alla scuola come è stata ridotta dal Sessantotto, dopo la lotta al latino, alla lingua italiana corretta e alla storia, per concluere con le promozioni facili. Oggi si parla a vanvera e a orecchio, usando inerme per interte, piuttosto per come anche, confondendo complementto oggetto e complemento di termine (“A me non convince”) e snocciolando mille altri orrori. Coloro che si rivolgono al pubblico dimostrano di aver parlato molto, in vita loro, certo hanno letto poco. Molto poco.
E così abbiamo Watergate come se significasse scandalo dell’acqua e non “chiusa”, “paratia” come nel Canale di Panama. La parola deriva infatti da “acqua” e “porta”, “cancello”, senza avere nulla a che fare con gli scandali. E tutti invece, felici di mostrarsi “à la page”, si sono accodati alla moda, sostituendo “Water” con qualunque caso giudiziario di una certa risonanza, con risultati comici, tipo “Russiagate”. Non sapevamo che la Russia avesse una porta, magari era “La Grande Porta” di Kiev dei “Quadri di un’esposizione”? E il peggio sono i titoli dei film, usati ad ogni piè sospinto come citazioni culturali. Da “Dolce Vita” a “Mission Impossible”, da “Uomo per tutte le stagioni” (fraintendendo il senso dell’espressione) a “zerozerosette” per agente segreto. Ma è inutile fornire esempi, ognuno di queste spiritosaggini è già alluvionato.
Oggi le citazioni pià frequenti nascono pressoché esclusivamente dai titoli, che siano romanzi, film o canzoni. Da fenomeni sociali occasionali, come chiamare “paparazzi” i fotografi di strada, partendo dal nome di un personaggio della “Dolce Vita”. E perfino dagli scherzi. Un giorno qualcuno alla domanda: “Da quando” ha risposto non con “Subito”, ma “Da subito”, e la cosa è piaciuta tanto, che ormai tutti dicono “Da subito”. E che sia una citazione – ah, quanto divertente – è dimostrato dal fatto che nessuno direbbe “Da immediatamente”. Mancherebbe la strizzata d’occhio della cultura comune.
Perfino un giornalone come “il Corriere della Sera” di oggi indulge alla becera moda, intitolando un articolo del suo editorialista principe Angelo Panebianco: “L’Europa non balla da sola”
Sì, perché è questa, ormai, la cultura comune. Non Aristotele, non il latino, non la letteratura di valore universale, non la storia ma il cinema, la televisone, le canzoni, gli scherzi da fine cena in pizzeria. Ogni epoca ha la cultura che merita.
Gianni Pardo, giannipardo1@gmail.com

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LA CULTURA DEI TITOLIultima modifica: 2019-10-24T13:27:18+02:00da gianni.pardo
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