“IL COLIBRI'” NON VOLA

Il testo di Anna Murabito, alias Alida Pardo, che segue, è una sapida recensione del romanzo “Il Colibrì”, ultimo Premio Strega. Il giudizio è impietoso, ma ampiamente documentato.
G.P.
“IL COLIBRÌ” NON VOLA
“Il colibrì” di Sandro Veronesi è il libro vincitore del più famoso Premio Letterario d’Italia. È appena uscito e pare che abbia venduto già centomila copie, il che significa che anche quelli che non si interessano di letteratura per mestiere o per abitudine sono attirati da un libro che in qualche modo suscita curiosità.
L’autore lo ha scritto per avere successo e ci si aspetta dunque che sia di un approccio facile e scorrevole. Poi si comincia a leggere e si rischia il mal di testa. Dopo la prima scena che prometteva una vicenda agile e brillante, il romanzo si affloscia e si incupisce. Diviene dispersivo, va avanti e indietro, richiede un certo sforzo di attenzione. Pare che un po’ di confusione, di fanghiglia, giovi a “fare moderno”, “fare vero”. Invece a me sembra che faccia “falso”. Mi ricorda quella sabbia sintetica che negli anni ‘70/’80, con opportune bombolette, i proprietari dei fuoristrada spruzzavano a volte sulle fiancate per dare l’illusione – o procurare l’invidia – di avventurosi safari.
In un’intervista rilasciata dallo stesso Veronesi ho letto che ha scritto il libro in cinque anni così come i pensieri e i ricordi si presentavano, senza curarsi della cronologia. Al momento di vararlo, ha deciso che andava bene come lo aveva concepito. Bella fiducia nella fortuna dello scrittore, che non aveva Flaubert. Condita da una certa mancanza di rispetto per il lettore.
Una prima impressione, a lettura finita, è che il libro – a dir poco – non sia nitido. Sembra l’enfatizzazione di una sfocatura, la mesta celebrazione di una mancata comunicazione intellettuale, 360 pagine che “sonnent creux”, suonano cavo. Indipendentemente dall’andirivieni cronologico. A ripensarci, poi, lo sconcerto si accentua: la memoria mette il grassetto ai punti interrogativi.
La storia è tutta cucita di filo grigio in una spiaggia grigia. Il protagonista è Marco Carrera, un oculista, e la sua vita si svolge nell’arco di settant’anni. Marco è un personaggio dalla psicologia difficilmente identificabile. Forse è un uomo mite e sensibile, forse è idealista e sincero, forse è distaccato e blasé. Forse. Sicuramente è un odiatore di psicoanalisti. È lui il Colibrì. Perché da bambino era piccolo di statura ma scattante, “armonioso” e velocissimo nei movimenti. Ed anche perché, come ci rivela Luisa, l’amore della sua vita, lui impiega tutte le sue forze per stare fermo, mentre il mondo gli si muove intorno.
Il libro è tutto qui, anche come emozioni. Ci viene ripetuto una ventina di volte che Marco, ragazzino perfetto, era poco sviluppato ma poi, in meno di un anno, per effetto di una riuscita cura ormonale, crebbe di sedici centimetri. Questo dà la misura di una non comprensione con l’autore: lui giudica evidentemente importante e significativo qualcosa che al lettore sembra banale.
La vita di Marco è attraversata da una scia di lutti e di disgrazie: il suicidio della sorella Irene; la morte di cancro di entrambi i genitori; l’incidente mortale della figlia Adele; la nevrosi divorante della moglie e quella accaparrante della figlia. Tutto quello che uno scrittore (ed anche l’uomo della strada) identifica come “dolore”. E questo è uno dei temi, anzi dovrebbe essere il tema principale dell’intero romanzo. Solo che questo elemento, nelle mani dell’autore, perde la sua valenza di male di vivere, di sconfitta, di non senso dell’esistenza, e diventa materiale cronachistico inerte. Ci viene raccontato con la stessa partecipazione emotiva di un verbale dei Carabinieri, con le suggestioni che suscita una visita all’archivio del Comune. E non va meglio con gli altri due filoni che si possono individuare, cioè l’amore e l’“irrealistico”.
Il protagonista, attirato da coincidenze misteriose che poi si rivelano false, si innamora di una ragazza che vede in una trasmissione televisiva, la va a trovare al lavoro, e “naturalmente l’attrazione fisica fu fortissima”. E uno si chiede: perché? Nemmeno Rita Hayworth avrebbe potuto essere così sicura del suo successo. Quel “naturalmente” è impensabile da parte di un qualunque adulto, figuriamoci da parte di uno scrittore che invece ci “rilascia” un’affermazione apodittica, di disarmante superficialità. Si sarebbe tentati di commentare, altrettanto burocraticamente, “Ne prendo atto”.
Dopo la nascita della figlia, lui e la moglie facevano l’amore quando la bambina dormiva: ecco tutto quello che sappiamo del loro erotismo. Veronesi sembra non aver mai analizzato il desiderio sessuale, non ha neanche visto qualche film esemplare come “Bella di giorno”. Altrimenti non si esprimerebbe come un tredicenne complessato.
Per tutta la vita ama una donna, Luisa, con cui gioca a nascondino, non so se si baciano una volta e, quando hanno l’occasione di pernottare insieme in un albergo, fanno voto di castità, o qualcosa del genere. La spiegazione addotta – perché così non è tradimento – oltre ad essere ipocrita al di là del verosimile, rende un po’ ridicoli i personaggi e fa insorgere il sospetto che Marco Carrera, che tanto detesta gli psicoanalisti, ne avrebbe bisogno. I suoi problemi sessuali sono veramente drammatici. Ma queste considerazioni triviali vengono in mente perché l’autore, che non sa raccontare il dolore, non sa raccontare neanche l’amore.
Quello di Marco e Luisa sarà, per tutta la vita, un rapporto epistolare. Sarebbe bello se almeno le lettere – erotiche o spirituali non importa – fossero semplici e coinvolgenti, come le tragedie greche, con le loro elementari parole. Ma esse sono il più delle volte, più che cerebrali, cervellotiche. Soprattutto quelle di Luisa che ha uno psicoanalista e forse devono giustificare l’odio di Marco per gli psicoanalisti. Quelle lettere sembrano vaticini per i quali fare ricorso agli interpreti della Sibilla, tanto sono stucchevolmente arzigogolate. E lo stesso vale per le poesie riportate, oscure e legnose. Tranne l’ultima nell’ultima pagina, ma c’è il rischio fondato che il lettore non ci arrivi.
Questo amore, così falso e così costruito a tavolino, ha il sapore della lana di ferro con cui si puliscono le pentole. Ma può essere questo l’amore? E quando finalmente Luisa, coraggiosissima, poco prima della morte programmata di Marco, decide di baciarlo davanti a tutti “con la lingua” (ohibò) il protagonista pensa: “Brava, Luisa! Se osceno dev’essere, che lo sia fino in fondo!”. Osceno? Forse l’autore voleva dire “esplicito”, “sfacciato”.
Non solo il dolore e l’amore, ma nel romanzo tutti i sentimenti e gli umori sembrano non avere consistenza. Una serie di asserzioni, di fredde documentazioni notarili sostituisce lo schema classico della narrazione pensosa e coinvolgente. E anche quello avventuroso e ondivago del flusso di coscienza. Pagine e pagine si perdono dopo essere state lette, perché non toccano la mente né il cuore.
Marco, fin da ragazzino, ha la passione del gioco d’azzardo, una passione descritta tuttavia con la stessa intensità peccaminosa di una partita a bocce all’oratorio. Siamo lontani non solo dall’arte di Dostoëvskij, ma dalla realtà percepibile da parte di un attento osservatore. Veronesi mette il gioco d’azzardo sul piano freddo di qualunque hobby o interesse o attività. Dice “andava a giocare d’azzardo” come direbbe “andava a fare una partita a calcetto con gli amici”. Atimia? È questo che l’autore si prefigge? È difficile dirlo. Forse non se la prefigge, certo è il risultato: l’inerzia del sentimento, nella totale equiparazione di tutti gli eventi.
Si va avanti nella lettura del romanzo e cresce una sorta di cattivo umore, di scontentezza. Perché si rompe quell’intesa miracolosa che lega lo scrittore e il lettore, quella sintonia, quella simbiosi che interrompe la solitudine dell’uomo e fa dire: “Anch’io. Solo che io non lo so dire e tu sì”.
Il libro è percorso anche da una sorta di irrealtà che non è poesia, non è fantasia, non è favola. È la supina accettazione dell’incomprensibile, dell’incongruo, dell’irragionevole. E qui l’autore dà il peggio di sé. Ad esempio si racconta che il protagonista, bambino chiamato ad esprimere un desiderio davanti a una stella cadente, si augura che la sorella non si suicidi. Aveva forse cinque anni. Cos’era quel bambino, un veggente in pectore? L’autore non ne parlerà più. Che senso ha il racconto di una “curiosità” priva di verosimiglianza?
L’amico di gioco d’azzardo, l’Innominabile, è il personaggio peggiore. È uno iettatore, capace di provocare incidenti sportivi, di fare cadere aerei. La sua descrizione fisica è copiata da Mario Vargas Llosa, come Veronesi ci dirà in nota; la sua evoluzione sociale è copiata da Pirandello, come Veronesi ci dirà ancora. Mai che il protagonista si ponga il problema della sostenibilità scientifica di “capacità” come quelle del suo amico. Ha elaborato anzi una teoria “intelligente”: a lui, Marco, non succede niente finché rimane vicino allo iettatore, come la calma impera nell’occhio del ciclone. Dimentica anche che il ciclone si sposta, e chi era nell’occhio si ritrova nel turbine.
E alla fine, questo personaggio che ha “dormito” per anni nella vita di Marco e nella narrazione, viene risuscitato per far dire al protagonista ormai anziano: “Sai, non credo ai tuoi poteri”. È stato ingaggiato, come professionista della iettatura, da un amico di Marco che ha una bisca clandestina. “Per farlo piangere”, così ci dice ripetutamente l’autore. Ma l’Innominabile non se la sente di “far piangere” Marco e lo avverte. Questi, impavido, rimarrà al tavolo da gioco e vincerà ben ottocentomila euro, dopo aver rischiato però di perdere tutto. Scontro tra titani? Nessun intento grottesco, nessun sarcasmo: racconto di vita vissuta, come andare al ristorante con gli amici. Come si possono narrare acriticamente storie simili? Con personaggi da romanzacci d’appendice dell’Ottocento? Come si può credere alla fortuna, alla iettatura, nel ventunesimo secolo? Nessun proprietario di bisca assumerebbe mai uno iettatore, perché tutti i casino sono fondati sul calcolo delle probabilità, quello che rende ineluttabili le perdite dei giocatori. Diversamente i casino non potrebbero operare. La narrazione di Veronesi è sbagliata sul piano artistico, sul piano scientifico, su quello della normale logica.
Si è costretti, via via che affiorano alla mente, a ricordare altre terribili incongruità. Marco e la moglie, Marina, hanno una bambina che un giorno racconta al padre di avere un filo attaccato alla schiena: deve stare attenta e non farlo spezzare o aggrovigliare, così, se qualcuno le passa alle spalle, lei con opportune manovre lo sgroviglia. Ma com’è tenera e generosa la mia bambina! pensa il protagonista. E si commuove. Lo racconta alla moglie, e anche lei si commuove. E si commossero per due anni: è questo che scrive Veronesi. Viene voglia di aggiungere: “Tanto, c’era forse qualcosa di cui preoccuparsi? Mica la bambina aveva detto di essere Napoleone!”. “Solo che…”, ci dice l’autore, pensoso: le cose non vanno bene come uno crede. Lo scrittore elabora comportamenti da dementi, senza criticarli, e poi ci dice che la vita si vendica perché abbiamo trascurato i segnali.
E non solo nell’episodio del filo. Il protagonista sposa una sconosciuta e si aspetta che il matrimonio vada a gonfie vele. Trascurare i segnali. Questi non sono segnali, questa è una mandria di bufali nel corridoio. Ignorata. Come si può concepire una psicologia così elementare e commentare con le considerazioni dell’uomo della strada? Qual è, di grazia, il pensiero di Veronesi, il suo “messaggio”?
La maestra, finalmente accortasi che nella bambina c’è qualcosa che non va, ed esattamente i genitori, li fece venire a scuola e che fece? “li cazziò”. Sic. L’autore, con una lingua piena di sinonimi a disposizione, non trova altro verbo, neanche l’umilissimo “rimproverò”. Userà “cazziare” con lo stesso significato altre due volte. Alla fine, su suggerimento della maestra, la bambina viene affidata a un terapeuta, che ci viene descritto solo fisicamente. Come se questo dovesse darci un’indicazione sulla sua competenza. Dopo qualche tempo lo specialista sentenzia che la bambina ha bisogno di stare col padre. La piccola sta col padre e guarisce, si allontana dal padre e le ricresce il filo. Passerà tutta la sua vita in simbiosi col padre. Ma che bello.
Un giorno gli comunica di essere incinta, ma non dirà mai di chi. Il dio Marte? Sa comunque che da lei nascerà l’uomo nuovo. Cos’è, quello della ragazza: un desiderio? una teoria? un po’ di fantascienza? Ancora una volta, nel romanzo, abbiamo una semplice asserzione che basta a sé stessa. Il parto avviene in acqua con il padre a mollo con lei. Chissà cosa ne penserebbe un serio psicoanalista.
“L’uomo nuovo è una donna”, ci dice infine la ragazza, con una piccolina in braccio e l’orgoglio del pioniere. Forse. Che ne sappiamo di come funzionano i meccanismi mentali di simili personaggi? La sintonia con l’autore è ormai un lontano ricordo.
E si svilupperà, questo portento con la pelle marrone e i capelli ricci, gli occhi a mandorla da giapponese, azzurrissimi però. E la chiamarono Patchwork, direi, perché ormai un oceano mi divide da Veronesi. Ma lui dice seriamente che la piccola è un concentrato di tutte le razze. Sostituendosi alla madre, morta in un incidente, questa bambina starà accanto al nonno Marco fino alla fine.
Non voglio parlare del capitolo intitolato “L’uomo nuovo”: non mi occupo di fantascienza trattata come verità, di fantasia onirica, di quelle attitudini per cui, lo ribadisco, uno psicoanalista sarebbe lo specialista opportuno. Sono pagine e pagine di delirio da lasciare peggio che perplessi. Così come non si può parlare del capitolo intitolato “Le invasioni barbariche”, perché interamente tratto dal film omonimo. Tanto varrebbe parlare dell’originale.
Procedo senza curarmi troppo della cronologia, ma lasciandomi guidare da ciò che affiora infelicemente nei ricordi. Come l’episodio dello psicoanalista, divenuto per una crisi di coscienza operatore umanitario, che lascia Lampedusa, dove stava soccorrendo i migranti, e vola a Monaco dall’ex moglie del protagonista per darle la triste notizia della morte della figlia. “È questo il mio compito, aiutare chi soffre”. E tutto a sue spese. Assurdo.
Non so cosa aggiungere ancora, oltre alla mia tristezza e alla desolazione indotta da elenchi, nomi di strade e monumenti, descrizione di modellini, compunte incursioni in collezioni di libretti di fantascienza, episodi minuti, tutto di una noia mortale. Perfino una lunga lista dei mobili da design contenuti nella casa dei genitori, deceduti. Mobili che qualunque arredatore è in grado di identificare. È troppo poco anche per un ammiccamento ad un ambiente di élite.
Per finire, due parole sulla lingua usata. Impresa difficile, perché si tratta di giudicare il migliore scrittore d’Italia. Penso di poter dire che la sua lingua riserva delle sorprese. A parte “cazziare”, l’autore ci parla di un grande amore che “finisce a schifio” e non si sa a chi si rivolge, a Franco e Ciccio? È un’espressione popolare e desueta. Usata in piena descrizione letteraria arriva opportuna come una stornellata in un corale di J.S.Bach. E un’altra volta Veronesi dirà che la notte ci si alza “per fare una pisciatina”. E sorprende, oh se sorprende. Non perché non si possa dire, ma perché non c’entra: è un’espressione goliardica, scherzosa, familiare. È “fuori registro”. Ma forse Veronesi non sa che cos’è un registro linguistico.
Non si tratta di volere ingessare il linguaggio. Altre volte lo scrittore dirà, per esempio. “Sa chi mi ha liberato, a me?” Oppure “andare in fissa”, che non sono espressioni canoniche, ma riproducono il linguaggio parlato. Oppure “arrampicare”, usato assolutamente, o “i treni infilano in una galleria”. Mode che, anche se non piacciono, non sorprendono. Ma davanti a “non ci parlava”, si rifiuta l’ostacolo, perché “ci” significa inequivocabilmente “a noi”, e invece l’autore voleva dire “le”, a lei. E gli scappa un paio di volte.
La stranezza magari sorprende, ma la sciattezza sporca soltanto. Proprio un autore che fa dire puntigliosamente (e gratuitamente) al suo protagonista che l’espressione “mi auspico” è sbagliata, certi errori non dovrebbe commetterli. “Mi auspico” è sbagliato, ma “ci parlava” è peggio.
Avevo individuato anche espressioni eleganti, da vero scrittore. E avevo pensato di citarle, per dare il suo a Veronesi che ha vinto due volte il Premio Strega, ma poi non l’ho fatto. Un capitolo, “Ai Mulinelli”, mi era sembrato il migliore del romanzo, vigoroso e drammatico. Poi in nota l’autore ci dice che in realtà quel capitolo è di Beppe Fenoglio. Avevo sgranato gli occhi su un altro brano, e anche per questo l’autore ci dice di avere attinto alla prosa poetica di Sergio Claudio Perroni. E allora tengo per me quelle belle frasi, che ogni lettore noterà, di chiunque siano.
Mi ritrovo con un pugno di mosche. Il libro di Veronesi è la storia di un’incomprensione, di un imbroglio, di una rabbia. E la sua premiazione è l’unico mistero saporito della vicenda.
Anna Murabito (alias Alida Pardo)
alida.pardo@libero.it

“IL COLIBRI'” NON VOLAultima modifica: 2020-07-20T09:36:12+02:00da gianni.pardo
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5 pensieri su ““IL COLIBRI'” NON VOLA

  1. Stupendo! A conferma della strepitosa quantità di immondizia che oggi si pubblica – o ci si “autopubblica”, ma questo non è il caso: l’ha fatto UN EDITORE! – con strilletti di gioia di lettori “stregati” e osanna di critici e recensori (prezzolati?). Su Amazon una recensione reca “Storia appassionata e avvincente”: sic!
    Peccato che è lunga, ma sarebbe da pubblicare come recensione proprio lì.

  2. Per chi avesse letto le recensioni indicate da Roberto, segnalo che la descrizione di Duccio “dal sorriso cavallino, talmente magro da sembrare sempre di profilo” è tratta da Vargas Llosa, come nelle note finali ci confessa lo stesso Veronesi.
    A,M.

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