IL MALE ALLA RADICE DEI MALI

Il giornalista Andrea Bonanni scrive sulla “Repubblica”(1) un brillante articolo su un fenomeno cui abbiamo assistito molte volte: dinanzi a molti problemi non si fornisce una soluzione adeguata, o almeno tale da reputarla “buona”, ci si rassegna ad accettare il “meno peggio”. Anche se, personalmente, non ho mai saputo se “meno peggio” sia buon italiano.
Bonanni fa una lunga serie di esempi. Bisogna salvare le banche, a costo di far pagare i clienti o lo Stato, non perché ciò sia bello o giusto, ma perché lasciarle fallire sarebbe peggio. Bisogna accettare l’austerità, perché lasciar volare il debito pubblico sarebbe peggio. Bisogna aiutare la Grecia, anche se è chiaramente fallita, perché se i mercati proclamassero quel fallimento, sarebbe peggio per l’euro. Bisogna fare grandi concessioni alla Gran Bretagna per evitare che lasci l’Unione, o sarebbe peggio (si diceva). Bisogna lasciarsi prendere alla gola, e spremere come limoni, dalla Turchia, perché se essa lasciasse che i migranti ci invadano, sarebbe peggio. In America l’establishment si è schierato con Hillary Clinton, perché – pensava – una vittoria di Donald Trump sarebbe stata peggio. In Italia “Una larga fetta dei sostenitori del Sì al referendum spiega la scelta con il fatto che la riforma, pur imperfetta, è meno peggio” dell’immobilità. Angela Merkel, dopo avere esitato, si ricandida alle elezioni per evitare i populismi, che sono il peggio. Ma – dice Bonanni – tutto ciò alla lunga non è riuscito ad evitare la perdita di consenso degli elettori. E ciò ha aperto “la strada al populismo, che ha buon gioco nell’indicare come il male minore sia comunque un male”.
La sintomatologia è perfetta, ma la diagnosi è incompleta, e comunque è carente l’indicazione sull’eziologia del fenomeno.
Una prima osservazione nasce dal numero di casi di “meno peggio”. Se un’automobile ha un guasto, la si porta dal meccanico, sperando poi di stare in pace per qualche tempo. Se invece i guasti sono parecchi e, una volta che si sia posto rimedio ad uno, ne nasce un altro, e poi un altro ancora, e poi non uno ma due o tre, è segno che quel veicolo ha fatto il suo tempo e bisogna comprarne uno nuovo. Un problema è un problema, molti problemi fanno pensare ad un errore radicale, che rende inutile l’inseguimento dei mille sintomi.
Nel caso dell’Europa, bisogna partire dal fatto che questo continente non conosce una guerra da oltre settant’anni. La pace è un’ottima cosa, e chi ha vissuto questi settant’anni è stato particolarmente fortunato; nondimeno è pure vero che è venuto a mancare quello scossone che provocano le guerre, e che costringe le nazioni a cercare nuovi assetti e nuovi equilibri. Anche se un modello economico-sociale fosse perfetto (e nessuno lo è) col tempo diverrebbe inadatto ad una società che è cambiata. Un lungo periodo di applicazione finisce con l’ingigantire dei difetti che da prima erano sembrati insignificanti, fino a creare un notevole malessere. Il tennis è un bello sport, ma alla lunga provoca “il braccio del tennista”. E soprattutto, se un uomo ogni mese guadagna mille, spende 1.025, e contrae debiti, non avrà problemi per parecchio tempo. Ma in capo ai decenni, se contrae sempre nuovi debiti, anche perché già gravato dagli interessi sui vecchi, avrà modo di accorgersi che quel piccolo sbilancio è divenuto un macigno che rischia di schiacciarlo. E ai tempi di Dickens c’era la galera per debiti.
Il problema è dunque quello di identificare che cosa in particolare è arrivato al capolinea, nel nostro modello economico-sociale. La validità della conclusione sarà incerta, ma vale la pena di tentare l’impresa: non foss’altro, per fornire spunti alle integrazioni e alle contestazioni.
La guerra è un evento così traumatico che, in una direzione o nell’altra, se ne esce con un carico di emotività tale da esserne influenzati per decenni. La Germania, ad esempio, concluse la Prima Guerra Mondiale con la sensazione di essere stata indotta alla resa dai suoi governanti senza che fosse stata veramente battuta. E a questa rabbia si aggiunsero le condizioni di pace troppo vessatorie, imposte dalle potenze vincitrici. Il Paese, eccessivamente umiliato, finì con l’avere un’enorme voglia di rivincita. Fino a seguire Hitler nei suoi sogni e nella sua paranoia. Il risultato finale della rivincita fu una Germania non soltanto distrutta, ma disonorata, giustamente punita, piena di rimorsi e bramosa di pace a qualunque prezzo. Non soltanto tese la mano alla Francia, “per sempre”, ma sopportò in silenzio amputazioni territoriali dolorose e la spaccatura in due della nazione. Quel Paese affrontò a viso aperto e senza sconti l’intera ampiezza delle sue colpe, della catastrofe che aveva prima inflitto e poi subito.
Il caso dell’Italia è stato diverso e per qualche verso opposto. Anch’essa ha ricevuto la sua forma repubblicana, e la nota dominante della sua affettività, dall’esperienza della Seconda Guerra Mondiale. Anch’essa ha sofferto del totale crollo del Paese e delle sue istituzioni. Ma già nel momento in cui il conflitto si concludeva è cominciato quel processo di autoinganno assolutorio di cui l’Italia è stata la stupefacente campionessa.
Come è noto, la condotta della guerra è stata per l’Italia assolutamente disastrosa. Sul piano militare, la nostra sconfitta è stata preceduta da una serie pressoché infinita di rovesci: basta citare la campagna di Grecia, la distruzione della flotta a Taranto, la figura di straccioni fatta in Libia, la liquefazione dell’esercito dopo l’8 settembre. E tutto ciò fu aggravato da un comportamento che ci fece apparire vili e opportunisti: la fuga del re a Pescara, il proclama di Badoglio, e soprattutto, dopo che si era dichiarata guerra alla Francia già sconfitta, nel 1940, la dichiarazione di guerra alla Germania morente. Ce n’era abbastanza per una interminabile depressione nazionale. Ma, forse perché non avevamo commesso gli immensi crimini dei nazisti, forse perché il fardello era troppo pesante, noi abbiamo scelto il meccanismo della rimozione in senso psicoanalitico. “Noi non abbiamo perso la guerra, l’ha persa Mussolini, che infatti abbiamo ammazzato”. “Noi non abbiamo perso la guerra, l’hanno persa i fascisti di cui, come vedete, non c’è nemmeno traccia, in Italia”. E così siamo arrivati all’inevitabile conclusione di avere vinto la guerra contro i tedeschi. E neanche per procura: infatti l’avevano vinta i partigiani, come si è ripetuto il venticinque aprile di ogni anno, in cerimonie tanto stucchevoli quanto false, e come per decenni si è insegnato ai ragazzi nelle scuole. Si direbbe che in Italia, nel ’43 e nel ’44, ci fossero soltanto alcuni osservatori inglesi e americani. Pressoché neutrali. E ciò benché tutti i libri di storia non italiani abbiano assegnato un peso nullo al contributo militare dei partigiani nella campagna d’Italia.
Questo è il primo, grande peccato originale della Repubblica. Sin da quel momento abbiamo rifiutato di fare i conti con la realtà. Sorta su questo equivoco, su queste menzogne infinitamente ripetute e solennemente celebrate con la partecipazione delle massime autorità, l’Italia repubblicana si è immaginata nuova, forte e vincente. Maestra di democrazia e di moralità. Nessun complesso, dunque: anzi la certezza di essere un modello per il mondo.
La certezza della nostra superiore purezza ci ha fatto pensare che nessuna sensibilità morale fosse eccessiva per la nostra stirpe. Nessun ideale troppo alto o costoso per dispensarci dal dovere di perseguirlo. Nessun paradiso in Terra troppo inverosimile perché non avessimo il dovere di realizzarlo, senza badare ai costi. Sentendoci troppo eticamente delicati per imbracciare un fucile siamo stati felici dell’ombrello amerikano. Tanto, quelli sono aggressivi e amano fare la guerra: noi perché dovremmo spendere soldi per armi che non useremo mai?
Quella stessa determinazione ad essere paladini dell’utopia che già ci aveva fatto abbracciare il fascismo si è così trasfusa nell’adesione massiccia ai due partiti che più di altri avevano programmi non pragmatici. La Democrazia Cristiana – che sin dal nome denunciava la sua commistione fra politica e ideale religioso – e il Partito Comunista Italiano, che della palingenesi sociale ed economica aveva fatto la sua bandiera. Fino a predicare la rivoluzione. Ovviamente, in questo contesto i partiti su base esclusivamente pratica (il Repubblicano, il Liberale, il Socialdemocratico) sono stati sostanzialmente insignificanti e ausiliari. Non avevano appeal, non erano all’altezza dei nostri sogni.
E tuttavia, per circa un decennio, questa situazione fu confortata da un’imprevista e crescente prosperità. Fu allora che si parlò di “miracolo economico”, e si cominciò anche a pensare che ogni risultato fosse raggiungibile, ogni sogno si potesse realizzare. E nei decenni successivi cominciammo a metterci seriamente nei guai. Forse interpretando in malafede le teorie di J.M.Keynes, ed anche a causa di un boom demografico che sembrava promettere una platea di contribuenti sempre più grande, ci si dette alle spese pazze. Il quesito non fu mai: “Ce lo possiamo permettere?”, ma “Il richiedente è moralmente meritevole del beneficio?” E così ci si avviò ai benefici a pioggia, ai sussidi “sociali” per cui non era mai stato versato un contributo, alle pensioni “baby”, alle assunzioni di eserciti di impiegati di una Pubblica Amministrazione che non aveva bisogno di loro e che rimaneva letargica anche diventando pletorica. A tutta una serie di follie che da sola occuperebbe un libro. È in questo periodo che si è creato il nostro immane debito pubblico, quello che ci succhia l’anima e per giunta minaccia di ucciderci economicamente.
Ma questa deve essere una mera esemplificazione, non una lista esauriente. Per citare un risvolto sociale di questa mentalità irrealistica, basterà citare il buonismo. Per qualunque persona ragionevole, un buon docente è quello i cui alunni imparano molto. Per l’Italia invece un buon professore è quello che promuove anche i ragazzi che non lo meritano. Nelle elementari si è del resto giunti al sostanziale divieto di bocciare. E così prima sono rimasti ignoranti i bambini, poi gli adolescenti, ed infine, completando il percorso, sono ignoranti anche i professionisti, fra i quali quei giornalisti che, dalla televisione, parlano a milioni di spettatori. Infine, chiudendo il cerchio, sono divenuti ignoranti gli stessi professori. Sono ormai rare le persone che, parlando, non commettono inescusabili goffaggini. I testi internazionali Invalsi confermano poi la decadenza della nostra scuola, ma i nostri professori reagiscono virtuosamente dicendo che la cultura non si misura con i test. Anche se i tecnici dell’Invalsi potrebbero rispondere che infatti in Italia essi non misurano la cultura, ma l’ignoranza.
Nel mondo del lavoro si è arrivati da un lato al “salario variabile indipendente” dalla situazione economica dell’impresa, di cui parlava Luciano Lama, leader della CGIL, dall’altro agli scioperi (vincenti) proclamati dai sindacati in difesa di lavoratori licenziati perché rubavano. E ad ogni forma di stortura delle regole che reggono la produzione di ricchezza. Ancora recentemente dei magistrati hanno assolto dei lavoratori della Fiat che l’impresa aveva licenziato perché colpevoli di boicottaggio. Anche il perdonismo è stato una delle nostre malattie. Il Paese che già tendeva alla corruzione di suo, è sprofondato a poco a poco nella melma e infine, dal 2008, si è del tutto fermato, quando non è andato indietro.
E così arriviamo alla causa fondamentale dei nostri mali, che ha un nome vagamente psichiatrico: insufficiente senso della realtà. Ecco un esempio. L’Italia, come del resto l’Europa, si trova di fronte ad un problema insolubile: può ricevere, alloggiare e nutrire una folla infinita di rifugiati? Per gettare là una cifra, cento milioni di persone? Certo che no. E allora, se il numero di rifugiati che si possono accogliere non è infinito, se ne deve dedurre che è necessario stabilire quale numero si possa accogliere, e in che modo impedire che quel numero sia superato. La logica di queste affermazioni non permette obiezioni valide, e invece che cosa si risponde? Che non si può non accogliere il prossimo che chiede soccorso. Non si può non salvare chi è in pericolo in mare, anche se in mare si è messo apposta per essere in pericolo. Poi i giornali riferiscono che, malgrado ogni nostro sforzo, parecchi fra quelli che hanno tentato quell’avventura sono annegati e noi non abbiamo abbastanza senso di responsabilità per chiederci se quelle morti non le abbiamo sulla coscienza. Se avessimo riportato in Libia o nelle acque territoriali libiche i natanti, lasciando poi che se la cavassero da loro, il flusso si sarebbe arrestato e nessun migrante sarebbe più annegato. Per tacitare la nostra coscienza avremmo potuto esaminare in Libia le domande di asilo politico e portare poi in Italia, in aereo, coloro che si fossero qualificati per il beneficio. Ricordando che la miseria non è una ragione sufficiente. Diversamente l’Europa di migranti dovrebbe accoglierne almeno un miliardo.
Ma tutto questo è soltanto logico e dunque non conta, in Italia. Bisogna continuare con questa caccia al falso naufrago, ingrassando le casse dei contrabbandieri di carne umana e spostando sul pallottoliere le cifre sugli annegati, in costante aumento.
Tutto ciò corrisponde al senso del reale? Come hanno fatto, come fanno i Paesi che limitano l’afflusso di immigrati? Perché non facciamo come loro? Va bene, l’Italia ha migliaia di chilometri di coste; ma li hanno anche la Spagna, e l’Australia, ed altri Paesi ancora. Non è che per caso di diverso hanno non le coste, ma i governi?
Purtroppo, neanche l’Europa ha grandi esempi positivi da darci. Basti pensare a come ha parlato dei migranti, quando il problema non era suo, e come poi ha reagito, quando li ha visti arrivare. Come possiamo giudicare dei Paesi che realizzano l’unione monetaria prima dell’unione politica? Chi mette il carro dinanzi ai buoi crede veramente che andrà lontano? Oggi molti Paesi, e in primis l’Italia, dànno all’Europa la colpa di tutto ciò che non va, sia che quella colpa essa l’abbia, sia che non l’abbia. Perché quell’organismo è nato male. Certo, dei risultati è colpevole chi ha la responsabilità del comando, ma, appunto, bisogna prima dargli quel comando. Mentre l’Europa è arrivata a questo ibrido insoddisfacente per tutti: da un lato ci opprime, dall’altro è impotente. Gli Stati avrebbero dovuto avere il coraggio della rinuncia alla loro sovranità per arrivare all’unione politica, oppure rinunciarci per sempre e chiaramente, limitandosi ad una utilissima Zollverein: un’unione doganale con la libera circolazione delle merci, dei capitali e dei servizi. Che non sarebbe stata male. In certi campi le mezze misure cumulano purtroppo i difetti delle due soluzioni che non si sono adottate.
L’Europa – che manca anch’essa del senso del reale – è infatti un gigante economico e un nano politico. Non ha mai il coraggio di affrontare i problemi alla radice, e passa il tempo a mettere affannosamente toppe qua e là. Senza capire che è giunto il tempo di una radicale riforma. Anche se la prospettiva fa spavento, come tante volte osservato, è meglio pilotare una crisi che subirla. È meglio entrare in sala operatoria con i propri piedi che aspettare un aggravamento che renderebbe ancor più problematica l’opera dei chirurghi. Ma tutte queste sono manifestazioni di una mentalità “ragionieristica”, come si diceva nell’Italia dei grandi ideali. Un inane buonsenso che in questo continente non ha più cittadinanza. E che puzza di zolfo.
Gianni Pardo, pardonuovo.myblog.it
novembre 2016-2.446
(1) Andrea Bonanni, La Repubblica, 25 settembre 2016 letto su http://intranet.selpress.com/Treccani/it/IT/Review/ShowArticle?currentId=58496

IL MALE ALLA RADICE DEI MALIultima modifica: 2016-11-27T08:44:33+01:00da gianni.pardo

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