GianniP

CASA DI MONTECARLO: LA CONCLUSIONE

Nella vicenda della casa di Montecarlo – anche alla luce delle dichiarazioni dell’on. Franco Frattini al Senato – si illustrano in modo esemplare tre principi: l’utilità di negare anche l’evidenza quando non conviene; l’impossibilità, alla lunga, di nascondere la verità e l’inutilità di una verità che arriva in ritardo e non ristabilisce gli equilibri turbati.
Chi nega l’evidenza dovrebbe essere considerato con disprezzo da tutti, ma ciò non avviene perché, fra gli ascoltatori, ci sono quelli che quell’evidenza desiderano negarla anche loro. Quando in Unione Sovietica si soffriva la miseria, si viveva in coabitazione, imperava il terrore staliniano e non era nemmeno lecito viaggiare all’interno del territorio, i giornali liberi lo dicevano ma questa verità non piaceva ai comunisti che, puramente e semplicemente, la negavano. L’Unione Sovietica era il paradiso dei lavoratori e qualunque prova contraria era rigettata con disprezzo. Non c’era argomento che potesse smuoverli. Non il famoso libro di Victor Kravcenko, negli Anni Quaranta, non le drammatiche conferme di Köstler e di tanti altri. Furono trattati da calunniatori e a Kravcenko fu addirittura intentato un processo.
Come si vede, chi era in buona fede e voleva conoscere la verità, poteva benissimo conoscerla: ma la maggior parte delle persone non approfondisce le questioni. In un caso come quello dell’Unione Sovietica si concludeva: alcuni dicono che vi si vive bene, altri dicono che vi si vive malissimo, chissà! E il dubbio, in questo caso, era un glorioso trionfo della menzogna.
Ma alla lunga la verità viene a galla. In Russia quella politica la disse Khrushchev, quella economica fu confermata dalla fine della dittatura. Ma ciò che sarebbe stato dirompente nel 1950 non lo fu quarant’anni dopo. Stalin e successori avevano nel frattempo incassato tutti i dividendi della loro disinformatia (se si scrive così). E poi è passato tanto tempo che i comunisti italiani di allora – alcuni arrivati anche alle più alte cariche dello Stato – hanno potuto farfugliare confusamente “non avevo capito”, “non fino a questo punto”, “ero in buona fede”. Insomma, invece di dire “ero anch’io in malafede” se la sono cavata balbettando e, dopo tanti anni, nessuno si scalda più.
La vicenda si ripropone per la casa di Montecarlo ma, come diceva Marx, stavolta la storia si ripete come farsa. A chi era in buona fede è stato chiaro sin dal principio che Giancarlo  Fini avesse fatto avere a suo cognato un appartamento a un terzo o un quarto del suo valore. Ma i suoi sostenitori (stavolta anche da sinistra, per puro interesse antiberlusconiano) si sono arrampicati sugli specchi: no, quella casa non valeva di più; no, Gianfranco ed Elisabetta non hanno comprato una cucina per arredarla; no, l’hanno comprata, ma non per Montecarlo; no, Elisabetta non s’è incaricata della ristrutturazione; no, la firma di Giancarlo Tulliani non era la stessa come dante e avente causa per la locazione; no, non c’erano state offerte per somme maggiori, e via negando a tutto spiano. Il “Giornale”, pazientemente, accumulava prove e testimonianze, ma la risposta era sempre negativa su tutto. Infine, furono pubblicati dei documenti, su un giornale caribico, e la risposta fu: dei falsi! Chi ci assicura che siano autentici? È tutto fango inventato dal “Giornale”. Che fossero autentici lo confermò un ministro di quella piccola isola, e il “Fatto Quotidiano”, nientemeno, pubblicò l’intervista. Sì, ma chi ci dice che quel ministro dica la verità? Oggi arriva la conferma ufficiale e questa conferma la dà il governo di quel Paese al nostro Ministero degli Esteri. Ma forse ora i finiani e i loro sostenitori affermeranno che non esiste una città chiamata Montecarlo.
Se è vero (e ne dubitiamo) che non esistano profili penali, perché non hanno detto subito la verità, indennizzando Alleanza Nazionale? Il fatto è che sul momento sarebbe stato uno scandalo politico e ora si spera, con qualche fondamento ma con non troppa sicurezza, nella smemoratezza della gente. La disinformatia contava sui tempi lunghi, tanto lunghi che la verità o non sarebbe mai stata rivelata o lo sarebbe stata con tale ritardo da essere ininfluente, ma qui si va dall’estate 2010 al gennaio 2011: troppo poco tempo perché la verità sia del tutto ininfluente. E per giunta Gianfranco Fini ha imprudentemente detto che, se fosse risultato che la casa appartiene al suo quasi cognato Giancarlo Tulliani, lui si sarebbe dimesso da Presidente della Camera. Ora questo dato è certo e se lui avesse una parola d’onore si dovrebbe dimettere: ma siamo convinti che non lo farà. Magari con qualche scusa inverosimile, per esempio sostenendo che il giovanotto non possiede la casa ma la società off-shore che possiede quella casa. Che sarebbe come dire “Non lui ha ucciso, ma la pistola. Lui ha solo tirato il grilletto”.
Gianni Pardo, giannipardo@libero.it
27 gennaio 2011

CASA DI MONTECARLO: LA CONCLUSIONEultima modifica: 2011-01-27T13:46:50+01:00da
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