GianniP

L’AMERICA DI TRUMP E QUELLA DI BIDEN

Il tempo intercorrente fra le elezioni presidenziali americane (l’inizio di novembre) e il giorno dell’insediamento del vincitore (il 20 gennaio) appare sempre enormemente lungo. Il vecchiopresidente ha costantemente l’aria di un abusivo la cui massima preoccupazione è il trasloco, il nuovo sembra poco credibile, perché appare privo di ogni potere mentre si sa che presto li avrà tutti. Non so perché i costituenti americani abbiano stabilito un tempo così lungo, ma Jefferson è morto e non gli si possono chiedere spiegazioni.
Naturalmente cambia molto secondo che si tratti di un presidente dello stesso partito o del partito avverso. In ogni caso, i commentatori si scervellano per prevedere quali differenze ci saranno con la nuova presidenza. Perfino nel caso di una riconferma, si sa che il secondo “term”, cioè i secondi quattro anni, possono essere più importanti dei precedenti. Infatti il presidente, non potendo essere rieletto, si dedicherà più distesamente ai grandi progetti e alle grandi riforme, non dovendo tenere in troppo conto i sondaggi e le reazioni dei cittadini.
Nel caso attuale, tutto è complicato dal comportamento di Donald Trump il quale denuncia imbrogli e chiede riconteggi. Operazioni che fino ad ora non hanno condotto a niente. La contestazione dei risultati non è nuova (si pensi al caso Bush-Gore) ma nella maggior parte dei casi è sterile. Insomma, se la vittoria di Biden sia derivata da una falsificazione del risultato elettorale lo dirà la storia: ma nel frattempo Biden sarà il nuovo Presidente degli Stati Uniti.
E tuttavia, in questo caso ci potrebbe essere qualcosa di nuovo. Quattro anni fa Trump è stato ritenuto un vincitore improbabile e addirittura assurdo. Il suo stesso partito ha cercato in ogni modo di sbarrargli la strada. In seguito, dopo che ha vinto, l’intera America – quella degli intellettuali, delle università e dei “giornaloni” – gli è andata contro a testa bassa, ogni santo giorno, a torto o a ragione. Tanto che la sorpresa non è stata che abbia vinto Biden, ma che non abbia vinto “a valanga” come si prevedeva. Ed è questo il fenomeno che bisogna analizzare.
Quattro anni fa Trump ha fiutato gli umori del Paese in modo molto più penetrante dei suoi colleghi di partito. Per non parlare degli avversari. Dunque la sua vittoria non è stata quella di un uomo che propone una nuova “vision”, ma quella di qualcuno che si è fatto portavoce dei sentimenti più profondi, e diciamo pure esasperati, del Paese. Gli americani erano stanchissimi di sinistrismo buonista e politicamente corretto; di missioni internazionali, tanto che lo spostamento del pendolo isolazionista si era visto con lo stesso Obama; di grandi ideali e di grandi spese; di “doveri” degli Stati Uniti all’estero, magari trascurando i bisogni dei bianchi locali. E che questo umore fosse forte e diffuso si è visto proprio in queste elezioni: Trump, malgrado tutti i suoi eccessi, ha perso di poco, ed ha anzi aumentato i suoi voti di parecchi milioni. Questo significa che ancora oggi metà America è per quel tipo di politica. E potrebbe persino rieleggere Trump fra quattro anni. Troppi vogliono vantaggi concreti, pace e prosperità interna, l’America per gli americani, la fine di troppi ideali fumosi e costosi, fra cui un esagerato ecologismo. Politiche che vanno bene per i ricchi ma non per i poveri.
Se Biden fosse quel pragmatico che dicono, dovrebbe adottare il meglio della politica degli ultimi quattro anni, lasciando cadere gli ideali pastorali e irenici della sinistra liberal, la beneficenza internazionale e il salasso dell’America, “badante” del mondo. Forse gli americani non sono per “America first” ma per “America only”. Anche perché, se adotterà la politica come la concepiscono gli intellettuali, gli americani gliela faranno pagare, eleggendo il primo Trump di passaggio.
La vicenda americana, a mio parere, non è soltanto americana. Forse siamo a una svolta della storia. Essendo vecchio, certe cose non le ho studiate nei libri, ma leggendo ogni giorno il giornale e sentendo la gente parlare. In Italia, a partire dal primo centrosinistra – sto parlando del 1963 – la sensazione corrente è stata che ogni mese che passava la “sinistra sostanziale” avanzasse inesorabilmente. Non importava se un’elezione andava bene o male, era la mentalità che subiva una deriva verso una sorta di Stato totalitario. Prova ne sia che molti intellettuali attenti al portafogli o, peggio, in buona fede, erano di sinistra per salire sul carro del vincitore perché tanto, prima o poi, sarebbero stati obbligati a farlo. Il trionfo del comunismo era visto come una facile profezia perché la sua “verità” si imponeva obiettivamente. Così, agli occhi di un liberale come me, erano sostanzialmente comunisti uomini che si sarebbero molto sorpresi, a sentirsi definire tali.
Ma avevo ragione io. Certe idee di fondo erano marxiste anche se la gente non se ne rendeva più conto e in buona misura lo sono ancora. Quando si parla di rilanciare l’economia, si parla di investimenti. Ed è vero, gli investimenti di successo sono il miglior motore dell’economia. Purtroppo in Italia, quando i politici, i giornalisti, gli intellettuali, e perfino i pizzicagnoli, parlano di investimenti, non pensano a sgravare le imprese dell’eccesso di tasse (in modo che possano investire nel futuro e nel miglioramento della produzione) ma agli investimenti pubblici. E dire che è noto a cani e porci che questi investimenti si risolvono regolarmente in uno spreco di risorse e un aumento del debito pubblico. Quando non della corruzione. Semplicemente perché lo Stato – non per colpa sua, ma per colpa di coloro che lo servono – è un pessimo imprenditore. E lo Stato italiano è pessimo fra i pessimi. Ma ciò non basta a mettere in discussione il dogma comunista e collettivista: lo Stato è disinteressato, onesto, e opera per il bene di tutti, mentre l’imprenditore privato è una sanguisuga che, orrore! opera nel proprio interesse. Provate a difendere la detassazione e gli investimenti privati, di contro a quelli pubblici, e vedrete la reazione.
Per molti decenni mi sono chiesto quando il popolo si sarebbe finalmente accorto dell’impraticabilità degli ideali di sinistra. La prima avvisaglia è stata la comparsa di Margaret Thatcher, che ha salvato il Regno Unito dall’affondamento. Poi abbiamo visto l’irriso Ronald Reagan, con le sue reaganomics, di enorme e rimpianto successo. E infine non Trump personalmente, delle cui sorti personali ben poco mi cale, ma il sentimento che ha creato il successo di Trump. Questo sentimento non è affatto morto e per la fine delle illusioni potrebbe anche essere la volta buona. Fra l’altro, se i ballottaggi di gennaio consegneranno il Senato interamente ai repubblicani, si ridurrà di molto lo spazio di manova dei democratici.
O Biden accoglie in notevole misura i desiderata di un popolo in cerca di buon senso e realismo, o per la sinistra mondiale le elezioni del 2024 potrebbero segnare un tracollo definitivo.
Gianni Pardo giannipardo1@gmail.com
22/11/2020

L’AMERICA DI TRUMP E QUELLA DI BIDENultima modifica: 2020-11-23T12:23:09+01:00da
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