GianniP

TERMINI IMERESE

Solo chi non ha patito la fame, solo chi non ha spedito un curriculum dietro l’altro, solo chi non ha cercato lavoro a porta a porta può rimanere indifferente al dramma di chi è economicamente disperato. Chi scrive in questo campo ha le carte in regola. Ha vissuto momenti in cui si nutriva di pane e latte perché erano   i cibi che costavano meno e comprava il giornale – unico lusso – solo perché c’erano gli annunci economici. Tuttavia, dinanzi a gravissimi problemi come quello della fabbrica della Fiat a Termini Imerese, si rimane urtati dalla quantità di retorica che ci viene rovesciata addosso. Per questo è opportuno scendere di nuovo sulla Terra e vedere quali sono i dati di fatto.
1)    Nessuna impresa che realizzi profitti desidera mai chiudere. Dunque, se si parla di chiusura, si può star certi che l’impresa è in rosso. O è in rosso tutta intera, oppure è in rosso quella determinata branca o quel determinato stabilimento.
2)    Se, per motivi di pace sociale si fa in modo – con incentivi, vantaggi fiscali, sovvenzioni e comunque senza cambiare il modello produttivo – che quell’impresa non chiuda, è evidente che lo Stato ripianerà il deficit per tutto il tempo in cui la fabbrica opererà, in condizioni antieconomiche.
3)    Quando lo Stato ripiana un deficit, lo fa con denaro ottenuto da cittadini che non operano in deficit: diversamente non potrebbero pagare le tasse. In altri termini, sottrae denaro a chi produce ricchezza per darlo a chi non ne produce. Questo non sembra né etico né giusto. Fra l’altro, se si ripiana un disavanzo del 5%, non raramente poi si può scivolare al 10, al 20 o al 40%. Quando manca il limite del fallimento si rischia la tragedia dell’economia sovietica.
4)    Qualcuno potrebbe osservare che si è scritto: “senza cambiare modello produttivo”. Dunque basterebbe cambiare quel modello. Purtroppo, in alcuni casi non c’è modo di farlo; e comunque, se quella possibilità esiste e i dirigenti attuali non l’identificano, sta a chi vuole salvare l’impianto suggerirla. Invece l’esperienza l’insegna che se l’impresa dicesse ai lavoratori: “Qui ci sono le chiavi. Organizzatevi, nominate il dirigente di vostro gradimento, rendetevi produttivi e dividetevi i profitti”, otterrebbe un netto rifiuto.
5)    Nel caso di Termini Imerese, un alto dirigente ha detto che la migliore soluzione sarebbe rimorchiare la Sicilia nel golfo di Genova. La distanza geografica della cittadina siciliana dalla zona più industrializzata del Paese è un handicap insuperabile. Ma se questo è vero, la prima cosa da dire alto e forte è che aprire quello stabilimento in Sicilia non è stata una buona idea. Dunque bisognerebbe chiedere mille volte scusa agli operai per l’errore politico iniziale. E poi spiegare che, ora, l’alternativa è tra la chiusura e l’adozione di un salario differenziale.
6)    Il salario differenziale suscita un naturale sentimento di rigetto. Essere pagati meno di altri, facendo lo stesso lavoro? Ma c’è una spiegazione. Dal momento che un’auto prodotta a Rüdesheim è già al centro dell’Europa, sia come reperimento dei componenti di fabbricazione sia come mercato, e un’auto prodotta a Termini, per essere venduta, richiede costosi trasferimenti di materiali e prodotti finiti, si dovrebbe dire ai lavoratori: “Se non vogliamo chiudere dobbiamo contentarci di un salario minore, che compensi il nostro svantaggio geografico”. Ma questo discorso, fatto alle maestranze, provocherebbe una mezza rivoluzione. Non è il caso di ipotizzare quanto e come i sindacati si straccerebbero le vesti, quanto alte sarebbero le grida di dolore dei partiti di sinistra, ecc. Dunque per tutti, se una soluzione ci deve essere, deve essere una soluzione a spese dello Stato. Cioè dei cittadini. Cioè di quelli che pagano le tasse. È giusto? Forse sì. Forse dovremo apprendere una nuova scala dell’etica, in cui la beneficenza agli improduttivi si fa a spese dei produttivi, e non per bontà, ma solo per togliersi di torno un problema politico.
Non sappiamo quale sia la soluzione giusta per il problema di Termini Imerese. Sappiamo solo che non è giusta nessuna soluzione che pretenda di mantenere in vita un’attività produttiva in deficit. Anche se abbiamo promesso di imparare una nuova scala etica, per il momento non abbiamo ancora capito che cosa ci sia di sbagliato in questa frase: “Ogni volta che qualcuno riceve porzioni di ricchezza che non ha prodotto c’è qualcuno che non riceve porzioni di ricchezza che ha prodotto”.
Gianni Pardo, giannipardo@libero.it
29 gennaio 2010

TERMINI IMERESEultima modifica: 2010-01-30T11:03:00+01:00da
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