DAI MIEI NONNI AL RECOVERY FUND

I miei nonni erano contadini. Niente di strano, se pensiamo che sia mio padre sia mia madre nacquero alla fine dell’Ottocento. Oggi posso misurare la distanza fra il loro mondo – che mi fu trasferito come imprinting – e quello contemporaneo. Lo dico subito: il confronto non è a favore del presente.
I miei nonni erano persone semplici, rudi e oneste come i pionieri del West. Sapevano che, per sopravvivere, si fatica. Che gratis non si ha diritto a niente. Che l’autorità, rettamente esercitata, non è affatto una prevaricazione. Mio nonno si aspettava da mio padre rispetto e obbedienza, come mio padre se l’aspettava e l’otteneva da me. Come non bastasse, a causa della guerra, conobbi qualcosa che nemmeno loro avevano conosciuto, la fame. In quei giorni era già un privilegio se si sopravviveva.
Nato in quel mondo, sapevo che l’unica umanità su cui potevo contare non erano i terzi – che avevano già abbastanza da fare a sopravvivere loro stessi – ma soltanto i miei genitori. E infatti da piccolo pensavo con terrore alla possibilità di rimanere orfano. E di non poter più andare a scuola. Non ero pazzo, era una cosa che faceva parte delle possibilità. Ancora al liceo, mi dicevo che – se non avessi avuto la possibilità di acquisirla in quel momento – quella base culturale non l’avrei più avuta. L’autodidatta magari diverrà qualcuno in un campo, ma che cosa saprà di letteratura greca o di letteratura latina, e gli dirà qualcosa, il nome di Anassimandro?
Mia madre comunque lasciò in me una traccia indelebile. Rispetto a mio padre era molto sensibile, appassionata, anticonformista e libera. Ciò malgrado rimaneva pesantemente realista, severa, e più simile a un guerriero che a una dama. Spregiava ogni debolezza, ogni mollezza e curava pochissimo il suo aspetto. Quasi mi vergognavo di lei.
Pudica almeno quanto la regina Vittoria, non manifestava molto il suo affetto. Non ricordo baci, da bambino, né tenerezze, né particolari cure. Mio padre era un uomo, io un uomo piccolo, ma già responsabile di sé. E i miei genitori non si interessarono mai alla mia vita scolastica. Era affar mio. Come del resto tutta la mia vita.
Più il tempo passa più vedo mia madre come una matrona romana che dice al figlio, il cui fratello maggiore è morto a Canne, di prepararsi a sostituirlo nella difesa di Roma. Parlo di tutto questo non per dare un’idea della mia famiglia, ma per deprecare una società in cui i principi fondamentali sono talmente distorti da mettere in pericolo i singoli e persino la nazione. I ragazzi oggi sono abituati all’idea che i genitori li sbaciucchino, si occupino dei loro problemi, facciano con loro i compiti per casa, li spupazzino, li accompagnino, gli facciano passare dei capricci e li proteggano da tutto. A cominciare dalla pioggia, come se piovesse acido solforico. Questo ha fatto venir su una generazione di smidollati privi di energia. Ragazzi non soltanto privi di ogni spirito eroico o semplicemente combattivo ma fragili, complessati, pronti ad autodiagnosticarsi traumi psichici. E ovviamente convinti che tutto debba essere facile, a cominciare dalla promozione a scuola fino ad una sorta di analfabetismo generalizzato.
Quello che mi stupisce è che questo atteggiamento esistenziale oggi è spinto fino ai livelli della politica internazionale. L’Italia è economicamente nei guai. Le nazioni hanno periodi di buona amministrazione e periodi di cattiva amministrazione. L’Argentina ad esempio è passata dall’essere uno degli Stati più prosperi e promettenti del mondo, ad essere un malato cronico, che non riesce a guarire dai tempi di Perón. E se è successo all’Argentina, perché non potrebbe succedere all’Italia? I nostri politici sono forse migliori?
E tuttavia da noi – cosa stupefacente – tutti si aspettano che l’Italia sia salvata. L’idea prevalente è che, se qualcuno è in difficoltà, qualcun altro si deve far carico dei suoi problemi. E dal momento che l’Italia è in bisogno, ne consegue che tutti gli altri Paesi devono aiutarla. L’imperativo è indiscutibile. Al punto che dopo non dovremo neanche dirgli grazie. Al contrario, avremo il diritto di condannarli se non si saranno attivati.
C’è da trasecolare. Si è dimenticato che in campo internazionale impera il più sfacciato e cinico egoismo e ogni giorno gli italiani si sgolano a condannare moralmente tutti i Paesi, e in primo luogo la Germania, che non si sono dichiarati disposti a regalarci centinaia di miliardi. Semplicemente perché ne abbiamo bisogno. Ed io, che non sono ancora guarito dall’esser nipote di contadini, non riesco a capacitarmi.
La parola assurdità è insufficiente. Infatti rinvia alla logica, al ragionamento, a una discussione, mentre qui si tratta di pedestre buon senso, cioè di palanche, un campo in cui non esistono analfabeti e in cui, anche senza chiamarsi Arpagone, ognuno si tiene stretto il suo. L’economia condanna irrimediabilmente i sognatori e chi viola le regole della buona massaia. Per esempio, nessuno può a lungo spendere più di quanto incassa. E se insiste, finisce che si rompe il naso.
Ecco dunque perché l’Italia non dovrebbe parlar tanto di solidarietà. È una cosa che non esiste, fra Stati. Fra privati può operare il “principio mutualistico” (io mi impegno ad aiutare te a spegnere l’incendio di casa tua se tu ti impegni ad aiutare me a spegnere l’incendio di casa mia) cosa che ha dato origine alle assicurazioni ma, come si sa, per essere assicurati si paga un premio. L’unica solidarietà durevole è a titolo oneroso. Come diceva Milton Friedman, nessun pasto è gratis. E noi ci aspetteremmo dalla Germania non che ci offra un pranzo, ma che ci ricostruisca la casa che abbiamo distrutto?
Gianni Pardo, giannipardo1@gmail.com
17 maggio 2020

DAI MIEI NONNI AL RECOVERY FUNDultima modifica: 2020-05-18T15:56:10+02:00da gianni.pardo
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2 pensieri su “DAI MIEI NONNI AL RECOVERY FUND

  1. Egregio dr Pardo, mi limito al tema “figli” : la corretta etica implica che più presto
    li trattiamo da adulti, più presto lo diventano. Altrimenti, gli effetti presto si manifestano : basta tenere d’occhio la cronaca italiana per constatarlo.

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