GianniP

LAMENTO DELL’ANTICO VIAGGIATORE

“Non ho più voglia di viaggiare”. Ecco una frase che non pensavo avrei mai pronunciato. E invece.
Certo, sono passati molti anni, da quando ho cominciato a viaggiare, e mentre prima ero infaticabile, oggi sono un vecchio. Poco importa che mentalmente continuerei a fare le capriole ed altre birbanterie: il mio corpo non è dello stesso parere. Il punto interessante però non è che non possa fare passeggiate di chilometri, è che, appunto, non ne ho più voglia. E ciò significa che non sono soltanto cambiato (fisicamente) io, ma sono cambiati anche i posti da visitare.
Forse ho cominciato a viaggiare su strada nel 1957. In Vespa e in generale a 40kmh: per consumare poca benzina e non strapazzare il mezzo. Questo è forse il miglior modo di viaggiare, sulle grandi distanze: abbastanza comodamente nel senso che non si pedala: fare il Moncenisio in bici è impresa da professionisti, a volte dopati. Inoltre andavo alla giusta velocità, per il turismo: procedendo poco più veloci di una bicicletta, c’è il tempo per guardarsi in giro, per viaggiare rilassati, per non confinare il viaggio a ciò che si va a fare o vedere all’arrivo.
L’automobile è comunque il mezzo migliore. Si va più veloci, è vero, bisogna stare più attenti (e il panorama ne risente) ma si sfugge alle alee del clima, del freddo, del caldo. E perfino al mal di schiena motociclistico. Ma da principio (e per ben tre viaggi in Vespa, in Francia) io un’automobile non l’avevo. Divenni ricco con la 5oo, anni dopo.
Il mondo allora era diverso. Non che la differenza del numero di abitanti fra allora ed oggi sia grandissima. Ciò che è totalmente diverso è il livello di antropizzazione. Prima, forse perché c’erano molte meno automobili, il mondo era a misura d’uomo. Non soltanto c’erano poche autostrade (la Francia quasi non ne aveva) ma mancavano persino le circonvallazioni. Dunque per andare da un posto all’altro si traversavano tutti i villaggi, tutte le cittadine e persino le grandi città sul percorso. Venendo da Asti e andando verso Susa bisognava attraversare Torino, e ricordo ancora Corso Francia e altre indicazioni che tenevo a mente per la volta seguente. Passato il confine, non soltanto, per andare verso la Bretagna, bisognava attraversare il centro di Chambéry, ma perfino quello di Lione. Il risultato è che il sapore del territorio non si limitava a quello delle campagne, come oggi, ma si vedevano il diverso colore dei tetti, i mercatini rionali, la qualità della vita quotidiana dei singoli posti. Non è che dall’Italia (Aeroporto di Fiumicino o di Caselle) si saltasse all’aeroporto di Lione o di Parigi. Tutto era progressivo: la Toscana diveniva Liguria e poi Piemonte, le Alpi da attraversare non erano soltanto un dato geografico, e infine l’Italia diveniva Francia. La stessa Francia alpina diveniva Centro e poi Ovest, dal caldo si passava al fresco atlantico, magari fino all’immancabile, finissima pioggia bretone. Quella che chiamano “crachin”.
Ma non basta. Ciò che è essenziale è che si aveva la sensazione di essere i benvenuti. Se, sulla strada, mi veniva voglia di vedere o rivedere la rude cattedrale di Bourges, non avevo che da deviare qualche centinaio di metri e andare a parcheggiare di fronte alla Cattedrale, per visitarla dall’esterno e dall’interno, finché non ne fossi sazio. Oggi una cosa del genere è del tutto impensabile. A Bourges, come a Chartres, come a Colonia o a Ratisbona, dovunque per centinaia di metri intorno al monumento non c’è posto per parcheggiare. O, se uno lo trova, non soltanto è a pagamento, ma a tempo limitato. Sicché si va a vedere un capolavoro sentendosi il guinzaglio al collo.
E può andare anche peggio di così. Mi è capitato in più località – per esempio proprio a Ratisbona o ad Avignone, la seconda volta che ci sono andato, di cercare a lungo un posto in cui lasciare il mio guscio e alla fine mandare al diavolo sia Ratisbona sia Avignone. Arrivederci al prossimo documentario che vedrò in televisione, dalla mia poltrona.
Se penso ad un viaggio, oggi mi vedo come una bestia braccata dai divieti di sosta, dai sensi vietati, dal parcheggio a pagamento, da un traffico soffocante. E tutto ciò per arrivare ad un posto sovraffollato. Mentre, quando ho cominciato a viaggiare, si aveva quasi la sensazione, arrivando, di trovare altri innamorati venuti da lontano, in cerca di bellezza. Le automobili italiane erano così rare che, incontrandone una, si suonava il clacson in segno di saluto.
Oggi, se penso ad un viaggio, mi vedo incasellato prima in un aereo, poi in un pullman, con un mandriano che mi fa camminare, mi fa fermare, mi dice quello che devo vedere e per quanto tempo. Un povero animale selvaggio ridotto all’obbedienza. Un turista in batteria.
Forse non è vero che non ho più voglia di viaggiare. Forse è che mi hanno tolto la voglia di viaggiare.
Gianni Pardo, giannipardo@libero.it

14 agosto 2018

LAMENTO DELL’ANTICO VIAGGIATOREultima modifica: 2018-08-14T11:01:31+02:00da
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