VORREI ESSERE UN CERVO

Immaginiamo un nobile di antichissima e – un tempo – ricchissima casata. Anche se ora è in miseria e, per così dire, ha una sola cravatta, non mancherà di indossarla, perché senza cravatta non si sente vestito. Se va a prendere una pizza con gli amici, deve fare sforzi per vincere la tentazione di pagare per tutta la tavolata, come un tempo avrebbe fatto suo nonno. Già è difficile comportarsi da ricchi quando si è nati poveri, ma è addirittura drammatico doversi comportare da poveri quando si nati ricchi.
Ed è a questo genere di situazione che penso, quando esamino certi comportamenti di noi italiani. L’Italia è stata a lungo un Paese povero, soprattutto da quando si è aperta la rotta atlantica e da quando le materie prime – di cui difettiamo – sono diventate importanti. Agli inizi del Ventesimo Secolo era una nazione in cui gli analfabeti erano molto più numerosi che nei Paesi del Nord, e nelle campagne la vita era dura più o meno come era stata nei millenni precedenti. Si faceva la fame al punto che emigravamo a migliaia per posti lontani come l’Argentina o l’Australia.
Poi le cose hanno cominciato a cambiare, fra le due guerre, e soprattutto con la democrazia. Dal 1944 gli italiani si lanciarono a creare ricchezza con un vigore che non si vedeva da secoli. Fino a trasformare quel Paese povero in uno dei più ricchi del pianeta.
Ma non durò a lungo. Fino all’inizio degli Anni Sessanta l’Italia era andata su a razzo, poi il governo divenne di sinistra, e la tendenza cominciò ad invertirsi. Prima si produceva più che non si consumasse, poi, anche a causa della battaglia che i sindacati (cinghia di trasmissione del Pci e dunque di Mosca) facevano alle imprese “capitaliste”, la capacità di creare ricchezza cominciò a diminuire costantemente mentre la voglia di ricevere benefici dallo Stato diveniva sempre più pressante. Il risultato fu divergente. Gli italiani consumavano sempre di più producendo sempre di meno e colmavano il divario facendo debiti. E poiché il Paese non è immediatamente fallito – anzi, per anni, ha avuto una facciata di prosperità – si è creata la convinzione che si potessero fare debiti indefinitamente, mantenendo un livello di vita molto al di sopra delle reali possibilità. Al punto che non soltanto ci permettiamo tutti i lussi di cui abbiamo voglia, sia in campo alimentare, sia nell’abbigliamento, sia negli svaghi, ma seguiamo tutti gli ideali e tutte le ubbie di moda, per quanto costose.
Sembra che non ci accorgiamo che l’Italia non è più ricca come prima; che non cresce più; che stiamo raschiando il fondo del barile; che la Spagna, di cui un tempo sorridevamo, ci sorpasserà nell’economia come da tempo ci ha sorpassato nel turismo. Per non parlare della Francia, che in questo campo è prima nel mondo senza avere un decimo del nostro capitale artistico. Tutti continuano a parlare come avrebbe fatto il nonno miliardario, senza rendersi conto della reale situazione in cui siamo.
Molti, ad esempio, parlano seriamente di “aiutare gli africani a casa loro”, senza tenere conto né di quanti sono gli africani, né di quanto è grande l’Africa. In questo beneficiando dell’ignoranza impartita da una scuola permissiva e di manica larga. Del resto si tende ad abolire sia lo studio della geografia (già fatto) sia della storia (si sta facendo). Dimentichiamo quali sono le dimensioni dell’Italia nel globo terracqueo, forse perché nessuno ormai ha osservato un mappamondo.
Altri parlano di risanare il pianeta. Altri sognano di abolire tutto ciò che inquina, e Beppe Grillo è riuscito a parlare di decrescita felice. Cioè di gioioso impoverimento, come può fare soltanto qualcuno che non ha assaggiato la misera, e forse non l’ha neanche mai vista. L’impoverimento gioioso è impresa da anacoreti.
L’ecologia è divenuta una sorta di religione che richiede sacrifici umani. Noi siamo divenuti ospiti indesiderati e nocivi, sulla Terra. Non importa quanto ci costa, non importa quali sacrifici può comportare, se il tracciato dell’autostrada dà fastidio ai cervi, non sono i cervi che devono spostarsi, ma il tracciato dell’autostrada. I cervi hanno diritto alla Terra e noi no.
L’ecologia si è trasformata in misoneismo religioso. La plastica ha reso la nostra vita infinitamente più comoda e meno costosa di prima, dunque sia maledetta.
E non basta che la mettiamo nell’apposito sacchetto, per la raccolta differenziata dei rifiuti solidi urbani e il suo riciclo, perché la raccolta differenziata non funziona al 100% e una parte della dannata plastica non è riciclata. Dunque tassiamola, in modo che rincarino tutti beni nel cui confezionamento essa rientra. E quali sono questi beni? Purtroppo lo sono tutti.
È un mondo demenziale. Quelli che stanno bene economicamente e pontificano in Parlamento (oltre che in televisione) impongono sempre nuovi balzelli agli strati più disagiati della popolazione. Come del resto fanno anche riguardo agli immigrati. Questi sono degli infelici che vanno accolti e accuditi a qualunque costo e in qualunque numero, ma in quartieri diversi dai quartieri alti.
Vorrei essere un cervo.
Gianni Pardo, giannipardo1@gmail.com, 5 novembre 2019

P.S. Scritto prima della vicenda Arcelor Mittal. Qui l’ecologia ha protetto la salute degli operai, ma non la loro alimentazione. Forse è un optional.

VORREI ESSERE UN CERVOultima modifica: 2019-11-05T08:43:44+01:00da gianni.pardo
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