DEMOCRACY IN ANGER

Per decenni, anzi per secoli, il mondo è stato abituato a considerare la democrazia americana solida e pacifica. Gli avversari politici si scambiano colpi feroci ma quando l’arbitro alza il pugno del vincitore, i due si abbracciano fraternamente. Nel sentimento della gente, oltre che per lo spirito democratico, questo comportamento era dovuto ad un obbligo di magnanimità. Il vincitore aveva il dovere di evitare la iattanza, e nei “western” lo spaccone che all’inizio del film si fa forte dei suoi soldi, della sua abilità con la pistola o dei suoi accoliti, finisce inevitabilmente umiliato, quando non ucciso. Il vinto a sua volta ha il dovere di riconoscere lealmente la vittoria del più forte, e dargliene atto. Chi contesta la sconfitta, o mostra di soffrirne troppo, è un “bad loser”, uno che non sa perdere.
L’attuale campagna presidenziale fa eccezione. In passato ci sono stati candidati “indipendenti”, cioè non sostenuti da nessuno dei due grandi partiti, ma sono stati considerati personaggi di disturbo, un’eccentricità del sistema, un fenomeno destinato ad esaurirsi nelle prime battute della campagna. Un nome per tutti: Ralph Nader. L’alternanza era prevista ed accettata, con un limite: gli americani erano liberi di scegliere il candidato di loro maggiore gradimento, ma soltanto fra i due “ufficiali”. Gli altri non contavano. E ciò dimostra che l’America non era preparata al fenomeno Donald Trump, che rappresenta un’assoluta novità.
Il magnate di New York ha cominciato la campagna senza il sostegno morale, politico e soprattutto finanziario del Partito Repubblicano. Visti gli altissimi costi della politica statunitense, ciò avrebbe tagliato le gambe a chiunque, ma non ha scoraggiato Trump il quale, straricco di suo, ha affermato sin da principio che si sarebbe finanziato da sé. La cosa avrebbe dovuto essere preoccupante, già allora, perché chi è indipendente economicamente lo è anche politicamente, per quanto riguarda il Grand Old Party o il Partito Democratico. Ma il GOP non si preoccupava. Secondo la tradizione, Trump sarebbe stato il candidato di disturbo che uno dei candidati del partito avrebbe fatto fuori sin dalle prime battute.
Ma presto si è visto che non andava così. Colui che era destinato a perdere, non faceva che vincere, fino a passare da personaggio folcloristico a pericolo reale. A quel punto il suo stesso partito ha tentato in ogni modo di sbarrargli la strada, ma più si accaniva contro di lui, più Trump vinceva. Fino ad arrivare trionfalmente alla candidatura. Alla sua personale candidatura alla Presidenza degli Stati Uniti.
Il Partito Repubblicano si è seriamente allarmato. O si rassegnava a perdere le elezioni oppure rischiava di avere un Presidente che non era espressione del partito. Ma soprattutto si allarmava l’intera America politica. Perché il messaggio di fondo di questo outsider di successo era la contestazione dell’establishment sia dell’uno, sia dell’altro partito. Trump ha irriso la political corretness, l’ipocrisia, la demagogia, le genuflessioni dinanzi ai principi accettati, magari molto nobili ma a spese del popolo. Proprio per questo Trump si è trovato contro tutti: i maggiorenti repubblicani e democratici, i grandi giornali, gli attori di Hollywood, gli intellettuali, gli europei, la lista è infinita. Per lui c’era soltanto una gran parte del popolo americano. Quello che a lungo non aveva avuto voce, non aveva avuto il diritto di dire “basta”, e in nome della political correctness non aveva avuto il diritto di difendere i propri sentimenti e i propri interessi.
È forse questo l’errore che ha permesso a Trump di progredire malgrado tutti gli ostacoli che sono stati messi sulla sua strada. La gente non ha pensato: “Se il New York Times gli va contro significa che è un gaglioffo”; ha pensato: “Se il New York Times gli va contro, vuol dire che teme per i propri interessi. Ma gli interessi del New York Times sono forse i miei?” “Gli attori di Hollywood sono in maggioranza contro di lui? Certo, fanno parte dell’establishment. Dei ricchi. Se fossero disperati come noi, vedrebbero Trump diversamente”. Trump quanto meno rappresentava il cambiamento.
Già, il cambiamento. Quello stesso “change” di cui Obama ha fatto una bandiera senza poi cambiare niente di sostanziale. E fa talmente parte dell’establishment che oggi, senza la minima preoccupazione di apparire super partes, fa campagna elettorale per Hillary Clinton. Se per molta gente un cambiamento c’è stato, con Obama, è che prima l’America contava, nel mondo, ed ora chi conta è Putin.
Rimane dimostrato che l’America ha il mito del singolo vincente contro i molti, ma il suo establishment politico rigetta questo mito. Invece Trump lascerà una traccia perché ha meglio capito la temperie storica. Che vinca o perda, ha reso evidente che gli americani sono in grandissimo numero stanchi del conformismo buonista ufficiale. Chiedono franchezza, coraggio, realismo e soprattutto un’efficace protezione dei loro interessi.
Gianni Pardo, pardonuovo.myblog.it
6 novembre 2016

DEMOCRACY IN ANGERultima modifica: 2016-11-06T10:25:12+01:00da gianni.pardo
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