LE MOI EST HAISSABLE

“Le moi est haïssable”, l’io è odioso. Questa affermazione di Blaise Pascal andrebbe studiata nel contesto, per sapere che cosa intendeva quel pensatore. Ma esaminarla da sola consente di meglio sapere che cosa noi stessi pensiamo dell’argomento.
Ovviamente, l’io in sé non può essere odioso perché questo corrisponderebbe ad odiare sé stessi, cosa contraria all’istinto di conservazione. Dunque il “moi” di cui parlava Pascal è quello in relazione al “tu” e ancora peggio al “voi”. È l’“io” come autore di cronache personali insipide o come dispensatore di opinioni banali. Il peggior uso che si possa fare di quel pronome è per raccontare i propri problemi di salute, i propri ricordi, o – peggio ancora – vicende di parenti e amici di cui all’interlocutore non importa assolutamente nulla.
Accingendosi a parlare, chiunque dovrebbe chiedersi: “Ma gli interessa, ciò che sto per dire? Per caso ho già parlato molto? Gli ho lasciato il tempo di dire la sua?” Molta gente simili domande non se le pone mai ed è infatti noiosissima. Un autentico castigo di Dio.
Qualcuno obietterà che siamo tutti interessati alla nostra salute e che dunque raccontare com’è andata la nostra malattia non costituisce un argomento futile. Giusto. Ma tutti siamo interessati alla nostra salute, non a quella altrui. Quella altrui semplicemente ci annoia. Ne sono così sicuro che, quando mi chiedono: “Come stai?” rispondo invariabilmente: “Bene, grazie”, anche se sto male. Perché sono certo che l’altro in realtà non ha nessuna curiosità, al riguardo. In questo senso sono più saggi gli inglesi che usano più spesso chiedere “How do you do?”, più o meno il nostro “Come va?” che “How are you?”, “Come sta?” Questa seconda domanda è infatti pericolosa: e se poi l’altro ce lo dice, come sta?
Per secoli, la coscienza che il nostro io interessa soltanto a noi – e a nostra madre, finché è viva – è stata così chiara, che i testi in prima persona, per parlare di sé, sono stati l’eccezione. Al punto che Cesare, dovendo raccontare come aveva condotto la guerra delle Gallie, ha scritto in terza persona, “Caesar iussit”, Cesare comandò questo e quello, come se Cesare non fosse stato lui. E lo stesso, se non ricordo male, fece Tucidide, che pure partecipò personalmente alla Guerra del Peloponneso. E dire che se, quando parla di sé, il Padre della Storia avesse usato la prima persona, sarebbe stata una goccia nel mare delle centinaia di pagine del suo capolavoro. Lo stesso Montaigne, nel Cinquecento, se scrive i suoi Essais (Saggi) in prima persona, non è per parlare di sé (ne parla pochissimo) ma per parlare dell’uomo in generale a partire dall’analisi di sé. La sua è quasi una forma di umiltà, come per dire: “Io ci provo, e potrei anche sbagliare. È soltanto un tentativo”. Un tentativo di centinaia di pagine.
Ovviamente esistono testi in prima persona che non potrebbero essere diversamente, per esempio le lettere di Cicerone o quelle di Seneca, le poesie di Catullo e via dicendo. Ma qui è l’argomento stesso che richiede la prima persona. Viceversa l’idea di fare arte parlando di sé, raccontandosi, vantandosi o compiangendosi, si è fatta strada molto lentamente. Per infine esplodere, col Romanticismo. La Francia in questo campo ha avuto uno strano destino. Ha avuto un precursore, J.-J.Rousseau, ed è tuttavia giunta al Romanticismo in ritardo, nientemeno nel 1830, proprio per la forza che la tradizione classica aveva in quel Paese. Ma poi è stata una slavina, fino a dare il disgusto ai “realisti”, sia in prosa (Flaubert) sia in poesia (i Parnassiens).
Questo io che si crede interessante perché vibra, ride, ama, piange, si confessa, ha invaso le letterature, e fatto credere a chiunque che, raccontando la storia della propria vita, potrebbe divenire un romanziere. E purtroppo questo protagonismo dell’io borghese (penso ai romanzi di Jane Austin) ha avuto dignità di arte e di protagonismo nel dramma borghese, nelle canzoni, nei film popolari ed oggi praticamente in ogni sede. Al punto che non bisognerebbe mai chiedere a qualcuno, incontrandolo, come sta. Anzi, nella maggior parte dei casi, avvistato un conoscente, bisognerebbe cambiare marciapiede in tempo.
L’io è sempre stato importuno, ma ora è diventato haïssable. Nel suo Seicento, Pascal non avrebbe potuto immaginare un mondo come il nostro. Lui si lamentava allora, e non aveva idea di quante ragioni in più avremmo avuto noi di odiare il “moi”.
Sempre sperando che in questo campo facciamo parte delle vittime e non dei colpevoli.
Gianni Pardo, giannipardo1@gmail.com

LE MOI EST HAISSABLEultima modifica: 2020-05-23T11:20:48+02:00da gianni.pardo
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