GianniP

RIFORMARE LA GRAFIA DELL’INGLESE?

L’inglese, per lo straniero che voglia impararlo, è un vero tormento. La grammatica è semplice, ma il lessico è arduo e la grafia induce spesso in errore. L’unico modo sicuro per conoscere la pronuncia di una parola, conoscendo l’Alfabeto Fonetico Internazionale, è la consultazione di un buon dizionario. E ciò vale anche per un inglese, sia per le parole che non ha mai sentito prima, sia per quelle dalla pronuncia ambigua. Egemonia,per esempio, si pronuncia sia “egèmoni” sia “eghèmoni”. Per non parlare delle differenze fra inglese-inglese e inglese-americano. O australiano, sudafricano, indiano e chissà di quanti Paesi ancora. Neanche la grafia si salva, se è vero che gli inglesi scrivono theatre e gli americani theater e perfino “tonite” per “stasera”, “stanotte”.
L’inglese è la lingua più parlata ma anche la più strapazzata del mondo. Ed è un po’ colpa sua se è vero, come credo di ricordare, che lo stesso George Bernard Shaw, lasciò il suo patrimonio all’impresa di modificare la sua grafia bastarda. Speranza vana. Perché le pagine scritte in inglese, nel mondo, sono innumerevoli, e ognuno oggi dovrebbe imparare la doppia grafia, quella inglese tradizionale e quella fonetica. Inoltre ognuno che ha fatto la fatica di superare quello scoglio impone sadicamente agli altri di fare altrettanto.
Questo fenomeno si è visto anche in Francia, dove l’Académie Française ha cercato di abolire alcune delle regole più stupide, complicate e inutili di quella già difficile lingua, ed ha incontrato la resistenza di tutti coloro che, con anni di sforzi, quelle regole erano riusciti ad impararle. In Francia esiste il club ideale di “quelli che queste cose le sappiamo”, diversamente dai “tanti che non le conosceranno mai”. Perfino io faccio parte dell’eletta e sparuta schiera degli “accordatori di participi passati”, ma ho dovuto impararle per difendermi da quegli stranieri che, non conoscendo la lingua francese, ma soltanto la sua grammatica, sono fieri di poter mettere in difficoltà anche i francesi.
La sostanziale impossibilità di passare all’inglese scritto foneticamente dipende inoltre da altre, più serie ragioni. Il dizionario, anche quando riporta la trascrizione secondo l’Alphabet Phonétique International, dà la pronuncia “statica” della parola. Ma quello è soltanto “uno” dei modi di pronunciarla. La parola in realtà si deforma nell’uso, in conseguenza della fonetica combinatoria, della velocità dell’eloquio, del registro di lingua usato (volgare, distinto, solenne, ecc.), delle influenze dialettali e perfino delle abitudini fonatorie personali. Per ben spiegare questo fenomeno torniamo all’italiano.
Noi italiani siamo convinti che l’italiano si parla come si scrive e non è vero. Certo tra la grafia e la pronuncia non c’è la distanza che c’è in inglese, ma differenze ce ne sono molte. Per cominciare, la divisione delle parole è ingannevole. Prendiamo la frase: “La casa di mio zio è rossa”. Sembrano sette parole ma, per cominciare, “la” non è una parola a sé. L’articolo è proclitico, nel senso che non ha un accento suo, ma ha l’accento della parola che segue. E infatti noi pronunciamo “lacàsa”, non “la casa”. Poi non diciamo “erosa” ma, “errosa”, perché il verbo “è” richiede il “raddoppiamento sintattico”, cioè il raddoppiamento della consonante seguente. Ecco un caso di fonetica combinatoria. Esattamente come diciamo “vado arroma”, perché anche la preposizione “a” vuole anch’essa il raddoppiamento: “Lodìco attè”. Perfino la preposizione “da” vuole il raddoppiamento, ed hanno ragione i toscani quando pronunciano: “Frallaltro questo lo sai datté”. Scriviamo “un piccolo” e leggiamo “umpiccolo”. Spesso si elide la vocale finale se la parola seguente comincia per vocale, come nella frase: “Credall’animimmortale”. Potrei continuare, ma vi prego di credermi sulla parola.
E tuttavia. stranamente, l’esempio della lingua italiana potrebbe essere la soluzione per l’inglese. Nell’impossibilità, per la scrittura, di rendere conto di tutti i fenomeni fonetici e fonologici derivanti dall’uso, si potrebbe scegliere di scrivere le parole come le indica il vocabolario, sopportando poi che esse siano in parte modificate nell’uso. Rimarrebbe comunque il vantaggio di evitare errori marchiani. Chi non conosce la parola “choir” (coro) potrebbe leggerla “ciòir”, mentre si deve leggere “‘kwaiǝ”, più o meno “quàia”. Assolutamente imprevedibile. Per non dire che “enough” (abbastanza) si pronuncia in maniera tale (“i’nʌf”) che di fedele alla grafia rimane soltanto la “n”.
L’inglese scritto foneticamente imporrebbe l’apprendimento dell’alfabeto fonetico (questione di mezza giornata) ma, da quel momento, che pace. Nessuno sentirebbe mai più “off” per “ov”, cioè per la preposizione “of”, tormento universale. E mille altri orrori, fino all’incomprensione. Ci sono addirittura italiani che dicono: “Sono andato a Londra, ho parlato inglese e gli inglesi facevano finta di non capire”. Facevano finta.
Ma tutte queste sono divagazioni. L’Italia ha un suo personale inglese, composto di circa una cinquantina di vocaboli, pronunziati e usati in un modo comprensibile soltanto in Italia. Del resto, che c’importa del resto del mondo? Una volta una giornalista, in un “servizio” su Hitchcock, dopo che dieci volte si era sentito in sottofondo la parola “s-spèns”, pronunziata da americani, ha detto confidenzialmente: “Loro dicono s-spèns, ma noi diciamo sàspens”. E già, siamo una repubblica sovrana. Basti dire che chiamiamo Mìlan una squadra del capoluogo lombardo, mentre il nome è inglese (Milan Football Club, credo), e gli inglesi chiamano quella città “Mi’læn”, praticamente con l’accento sulla “a”.
Dinanzi ad un simile panorama si è invasti dallo scoraggiamento, fino a dire “Basta che c’è la salute”. Ma con la pandemia non abbiamo nemmeno quella.
Gianni Pardo giannipardo1@gmail.com
5 marzo 2021

RIFORMARE LA GRAFIA DELL’INGLESE?ultima modifica: 2021-03-07T09:10:09+01:00da
Reposta per primo quest’articolo