GianniP

ARCELOR-MITTAL VISTA DA UN PRAGMATICO

Non sono un sindacalista, non sono di sinistra, e non sono abituato a piangere sulla sorte dei poveri operai sfruttati dal panciuto e nullafacente capitalista. Tuttavia ho accolto con una sincera stretta al cuore, anzi con autentico scoramento la notizia dell’abbandono della Arcelor-Mittal. La possibilità che la fabbrica torni allo Stato è assolutamente ferale. Infatti significa che costerà ai contribuenti italiani un fottio di soldi, solo per tenerla aperta e distribuire paghe. Una sorta di Alitalia, solo più in grande. Per giunta essendo paralizzata dal fatto che i commissari statali saranno sottoposti agli stessi rischi del codice penale cui si sottrae la dirigenza franco-indiana. Dunque non faranno “la cosa giusta”, faranno “la cosa meno rischiosa”.
Comunque rischiano di perdere il loro reddito diecimila dipendenti, più altrettanti nell’indotto. E tutto questo fondamentalmente per motivi ecologici. Il Parlamento ha tolto ai dirigenti della società franco-indiana lo speciale scudo penale che li proteggeva dai P.m. in vena di ravvisare reati ambientali, di infliggere loro multe – se non mandarli in galera – e obbligarli a comportamenti economicamente rovinosi. Insomma tutti i danni che può provocare qualcuno che interviene nell’economia avendo tutt’altre stelle polari: il diritto, la morale, l’ecologia e la sensibilità delle anime belle. Il risultato è un disastro che a me che, ripeto, non sono di sinistra, non sono un sindacalista e il resto, dà i sudori freddi.
Questo Paese è pazzo. Questo Parlamento è pazzo. Lo so che i parlamentari sono mille ed io sono uno, ma resto convinto che nell’autostrada sono loro in senso vietato. Non si può giocare così con la vita di un’Impresa che dà da mangiare a diecimila famiglie, che come acciaieria è la più grande d’Europa, ed è forse la spina dorsale di una città come Taranto. Io me ne frego dell’ecologia, come se ne fregano gli orsi, gli elefanti, gli squali, le cavallette. La prima cosa che mi interessa è: che cosa mangeranno gli operai di Taranto, fra un paio di mesi.
Ovviamente in questo frangente ognuno si sente in dovere di dire la sua. E non sarebbe un male se ciascuno aggiungesse un utile punto di vista, dal momento che una soluzione si dovrà pur trovare. O – almeno – cercare. E invece ci sono personaggi come Beppe Grillo o Michele Emiliano, il governatore della Puglia, secondo cui l’Ilva dovrebbe chiudere o trasformarsi in qualcos’altro. Ma si sono mai chiesti quali sarebbero le conseguenze economiche di una chiusura? E, ammesso che l’Ilva potesse riqualificarsi, in quale direzione? Se non lo sanno, parlano a vanvera. E chi gli dice che sia possibile? Credo sia Emiliano che ha detto che, comunque, l’Ilva dovrebbe operare senza bruciare carbone. E come si riscaldano, i metalli, bruciando buone intenzioni?
Comunque, anche chi cerca di fare discorsi un po’ più concreti, spesso perde i pedali.
Qualcuno dice che l’Arcelor-Mittal non ha appigli giuridici, per lasciare Taranto. Secondo questi Catoni, la vergognosa verità è che l’acciaio è in crisi, l’Impresa franco-indiana perde soldi e per questo vuole andarsene. C’è da trasecolare. Perché mai un’Impresa dovrebbe cercare alibi, per dismettere un’intrapresa che si rivela improduttiva? Perché mai dovrebbe vergognarsi, di questo motivo, che è assolutamente centrale, nel mondo della produzione?
Le Imprese non hanno soltanto il diritto di fare profitti, ne hanno l’assoluta necessità, se vogliono sopravvivere. E se non riescono a farli, è normale che comunque spariscano. Se continuasse ad operare in deficit, pur di distribuire salari, non sarebbe un’industria ma un ente di beneficenza. E anche gli enti di beneficenza, per esempio la Caritas, devono avere un bilancio in attivo, tra elemosine e distribuzioni.
E tuttavia questi discorsi demenziali hanno corso legale. Come è stato demenziale abolire lo scudo penale per i dirigenti (commissari statali inclusi), quando già in giugno l’Arcelor-Mittal aveva avvertito che, senza di esso, la fabbrica avrebbe chiuso il 6 settembre. Poi il 31 ottobre, sempre se non ho capito male , il Parlamento ha abolito proprio quello scudo fiscale e, tit for tat, l’Arcelor-Mittal ha fatto saltare il tavolo. Con grande sorpresa del governo. E i telegiornali che parlano di “fulmine a ciel sereno” o espressioni analoghe. Come se tutte le previsioni del tempo annunciassero che per Capodanno nevicherà sul Monte Bianco e poi effettivamente nevicasse.
Altra perla del livello intellettuale nazionale si ha – sempre se ho capito bene – dal punto di vista giuridico. Dice Antonio Patuelli – ministro a capo del Mise e successore di Di Maio – che la ditta franco-indiana deve continuare la produzione perché non ha nessun appiglio giuridico per buttare all’aria il contratto. Infatti in esso non è scritto che, se si abolisce lo scudo fiscale, l’accordo salta. Patuelli fa finta d’ignorare che – ma scrivo sulla base di ciò che sento a destra e a manca – nel contratto è scritto che l’Arcelor-Mittal si riserva di ritirarsi se muta il quadro giuridico in cui agisce l’Impresa. Cioè se cambiano seriamente le leggi, rispetto a quelle concordate al momento del contratto. E in questo caso il mutamento giuridico l’abbiamo avuto eccome. Non è tale la possibilità o no, per i dirigenti, di finire in galera per i pressoché inevitabili reati ambientali? E Giuseppe Conte – col solito ruggito del topo – fa la voce grossa. Lui, il giurista.
La verità è che il nostro Paese è demenziale perché non ha idea di ciò che siano la politica e l’economia. Nel giugno di quest’anno (non di un secolo fa) Conte ha detto che lo scudo penale accordato all’Acerlor Mittal era un privilegio, e dunque giustamente era stato abolito. Clap clap. Ma se era stato giustamente abolito, come mai poi era stato ripristinato di corsa – essendo sempre lui Presidente del Consiglio dei Ministri – viste le possibili conseguenze? E se quelle conseguenze erano gravissime, tanto da passar sopra ai virtuosi principi enunciati in giugno, perché poi in ottobre si è lo stesso abolito lo scudo penale? Le banderuole hanno più coerenza.
Ecco perché si può dire che questo governo non sa né che cosa sia l’economia né che cosa sia la politica. L’economia è quella cosa in cui i conti devono tornare e, se lo Stato è disposto a far debiti fino al fallimento, un’Impresa privata, se può, questo finale lo evita. Dunque se l’Arcelor-Mittal a Taranto perde soldi, in un modo o nell’altro se ne andrà. Non ci sono santi.
Per quanto riguarda la politica – dai tempi di Machiavelli per la teoria, e da sempre per la pratica – è separata dalla morale ed anche dal diritto. Se, per i diecimila dipendenti dell’Ilva, più tutti i lavoratori dell’indotto, più i lavoratori delle altre acciaierie sparse per l’Italia, è necessario che quella fabbrica “giri”, producendo posti di lavoro, acciaio e profitti per la Arcelor-Mittal, qualunque serio uomo di Stato intanto otterrebbe questo risultato, anche contro venti e maree, e poi discuterebbe del resto. Ma è ciò che farebbe un uomo di Stato.
Gianni Pardo, giannipardo1@gmail.com

ARCELOR-MITTAL VISTA DA UN PRAGMATICOultima modifica: 2019-11-05T15:09:07+01:00da
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