ARTICOLI ARRETRATI

PERCHÉ I MIGLIORI SONO I PEGGIORI

Tempo fa Luca Ricolfi scrisse un articolo che fece molto rumore. Il titolo – se ricordo bene – era: “Perché siamo antipatici” e il noto professore si riferiva in generale ai politici e agli uomini di sinistra. Di quella ammissione si parlò parecchio. E non perché nessuno prima si fosse accorto di quanto quella gente fosse antipatica, ché anzi la parte avversa, quando ne aveva il coraggio, esprimeva tutta la propria esasperazione, ma perché finalmente la critica veniva dalle stesse file degli “antropologicamente migliori”.
A mente fredda si può però osservare che Ricolfi forse aveva torto nella sua tesi non perché gli uomini di sinistra fossero simpatici, ma perché non erano i soli ad essere antipatici, e per la stessa ragione. L’ambito era ed è molto più vasto. Infatti antipatici sono anche gli ispirati, i moralisti, gli apocalittici, i prelati, i profeti, e in generale tutti coloro che sono convinti di essere i portatori di una verità superiore; cioè di una teoria, di un sistema, di un messaggio salvifico. E ciò fornisce una significativa indicazione sull’origine del loro atteggiamento.
Se discutiamo con qualcuno, e siamo di parere diverso, quand’anche reputassimo il nostro interlocutore un perfetto idiota, nella nostra mente di uomini comuni rimarrebbe chiaro il concetto che la pensiamo diversamente. E la cosa riguarda soltanto noi. Possiamo pensare che l’opinione dell’altro – ovviamente errata – offenda la nostra intelligenza, la nostra cultura, la nostra esperienza, ma nulla che vada oltre noi. Viceversa, l’ “uomo migliore”, colui che si sente portatore di un valore superiore, non contrappone all’interlocutore la propria verità, ma la Verità in sé. E proprio per questo non riesce a nascondere il proprio dispetto per tanta cecità, il proprio disprezzo, e in conclusione la propria intolleranza per errori tanto gravi quando dannosi.
L’uomo migliore, discutendo, non difende sé stesso, difende l’umanità e perfino il suo interlocutore. E dunque s’indigna, vedendo che l’altro osa andare contro il proprio interesse. Al comunista convinto il lavoratore dipendente che, invece di aderire alla rivoluzione che vorrebbe salvarlo dallo sfruttamento, difende il sistema capitalistico, appare come un insopportabile incrocio tra un imbecille e un suicida. Come potrebbe trattarlo con sincero rispetto? E poco importa il fatto che, dovunque quella rivoluzione sia stata tentata, il lavoratore sia stato poi ancor più miserabile: la teoria è troppo giusta per essere messa in dubbio da qualche banale fatto storico.
Se, ai tempi dell’Inquisizione, gli uomini di Chiesa erano intolleranti in materia di religione, non era perché fossero personalmente intolleranti, ma perché agivano in nome di un Dio che non era tollerante. O in nome degli altri fedeli che potevano essere indotti, dagli eretici, a giocarsi il Regno dei Cieli. Infatti dicevano che la loro attività consisteva nell’ “Eliminare la mela marcia, affinché non infetti le altre mele del cesto”. Agli occhi dei contemporanei l’Inquisizione rimane il fenomeno della massima intolleranza concepibile, perché contro la libertà di pensiero, ma gli inquisitori si sarebbero sinceramente stupiti di questo giudizio. Come rivendicare il diritto all’errore, e il diritto di rischiare l’eterna dannazione?
Il comunismo, il moralismo, il denaro, l’ecologia, il buonismo, e tutte le idee abbracciate con passione divengono una sorta di religione. E ogni sorta di religione, da questo punto di vista, è contraria al rispetto del prossimo e ai principi democratici.
È perfino divertente vedere come anche coloro che non hanno studiato, e non brillano certo per acutezza di pensiero, si rendano conto che l’appoggiarsi ad un principio superiore renda apparentemente più forti. Nelle discussioni a proposito di denaro, quando alla fine ci si impunta, c’è spesso il balordo che dice: “Sa, non lo faccio per il denaro, ma è una questione di principio”. Ed è divertente vedere la sua faccia quando gli si risponde: “Va bene, io do ragione a lei sul principio e lei dà ragione a me sul denaro”.
Questa disonestà di fondo dei “migliori” fu diagnosticata in modo tanto brillante quanto brutale da Ernest Renan – uomo che il mondo dei credenti lo aveva conosciuto da vicino – quando affermò: “Ho conosciuto parecchi furfanti che non erano moralisti, ma non ho conosciuto dei moralisti che non fossero dei furfanti”. E infatti, ciò che apparenta così facilmente il moralista al furfante è che quest’ultimo, quando fa il proprio interesse, lo spaccia spesso per l’interesse della controparte, di Dio, della Morale, dell’Umanità. E il fatto che a volte sia addirittura in buona fede è soltanto un’aggravante.
Gianni Pardo, pardonuovo.myblog.it
17 agosto 2017

L’AFASIA

L’afasia è una malattia. O forse il sintomo di una malattia. Comunque si tratta dell’impossibilità di parlare. E tuttavia la natura umana è così varia, che si può anche essere indotti a ricercare una malattia. Ma per spiegare un tale fenomeno bisogna andare indietro nel tempo e vedere come ci si è arrivati.
Come tutti, sono partito all’attacco della vita con una grande voglia di amore e con una grande curiosità. Quanto all’amore, per decenni mi è andata così risolutamente male, che alla fine l’ho escluso dalla mia vita. La più serena relazione affettiva l’ho avuta con una gatta, quella gatta che la mia prima moglie ha portato via con sé per sempre, quando ci siamo separati. Per la curiosità, desideravo soprattutto viaggiare e, parlando lingue straniere, mettermi in contatto con altri mondi. Dunque conoscere l’Europa e conoscere gli uomini. Ma ovviamente, dal momento che sono sempre stato povero, era difficile che realizzassi un simile progetto. Viaggiare e risiedere all’estero, anche soltanto per un mese o due, costa parecchio oggi, e sembrava addirittura proibitivo decenni fa. Comunque non potevo neppure sognare di chiederlo ai miei genitori. Così ho imparato qualche lingua da solo e a casa mia.
Ma il programma è proseguito. Per quanto riguarda la curiosità, ho presto capito che alcune cose sono ve-ramente da vedere – la cattedrale di Colonia, per esempio – per molte altre si può fare riferimento alle cose che si sono già viste. Per esempio, la maggior parte dei ponti, la maggior parte degli insignificanti edifici moderni e la maggior parte delle grandi città. Ovviamente queste sono tutte diverse, ma altrettanto ovviamente alla fine alle differenze non si fa caso. Si può passeggiare a Bangkok esattamente come a Berlino o, immagino, a Buenos Ayres.
Che cosa bisogna aver visto, allora? Per la grande arte – per il bello, cioè – è inutile allontanarsi dall’Europa. Al di fuori di essa non c’è molto. In Oriente si trova di frequente un grottesco troppo colorato, che sembra un’imitazione di sé stesso; un po’ dovunque si può trovare il carino, dal momento che tanta gente non si rende conto di quanto sia lontano dal bello; infine c’è il curioso, che tanta gente apprezza golosamente, e che è soltanto infantile.
Il tempo inoltre è andato risolutamente contro il turismo. Ci sono troppi divieti, troppa gente, troppe au-tomobili e niente parcheggi. La prima volta che ho visto la cattedrale di Chartres ho lasciato l’auto di fronte alla facciata, ho visitato la chiesa, e me ne sono andato quando sono stato sazio. Ammesso che uno si possa saziare di quel capolavoro. Col tempo invece il problema è divenuto sempre più difficile: una volta, tornato per pura nostalgia a Saint Malo, c’era la fila delle auto molto prima della cinta muraria. Inversione di marcia. E il fastidio non mi ha risparmiato nemmeno in posti di seconda categoria. Credo sia stato nell’insignificante Angoulême che, per fermarmi un po’ al centro, ho fatto non so quanti giri e alla fine me ne sono andato. Perfino nella piccola e cara Ratisbona, quando ci sono tornato per un pellegrinaggio nel passato, non ho trovato posto. Alla fine me ne sono andato, contentandomi dei miei ricordi. La poesia del secondo incontro era andata in frantumi.
Oggi c’è spazio soltanto per i viaggi organizzati. E questi viaggi stanno a quelli veri come uno snack snoccio-lato da una distributrice automatica sta ad un pranzo in una trattoria di qualità. Forse il tempo dei viaggi è finito. Si è perso nella folla di un’umanità sempre più numerosa.
Lo stesso m’è successo con i rapporti umani. Devo ammettere che per la stragrande maggioranza mi sono venuti in uggia. Le vicende dei singoli non m’interessano, a meno che non divengano opera d’arte o riguardino
la storia. Né mi verrebbe in mente di raccontare la mia vita ad altri, perché li annoierei quanto loro annoie-rebbero me, se mi raccontassero le loro. Questo è uno dei motivi per i quali riesco sempre meno a vedere film. Mi capita di assistere con pazienza per una buona parte della proiezione e lasciar perdere il resto. Anche a un quarto d’ora dalla fine.
A forza di spolpare la vita, sono arrivato all’osso. Per quanto riguarda l’amore, con la mia seconda moglie ho avuto la massima fortuna e su questo non mi dilungo. Come vita privata, va bene. Quanto agli altri, che biso-gno ho di incontrarli? Ormai la buona notizia è che in tutta la giornata il telefono non ha mai squillato per me. E avviene spesso.
Purtroppo, questo nirvana corre sempre sull’orlo dell’insignificanza. Ogni tanto si affaccia la noia, anche se essa è accolta come una gentile compagna di vita. E perfino un lusso. È il segno che non c’è nessun problema e nessuna speranza.
Il puro esistere. L’osso della vita. E purtroppo la stessa sorte subisce la curiosità della storia. Gli uomini si fanno sempre le stesse illusioni, commettono sempre gli stessi errori e si mettono sempre negli stessi guai. Chi ha capito come stanno le cose non ha bisogno di insegnamenti; e chi mpm l’ha capito non lo capirà certo perché qualcuno glielo spiega. Ed ecco l’afasia. Un’afasia che si chiama buon senso al piano terra e saggezza ai piani alti.
Gianni Pardo, pardonuovo.myblog.it
3 marzo /16 agosto 2017

IL VERO PERICOLO NON È IL TERRORISMO

Il terrorismo fa molto parlare di sé. Troppo, perfino. Infatti la sua efficacia deriva esclusivamente dall’orrore che provocano i suoi crimini. Se la notizia fosse taciuta o ridotta all’essenziale, e comunque si evitasse di parlarne instancabilmente per ore, l’effetto dell’attentato sarebbe trascurabile. Noi paghiamo alla libertà di parola il prezzo di offrire un megafono al terrorismo. Ma questa è una vecchia storia.
Più interessante è rispondere a una domanda: ammesso che il terrorismo, come vorrebbero i musulmani, rappresenti lo scontro tra moralità e immoralità, tra religione ed empietà, fra Occidente e Oriente, chi vincerà?
In materia di economia, di sviluppo tecnologico, di armamenti, e da ogni altro punto di vista, i dati di fatto dimostrano che i terroristi non vinceranno mai. Basti dire che le armi che usano, dalle automobili ai treni, dagli aeroplani agli esplosivi, sono prodotti occidentali. Né può avere un peso la morte di un centinaio di persone in un continente che viaggia al di sopra dei quattrocento milioni di abitanti. Il terrorismo, prima ancora che orrendo, è assurdo. È un’impresa che non conduce da nessuna parte, e cui alcuni giovani sacrificano la loro vita soltanto perché ignoranti, stupidi, e spesso strumetalizzati da chi se ne sta al sicuro.
Il vero pericolo, per ogni società, non deriva tanto da un attacco esterno e militare, quanto da ciò che può farla divenire altro da sé. Se Cesare avesse sol-tanto conquistato la Gallia con le armi, la Gallia alla prima occasione sarebbe ridivenuta la Gallia. Invece si romanizzò subito. I Galli non esistettero più, e oggi i francesi sarebbero stupiti di apprendere di avere il nome di una tribù germanica. Viceversa la Grecia, pur “islamizzata” dai Turchi sin dal 1453 (salvo errori) si è sentita non musulmana, non turca e non araba fino all’indipendenza. Secoli di dominazione militare e amministrativa non ne hanno cambiato l’anima. Ancora oggi, passando la frontiera dalla Turchia alla Grecia, si ha la sensazione che l’aria stessa sia diversa.
La vera conquista è quella culturale. Malgrado un’occupazione di mezzo secolo, la russificazione dell’Europa Orientale non è riuscita all’Unione Sovietica. Neppure in quell’Ucraina che, inglobata con la Rivoluzione, è già pressoché russofona. Viceversa, con le loro cose peggiori, gli Stati Uniti hanno esercitato un tale fascino sull’Italia, che l’intera nazione scimmiotta e sfregia un inglese che non riesce ad imparare. I contadini di Caltanissetta chiamano il figlio Kevin e la figlia Jennifer.
La conquista culturale dell’Occidente, da parte del mondo musulmano, è del tutto impossibile. L’islamismo, con annesso terrorismo, è una causa persa. Se un pericolo rappresenta, è d’altro genere.
Una volta conquistata la Gallia, i romani non si sono trasferiti in massa in Provenza. E men che meno al nord. I coloni e gli amministratori sono stati una sparuta minoranza, ma hanno avuto un effetto di lievito. Il loro contatto romanizzò gli indigeni, tanto che presto si parlò di gallo-romani. Dunque il conquistatore può modificare il conquistato. Ma può avvenire anche l’inverso: secondo il celebre detto, Graecia capta ferum victorem coepit, la Grecia conquistata conquistò il selvaggio vincitore. Roma si grecizzò a tal punto che, morendo, Cesare non disse né “Tu quoque, Brute, fili mi”, né “Et tu, Brute, fili mi”, come riferito, perché quelle parole le disse in greco.
Il dramma si ha quando il nuovo arrivato non assimila a sé il gruppo indigeno o non si assimila ad esso. In questo caso rimane un corpo estraneo, un po’ come quegli strumenti che ogni tanto i chirurghi dimenticano nel corpo dell’operato. Avendo bisogno di manodopera, i nascenti Stati Uniti commisero l’errore di importare schiavi neri, e questi, anche liberati ed anche economicamente assimilati, sono rimasti “diversi” a causa del colore della loro pelle. In Francia è avvenuta la stessa cosa, con i musulmani di seconda, terza o quarta generazione. Perché anche dopo un secolo i musulmani sono sentiti diversi dagli europei e si sentono diversi da loro.
La conclusione è semplice: il terrorismo non cambierà nulla, per la civiltà occidentale. Viceversa costituisce un pericolo per la pace sociale l’importazione di un gruppo non assimilabile. Dunque dovremmo cercare di non commettere l’errore che hanno commesso due grandi civiltà imperiali, la Gran Bretagna e la Francia. I cittadini inermi che perdono la vita negli attentati non sono vittime del terrorismo, sono vittime del buonismo.
Gianni Pardo, pardonuovo.myblog.it
19 agosto 2017

LA POLITICA DEL PORTAFOGLI

Nelle autocrazie i cittadini non possono influire sul modo di governare il Paese, e dunque badano esclusivamente a cavarsela nelle condizioni date. Nelle democrazie i cittadini possono influire sulla condotta dello Stato e dunque c’è una maggiore partecipazione alla vita politica. Secondo la Costituzione, in questo regime il sovrano è il popolo stesso, ma nella realtà chi comanda è il Parlamento. O, più precisamente, gli ottimati che, dall’interno o dall’esterno di quelle Camere, determinano l’azione del Parlamento.
In democrazia, il momento in cui si decide chi governerà, è il momento in cui il popolo elegge i suoi rappresentanti. Purtroppo, il popolo giudica i candidati sulla base di ciò che dicono. Ecco perché è tanto importante saper parlare. Non è un caso che nella Roma antica le materie di studio in fondo fossero soltanto due: diritto e retorica. Il diritto perché, avendo successo, si era poi chiamati ad amministrare la Cosa Pubblica; l’arte oratoria perché serviva a farsi eleggere, ad influenzare le decisioni del Senato, ed a percorrere il cursus honorum, magari fino al consolato. Né le cose andavano diversamente nel Paese che la democrazia l’ha inventata: basta leggere “La Guerra del Peloponneso” di Tucidide.
In democrazia bisogna essere capaci di esporre belle teorie, anche se poco applicabili. Bisogna fare delle promesse, anche quelle che si sa non potranno essere mantenute. Bisogna dire al popolo ciò che vuole sentirsi dire, e poco importa che in fondo si tratti di echeggiare un autoinganno. E tutto ciò corrisponde a dire che la democrazia naviga in un mare di bugie. È anche per questo che, pur reputandola il miglior sistema di governo, nessuno può negare i suoi molti e gravi difetti. Chi vuole avere successo è costretto ad essere bugiardo e ipocrita, avendo a che fare con un popolo – per esempio quello italiano – molto mediocremente perbene, e che tuttavia vorrebbe amministratori di specchiata onestà e dediti soltanto al bene comune. Amministratori che dunque provengono dalla Luna, non dal suo seno. Poi, quando si accorge che sono semplicemente umani, li disprezza, e dimentica che non li avrebbe eletti se avessero detto la verità.
Purtroppo, non è l’unico inconveniente. La politica ha lo scopo di offrire al popolo i massimi benefici, e ciò fa nascere le teorie sul modo di produrli. Così abbiamo la ricetta liberale, quella marxista, quella keynesiana e via dicendo. I politici – anche i più mediocri – maneggiano “idee” dalla mattina alla sera. Ma, anche in questo caso, la Stella Polare rimane l’approvazione della massa. E infatti in molti campi si adottano i sogni degli ingenui.
Il buonismo ad esempio è quell’atteggiamento corrente che non fa di conto, quando lo scopo è meritevole. È uno scandalo che dei bambini muoiano di fame, nutriamoli. Ci si mette in moto, e soltanto dopo ci si accorge che non si sa come fare, e che quei piccoli, oltre ad essere sparpagliati, magari sono molto più numerosi dell’intera popolazione italiana. Che importa, il buonista guarda all’ideale di una umanità fraterna, generosa, altruista. Un’umanità che non esiste. In questo campo il meno colpevole è certamente il Papa, perché è il portatore di un messaggio trascendente. Dio, se vuole, può realizzare in un fiat le dodici fatiche d’Ercole. Il Pontefice è soltanto chiamato ad annunciare l’eu-angelion, la buona novella, il Vangelo.
Purtroppo lo stesso atteggiamento si ritrova nei politici., che non hanno nessuna Provvidenza cui rinviare. Magari trascurando i più poveri, lisciano il pelo dei cittadini elettori che non se la passano troppo male: perché – si sa – il buonismo è tanto più facile quanto meglio si sta economicamente. Come diceva Ennio Flaiano: “Io non sono comunista, non me lo posso permettere”.
Così però finisce che la politica si dà la zappa sui piedi. A forza di frequentare benestanti, intellettuali e teorici, i politici, perdono il contatto col popolo, fino a colpirlo nei suoi interessi economici. E si accorgono troppo tardi di avere commesso un errore irreparabile. Il popolo prima se le beve tutte, ma poi reagisce con rabbia. E qualunque politica che lo colpisca personalmente è rigettata con passione. Non c’è buonismo che tenga.
Il problema dei migranti è un altro eccellente punto di osservazione. Chi vive nei quartieri alti, di quei poveracci sente parlare in televisione, mentre chi vive nei quartieri poveri si trova a condividere con loro le strade e a volte le baracche. I benestanti sono sensibili agli ideali della Costituzione, i poveri soffrono della convivenza con i nuovi disperati. Finché i problemi dei cittadini non divengono così grandi che il popolo minaccia la rivoluzione e i partiti si accorgono di avere dato vita all’antipolitica. Quella voglia di anarchia che è l’anticamera della tirannide.
L’ignoranza, lo scrupolo antirazzista e il buonismo irenico spingono troppi parlamentari a sottovalutare i problemi. È vero, bisogna incantare i cittadini con le parole, ma bisogna anche non dimenticare che il portafogli è molto più vicino al cuore di quanto non lo siano le orecchie.
Gianni Pardo, pardonuovo.myblog.it
21 agosto 2017

I GRANDI DANNI DEL FASCISMO

Un fenomeno sociale può rivelarsi più dannoso da morto che da vivo. È la storia del fascismo. Questo movimento, accanto a qualche pregio, ebbe moltissimi difetti. Instaurò, riguardo a Benito Mussolini, un culto della personalità che lo rese di fatto il dittatore d’Italia. Il governo fu forte ed ebbe mano libera in tutte le direzioni. Non vi furono altri partiti oltre il Partito Nazionale Fascista, e non fu tollerato il dissenso. Ovviamente fu abolita la libertà di parola e di stampa e i sindacati – o ciò che ne rimase – furono servi del regime. Mussolini parlò di un ritrovato valore guerriero degli italiani, del tutto inverosimile, e glorificò il nazionalismo fino ad esiti francamente ridicoli. Infine, confermando la pretesa furbizia italiana, commise l’errore esiziale di entrare in guerra. Ma se, nel 1915, dopo avere aspettato un anno, l’Italia scelse il cavallo giusto, nel 1940, dopo avere aspettato un anno, Mussolini invece scelse Hitler, il cavallo sbagliato. E quanto sbagliato.
Prima il Paese era vissuto in una realtà immaginaria fatta di sogni e di orpelli. Poi fu svegliato dalla fame, dalle bombe, e dalle immani distruzioni di una guerra persa ignominiosamente. E tuttavia il disastro non ci fece rinnegare la nostra letale furbizia. Sperando ancora una volta di sedere gratis al tavolo dei vincitori, e cercando assurdamente di farci perdonare una guerra velleitaria e d’aggressione, nel 1943 la guerra la dichiarammo alla Germania già sconfitta. Volevamo far parte degli Alleati e a questa soltanto noi assurdità facemmo finta di credere. Anzi, facciamo ancora finta, ogni 25 aprile.
Nel 1944, fenomeno unico nella storia, sparirono senza lasciare traccia quaranta milioni di fascisti italiani. L’unica traccia che lasciarono, in negativo, fu la reazione anafilattica in base alla quale tutto ciò che aveva a che fare col fascismo era da rigettare con orrore. La damnatio memoriae non ammetteva attenuazioni, e non si rinunciava agli errori di giudizio nemmeno quando l’errore era dimostrato tale da inconfutabili storici. Quasi che l’anoressia fosse la cura per l’obesità.
Della vita dei nostri lontani antenati non siamo molto informati. A volte pos-siamo soltanto distinguere quelli che inumavano i loro morti da quelli che li cremavano. Il punto comune è comunque la necessità di impedire ai cadaveri, nota fonte di contaminazione, di far male ai vivi. Lo prova la storia dell’asepsi, nata quando Semmelweiss scoprì che i medici usavano gli stessi ferri per le autopsie e per aiutare le donne a partorire, facendole così morire di setticemia.
Purtroppo, sul reale pericolo rappresentato da certe cose, si innesta la superstizione. Chi, volendo locare una casa, dicesse agli occasionali visitatori: “Sa, in questa stanza è morto mio nonno”, li scoraggerebbe. “Dormire nella stanza in cui è morto qualcuno? Ma scherziamo?” Mentre in realtà ciò è avvenuto in quasi tutte le case e comunque la cosa non ha importanza. La scienza dice che i morti sono morti. Ma non è ciò che dice la gente. “Avrete ragione, ma intanto tocco ferro”.
La stessa cosa è avvenuta col fascismo. Il suo cadavere è stato sotterrato sotto uno strato di terra troppo sottile, e noi da settant’anni continuiamo a sentirne la puzza. Infatti non viviamo in un regime democratico, ma in un regime antifascista. Se quel regime l’avessimo dimenticato, magari vent’anni dopo la sua fine (1964!) avremmo modificato una Costituzione che rende il nostro governo debole e incapace di governare. Non avremmo più confuso l’amor di Patria (espressione vagamente indecente) col nazionalsocialismo. Non avremmo confuso l’ordine pubblico con l’oppressione poliziesca. Non avremmo considerato una forma di razzismo la protezione della nostra identità. E invece siamo rimasti manichei. Essendoci raccontata la leggenda nera che il fascismo era stato il male assoluto, abbiamo creduto di avere trovato un’infallibile Stella Polare nell’antifascismo. Se il fascismo non aveva tollerato gli scioperi, l’antifascismo avrebbe dovuto consentire ai sindacati di sabotare l’economia nazionale. Se il fascismo faceva la faccia feroce, noi non dovevamo nemmeno avere un esercito serio. Se il fascismo era anticomunista, ora non si sarebbe permesso che si fosse anticomunisti. E se qualcuno osava proclamarsi anticomunista, gliela si faceva pagare. In tutte le direzioni abbiamo fatto dell’antifascismo la religione nazionale, senza renderci conto di conferirgli così un’importanza storica e ideologica che non ha mai meritato.
Ci siamo così tenuti una costituzione che postula governi deboli e incapaci di governare. E dopo che Renzi ha provato ad esagerare nella direzione opposta, instaurando una sorta di dittatura dell’uomo forte del partito più forte, ora siamo tornati alla proporzionale pura e alla nostra beata ingovernabilità.
Gianni Pardo, pardonuovo.myblog.it
22 agosto 2017

RICOSTRUIREMO TUTTO

Agosto è un ottimo mese per fare i bagni, ma non per i giornali. Il mondo è chiuso per ferie e le notizie scarseggiano. Così, se c’è un attentato o un terremoto, i giornalisti ringraziano il Buon Dio e spendono milioni di parole per non dire nulla. I commentatori, con aria afflitta, ci dicono che i terroristi sono cattivi, che i terremoti sono tremendi, che le vittime sono innocenti, e che sarebbe bello se tutto ciò non si verificasse mai più. Poi mettono in un cassetto gli articoli, e sono pronti a tirarli fuori la volta seguente, ché tanto la notizia sarà la stessa e andranno benissimo. Basterà cambiare i nomi delle località.
E tuttavia i politici riescono a far peggio dei giornalisti. A chi ha perso la casa o, cosa ancor più triste, una persona cara, è normale esprimere il proprio rincrescimento. È anche opera meritoria, se se ne ha la possibilità, offrire un aiuto concreto, anche se temporaneo: un alloggio, del cibo, dei medicinali. Ma promettere la ricostruzione di tutto ciò che è andato distrutto è imperdonabile. Semplicemente perché è impossibile.
E tuttavia, ogni volta che c’è un terremoto, si sentono questi assurdi discorsi. Chi ha esperienza non riesce a reprimere un ghigno di sarcasmo. Perché sa già come finirà. Basti pensare al terremoto di Amatrice e dintorni, appena un anno fa. Ai sopravvissuti fu subito promessa la ricostruzione di tutto entro qualche mese, “dov’era e com’era”, e ad un anno di distanza – come previsto dai pessimisti – non sono state nemmeno rimosse le macerie.
L’Italia è vicina alla linea di confine di due grandi placche terrestri, e dunque i terremoti sono frequenti e letali. Letali – soprattutto – perché molte case sono vecchie, costruite quando gli italiani non avevano molto da spendere e non c’era cultura antisismica. O i poveri non se la potevano permettere. Poi lo Stato, con la sua caratteristica inefficienza, ha perso la capacità di sorvegliare l’abusivismo edilizio, e molte delle nuove costruzioni sono divenute delle trappole. I verdi e gli esteti si indignano per l’oltraggio al paesaggio o alla natura, ma la cosa peggiore è che le case sono spesso improvvisazioni di artigiani dell’edilizia. Così, se c’è un terremoto, è inevitabile che ci siano decine di morti. Se non centinaia. E ciò mentre in Giappone, dove i terremoti sono molto più violenti che da noi, non muore nessuno, perché gli edifici sono progettati per resistervi.
Dunque d’accordo, esprimiamo la nostra solidarietà e la nostra comprensione ai malcapitati, dal momento che non possiamo fare di più: ma perché promettere una ricostruzione che non ci si può assolutamente permettere? Se c’è un sisma di bassa entità, in una zona poco abitata, si possono anche costruire alcune casette non dissimili da baracche. Ma per il resto, se il sisma è forte e colpisce una grande città, nessun Paese si potrebbe mai permettere la spesa della ricostruzione. Il terremoto del 1908 provocò tali conseguenze, a Messina e sulla costa calabra, che la parola ricostruzione non avrebbe avuto senso. Soltanto la posizione strategica dell’agglomerato urbano ha fatto sì che col tempo la città risorgesse, dov’era prima, ma tutt’altro che “com’era prima”. Anche perché costruirla com’era prima sarebbe stato criminale.
I terremoti sono una cosa tremenda, ma non c’è ragione di renderli ancor più insopportabili con promesse che producono irrisione e sarcasmo nei più avvertiti, e false speranze – che si tramutano poi in rabbia – nei più ingenui. Questo è un modo gratuito di procurarsi il rancore dei cittadini. Perché non limitarsi a concedere sgravi fiscali, a chi volesse ricostruire la propria casa? Questo lo Stato potrebbe farlo. Meglio promettere poco e mantenere la promessa, che promettere molto e non far nulla. Senza dire che, a voler far di più, si rischia di impegolarsi in qualche spesa enorme con possibili ricadute in materia di corruzione e di scandali.
Per le case vecchie c’è ben poco da fare. Per quelle in costruzione, tutti dovrebbero essere avvertiti che gli edifici antisismici costano di più di quelli normali e che soltanto in quel momento possono decidere se accettare o no il rischio di morire sotto le macerie. Ogni altro discorso è una perdita di tempo.
Gianni Pardo, pardonuovo.myblog.it
24 agosto 2017

LA COPERTA CORTA DELLA STORIA

Quando la coperta è troppo corta, la discussione non ha mai fine. L’esigenza di giustizia postula la prevedibilità e questa, a sua volta, la certezza del diritto. Ma un diritto certo è anche un diritto rigido, che in qualche caso mal si adatta al problema concreto, e allora si tende a concedere un maggiore potere a chi amministra la giustizia. Purtroppo questo maggiore potere si può tradurre in arbitrio, ed allora si torna a porre l’accento sulla certezza del diritto. La coperta è troppo corta ogni volta che le esigenze sono ambedue tanto giustificate quanto opposte.
Altro esempio assolutamente classico riguarda, nella democrazia, il bilanciamento fra rappresentatività e governabilità. Con una legge elettorale proporzionale, probabilmente il governo sarà debole e fragile. La governabilità ne risentirà pesantemente. Se invece la legge elettorale conferisce un grande potere ad un solo partito, la governabilità sarà assicurata, ma la maggioranza dei cittadini sentirà il governo come estraneo, se non come nemico. Ed è questa la ragione per la quale “una legge elettorale perfetta non esiste”.
Tuttavia si osserva che, in realtà, i vari Paesi non sono amministrati bene o male secondo le loro istituzioni, ma, per così dire, secondo il loro temperamento. Se un esercito straniero imponesse a molti Paesi dell’Africa o dell’Asia istituzioni perfettamente democratiche, si potrebbe star certi che dopo qualche tempo quei Paesi sarebbero tornati a qualche forma di autocrazia. Non si afferma ciò per una sorta di razzismo, lo dice l’esperienza. Viceversa, la maggior parte dei Paesi europei hanno tendenza a non amare l’oppressione poliziesca, il comando di un solo e l’insufficiente rispetto del singolo. Infatti poco importa se siano monarchie o repubbliche, se abbiano leggi elettorali tendenzialmente proporzionali o maggioritarie, il risultato è una sostanziale democrazia. Ed anche se vi è una parentesi di dittatura, come in Italia e in Germania nel XX Secolo, da questi regimi le nazioni ritornano alla democrazia formale e sostanziale.
Tutto ciò fa pensare alla teoria che personalmente ho imparato da George Friedman (l fondatore e direttore della rivista americana di geopolitica Stratfor) in base alla quale ciò che determina la politica dei Paesi non sono i vari governi o i vari uomini, ma la sua condizione geografica e conseguentemente economica e militare. La Russia, essendo vastissima come territorio e prevalentemente spopolata, non potrà fare a meno di un possente governo centrale, sostenuto da un forte apparato poliziesco. Cosa che è l’assoluto opposto della Svizzera, aggiungerei. I Paesi dell’Europa centrale ed orientale, non avendo frontiere naturali, vivono nell’ansia della propria sicurezza, che non risparmia neppure il grande orso russo. Viceversa gli Stati Uniti, dietro il baluardo naturale di due oceani, quest’ansia non sanno nemmeno che cosa sia. Tanto che si potrebbe arrivare a porsi il problema della funzione della politica. Se la geopolitica è così determinante, se quella che potremmo chiamare etnopolitica (la politica determinata dalla natura di un popolo) pesa tanto, come credere che con la politica si possa cambiare qualcosa?
In realtà, non bisogna esagerare. La storia offre esempi sia di grande stabilità – la Gran Bretagna che, perfino dopo Cromwell e il regicidio, torna alla monarchia – sia di grandi cambiamenti: la Francia che da monarchia assoluta diviene repubblica e modello delle repubbliche. Mostra Paesi immobili nel tempo e dominati dalla religione, come parecchie nazioni del vicino oriente, e poi il grandioso esperimento di Atatürk. Al punto che soltanto il futuro dirà se la Turchia è tornata ad essere un sultanato o vive una crisi da cui uscirà tornando al kemalismo.
Insomma val la pena di fare politica. Sia perché non si può fare diversamente, sia perché, come ha detto Guglielmo il Conquistatore, non è necessario sperare per intraprendere: ma non ci si possono fare illusioni. Credere – come fanno in tanti – che gli italiani possano essere resi tutti specchiatamente onesti dalla severità delle leggi è una pura sciocchezza. Basti vedere come è andata e come va con la truffa di chi timbra il cartellino e va ad occuparsi degli affari suoi invece di lavorare. La persistenza del fenomeno, malgrado le infinite denunce, indica che, alla base del fenomeno, c’è mancanza di dedizione da un lato, e la mancanza di controllo dall’altro. Del resto, nella Russia sovietica non vigeva il principio per cui “lo Stato fa finta di pagare i lavoratori che fanno finta di lavorare”?
Il problema italiano fondamentale, e il vero snodo del problema, è che il singolo lavoratore trova naturale marinare il lavoro – come i ragazzi la scuola – e non si vergogna dinanzi al collega. Il rischio è piuttosto che sembri un fesso il collega onesto, e tutto questo non si cambia con le leggi, dall’oggi al domani.
La conclusione è volterriana. Di fronte a tanta complessità, non rimane che “coltivare il nostro giardino”.
Gianni Pardo, pardonuovo.myblog.it
26 agosto 2017

SUSSIDI AI DISOCCUPATI

Quando si constata un grave disagio sociale come la miseria, la malattia, e soprattutto la disoccupazione, i giornali interpretano il sentimento dei lettori e si chiedono se il governo potrà fare qualcosa. In generale, la risposta prevista è una promessa di denaro. Ed è ciò che leggiamo in un articolo della Stampa(1) in cui si parla di assegni ai disoccupati e di incentivi per gli “under 32” (visto che abbiamo abbandonato l’italiano in favore del “footballese”). Purtroppo la regalia non vale molto, come risposta. E potrebbe anche essere controproducente.
Immaginiamo che la nazione sia un carro. Tutta la forza propulsiva di cui si dispone sono due cavalli, e se pure l’ideale sarebbe quello di portare un’enorme quantità di merce a grande velocità, in realtà il rendimento sarà massimo quando il carro non sarà troppo carico, e quando i cavalli saranno trattati bene. Essenziale è anche l’atteggiamento del carrettiere. Questi non potrà aumentare il rendimento massimo del trasporto – che è un dato obiettivo – e dunque il suo grande dovere consisterà nell’evitare che quel rendimento diminuisca ben al di sotto del massimo. Non si tratta di fare miracoli, si tratta di non fare errori.
Per quanto riguarda la disoccupazione, in Italia il carrettiere sbaglia troppo. Non sono i sussidi che possono contrastarla: sono le offerte di lavoro dei privati. E se queste offerte sono insufficienti, bisogna incentivarle. Soltanto in questo modo – tenendo conto della realtà – ci sarà una speranza di invertire la tendenza.
La prima cosa da ricordare è che nessun imprenditore assume qualcuno “per dargli un lavoro”. L’assume per guadagnare di più. Se manca quell’incentivo che per molti ha un suono immorale, “profitto”, le offerte di lavoro mancheranno. Quali che siano le promesse dei politici.
Lo Stato – lottando contro il sintomo, e non contro la malattia – può fornire un sussidio a coloro che non hanno un lavoro, ma sarà a spese dei lavoratori attivi e in generale dei contribuenti. Un secondo modo di aiutarli è chiamato, con terminologia divina, “creazione di posti di lavoro”: per esempio realizzando opere pubbliche. Ma questa iniziativa ha piuttosto lo scopo di distribuire salari che di procurare un ritorno economico allo Stato, e dunque ci riporta allo schema precedente: una spesa a carico dei contribuenti. Nei rari casi in cui l’opera pubblica è utile alla nazione, questa utilità si avrà nel lungo termine, mentre l’aumentata pressione fiscale deprimerà subito la produzione di ricchezza.
Altra cosa da non dimenticare: la cartamoneta è carta, mentre la ricchezza è costituita da beni e servizi. Dunque prima di pensare a distribuirla bisogna pensare a produrla, e l’esperienza dice che se se ne produce molta, finirà col ricadere un po’ su tutti: basti guardare che cosa si trova nella spazzatura dei Paesi ricchi e che cosa si trova nella spazzatura dei Paesi poveri; mentre se se ne produce poca, e si tassano pesantemente gli operatori, questi creeranno ancor meno ricchezza di prima. Perché sapranno che, producendone più del minimo, il di più gli verrà tolto. Il denaro con cui il governo paga i sussidi è ricchezza tolta a chi l’ha prodotta per essere data a chi non l’ha prodotta. E poco importa che chi la riceve non abbia potuto produrla: il fatto rimane. E se si esagera, sarà come togliere la biada ai cavalli e pretendere che il carro trasporti un carico maggiore. Lottare contro la disoccupazione con dei sussidi corrisponde ad aumentarla.
La realtà è implacabile. Chi assume dei lavoratori lo fa per amore del profitto. Basta sottrarglielo in tutto o in parte, e smetterà di assumere lavoratori. Questo ragionamento – tanto elementare quanto decrepito – non è ripetuto a sufficienza e infatti la gente non l’ha capito. Ogni volta che si annuncia un provvedimento in favore delle persone in difficoltà, lo Stato fa la figura del generoso, mentre di fatto non ha alcuna possibilità di essere generoso per l’ottima ragione che, non producendo ricchezza, non può regalare nulla di suo. La sua unica possibilità di avere denaro è prelevarlo dai cittadini, o per via diretta, col fisco, o per via indiretta, con l’inflazione. Non dimenticando che quest’ultima pesa soprattutto sui più deboli, cioè sui percettori di reddito fisso.
Da troppi decenni in Italia si cede all’illusione infantile che lo Stato disponga di un pozzo di San Patrizio con cui far felici tutti. È vero che per un’organizzazione elefantiaca, un milione di euro in più o in meno non fa differenza, ma se alla fine i milioni sono miliardi, ed anzi molti miliardi, l’economia tende a fermarsi e il Paese diviene il fanalino di coda dell’Europa.
Gianni Pardo
(1)http://www.lastampa.it/2017/08/21/italia/politica/assegni-ai-disoccupati-e-incentivi-agli-under-ecco-il-piano-per-il-lavoro-del-governo-gentiloni-mTyV10VxSOmhOIsop9dJQM/pagina.html
24 agosto 2017

IL POPOLO PIÙ SFORTUNATO DELLA TERRA

Questo articolo si presenta come un indovinello. Nel senso che di un certo popolo dirò parecchie cose, ma non dirò il suo nome. Né in quest’occasione né in seguito. Dunque è un indovinello senza soluzione. E se qualcuno chiedesse: “È questo, il popolo?”, sarebbe lui ad attribuirgli tutte le caratteristiche che enumererò, non io.
La prima sfortuna di un popolo è quella di non essere stato favorito dalla Natura. Il territorio degli Stati Uniti, per esempio, è immenso; è protetto da due invalicabili frontiere naturali, l’Oceano Atlantico e l’Oceano Pacifico; ed è ricco di tutto. Di risorse, di petrolio, di acqua, di vie navigabili, di minerali e di ogni ben di Dio. Il popolo di cui parlo invece non ha nessuna di queste fortune.
Un popolo può anche essere debole ed avere una storia sfortunata, ma cionondimeno costituire una nazione e avere un’innegabile identità. Si pensi alla nazione armena, che secoli di oppressione straniera non hanno mai fatto sparire, e non hanno mai disciolto in un altra. Per non parlare del popolo ebraico che è sopravvissuto a poco meno di duemila anni di lontananza dalla propria terra, e che tuttavia, pure disperso nel mondo, ha conservato la propria identità. E non sempre per sua fortuna.
La democrazia è un regime pieno di difetti ma l’umanità non ha inventato di meglio. Dunque bisogna levarsi il cappello dinanzi ad un Paese come la Svizzera, che è del tutto privo di risorse naturali, è schiacciato fra colossi, è senza sbocchi sul mare, è frammentato da montagne pressoché insormontabili, e tuttavia ha una delle più perfette e stabili democrazie del mondo. Mentre il Paese che non nomino non soltanto non è una democrazia, ma anche se gliela regalassero la perderebbe in breve tempo. Perché ad essa non è educato. Per così dire la democrazia non fa parte della sua civiltà.
Ci sono poi piccole nazioni che hanno una storia gloriosa sia dal punto di vista militare, sia dal punto di vista culturale, sia dal punto di vista economico. Il miglior esempio è quello dei Paesi Bassi. Questi non soltanto riuscirono a conquistare un immenso impero, talmente più grande della madrepatria da ispirare la battuta: “La coda che agita il cane”, ma contesero all’Inghilterra il dominio dei mari. Inoltre ebbero una grande importanza nello sviluppo culturale dell’Europa e ne costituirono sempre una notevole componente economica. I tedeschi chiamano l’Olanda “Der kleine Riese”, il piccolo gigante, mentre il Paese che non nomino non ha mai avuto una storia gloriosa, non ha mai avuto importanza culturale, ed è sempre stato poverissimo. Non ha nemmeno inventato l’orologio a cucù.
Ci sono regioni che i loro vicini desiderano conquistare e possedere, e pro-prio per questo hanno una storia tormentata. Si pensi alle Fiandre, così a lungo contese fra Est ed Ovest. O la Crimea, fra Ucraina e Russia. O ancora l’Alsazia, fra Francia e Germania. Ebbene, il popolo di cui sto parlando, originariamente sottomesso a due vicini, li ha visti tutti e due rinunciare volontariamente alla sovranità sul suo territorio. Pur di non avere a che fare con esso. Una sorta di record mondiale.
Ci sono Paesi che, sulla via del progresso, non sono stati fermati dalla povertà delle loro risorse naturali: perché hanno disposto di una risorsa rara ma preziosa: l’intelligenza accoppiata alla cultura. I nomi sono facili da fare. Il Giappone, innanzi tutto. Un arcipelago sovrappopolato, con una parte del proprio striminzito territorio pressoché inabitabile (Hokkaido), e che tuttavia, con la sua cultura, si è costruito un’economia fortissima e un grande peso nel mondo. Né molto diversamente si è comportata la Corea del Sud, per non parlare di Israele, che è ricco e prospero in un ambiente naturale in cui i suoi vicini sono ai limiti della sopravvivenza. Invece, il popolo di cui parlo è prevalentemente ignorante, e non rischia di uscire da questa condizione. Perché l’amore per la cultura – o il semplice riconoscimento che la cultura è condizione della prosperità – non fa parte della sua civiltà.
Infine ci sono Paesi che, soltanto a nominarli, fanno sognare vite tranquille in ambienti puliti, come la Svizzera o la Danimarca, ed altri che, pur non essendo fra i più prosperi del mondo, hanno una tradizione di dolcezza buddista: penso alla Tailandia, detta anche “il Paese del Sorriso”. Ebbene, il popolo di cui parlo è famoso per le atrocità commesse per molti decenni, tanto che l’idea di andare a visitare il suo territorio sembra assurda.
E non è tutto. Il popolo di cui parlo ha battuto il record mondiale della stupidità secondo la definizione dell’economista Carlo Cipolla: il cretino, ha scritto Cipolla, è colui che fa il male degli altri facendo contemporaneamente del male a sé stesso. Il popolo di cui parlo ha sprecato ogni occasione che ha avuto per migliorare la propria sorte, in nome di sogni irrealizzabili e di vendette assurde. E mentre l’Algeria, se pure a prezzo di una guerra, ha ottenuto la propria indipendenza, ed altrettanto hanno fatto le innumerevoli ex colonie della Corona britannica o della Repubblica francese, questo popolo non è indipendente ed è riuscito a trasformare l’aggettivo che lo designa in sinonimo di problema e di pericolo.
Non conosco un popolo più sfortunato, o forse più imperdonabile.
Gianni Pardo
28 agosto 2017

MODESTA PROPOSTA SULLA COREA DEL NORD

Il problema rappresentato dalla Corea del Nord è gravissimo ed è comprensibile che chiunque abbia a cuore la pace del mondo ci torni su con la mente. E non riesca a trattenersi dal cercare una soluzione che gli permetterebbe almeno di dire: “Io farei così”. Magari, in un accesso di autostima, potrebbe anche aggiungere: “Ma quegli sciocchi degli americani, dei cinesi e di tutti gli altri, perché non fanno come dico io?”
La realtà è più amara. “Quegli sciocchi” non sono sciocchi e si arrovellano sul problema molto più di noi. Per l’ottima ragione che sono chiamati a risolverlo, non a parlarne soltanto. Se non fanno niente, è perché fino ad ora nessuna delle soluzioni, fra quelle immaginate, li convince tanto da farli passare all’azione.
Questo punto deve essere estremamente chiaro. Chi in privato ragiona sui grandi problemi, non ha la responsabilità di risolverli. Inoltre, se gli statisti affrontassero la questione con la soluzione immaginata dal lettore di giornali, e ne conseguisse un disastro, lui potrebbe cavarsela con un semplice: “Sì, mi sono sbagliato”, mentre loro sarebbero condannati dall’opinione pubblica dei loro Paesi e in seguito dalla storia. Chi mai ha perdonato a Mussolini l’azzardo di scendere in guerra a fianco di Hitler?
Vale anche per casi meno gravi. Sicuramente, nell’ordinare l’invasione dell’Iraq, George W.Bush era convinto di fare cosa utile per il suo Paese. Ma quando è sembrato che così non sia stato, l’iniziativa è stata messa sul suo conto come una colpa imperdonabile. Il lettore di giornali accarezza il suo progetto, e poi dorme tranquillo, chi dovrebbe agire continua invece a chiedersi quale sfortunata e imprevista circostanza potrebbe trasformarsi in un’immensa tragedia.
Ecco perché, sul problema della Corea del Nord, non bisogna fare il passo più lungo della gamba. Non soltanto bisogna riconoscere che non è facile risolverlo, bisogna anche essere pronti a sentirsi dimostrare che si sono dette stupidaggini. E nel mio caso particolare, se qualcuno mi dimostra proprio questo, mi premurerò di ringraziarlo. Perché la sua dimostrazione mi lascerà più informato di quanto non sia attualmente.
Mancando di dati riservati e dovendo trattare l’argomento come un gioco di strategia militare (wargame), bisogna partire dai pochi punti fermi. La comunità internazionale condannerà in ogni caso il primo che oserà usare l’arma atomica. Inoltre, se Pyongyang osasse fare questa mossa, gli Stati Uniti – dal punto di vista atomico immensamente più potenti – sarebbero autorizzati a fare di quel Paese tabula rasa. Dunque Kim Jong-un, per quanto demente, non oserà brandire l’arma nucleare. Il problema va considerato “nucleare a parte”.
Nucleare a parte, tutto ciò che attualmente turba il mondo sono le parole e le provocazioni di un giovane dittatore. E, considerata la situazione di fatto, sarebbe concepibile reagire con un’alzata di spalle. Ma sarebbe un errore. In primo luogo ciò potrebbe incoraggiare quel giovanotto sovrappeso ad osare sempre di più, e in secondo luogo i Paesi minacciati e derisi rischierebbero di perdere la faccia. Chi tira la coda del leone dimostra che è sdentato.
E allora mi sono chiesto: “Non è che, per caso, il fatto che, in tutte le direzioni ci siano dei vicoli ciechi costituisca esso stesso la soluzione?” Se non si può usare l’atomica per primi, se non si può invadere il Paese (perché troppo costoso in tutti i sensi) se non si può essere sicuri che, ad una pesante rappresaglia (per esempio un devastante bombardamento sui presunti siti nucleari) quel pazzo non reagisca con l’atomica, e se dopo tutto siamo soltanto infastiditi e preoccupati dal comportamento di Kim Jong-un per ragioni di dignità, perché non rispondergli con la stessa moneta?
Perché non pubblicare fotografie di fotomontaggi con Pyonyang in rovine, accanto alle storiche foto di Berlino nel 1945? Perché non descrivere per filo e per per segno quanto più potenti siano le bombe americane rispetto a quelle di cui dispone Kim, magari spargendo milioni di volantini su Pyongyang? Perché non far passare sulla Corea del Nord missili enormi, magari partiti addirittura dagli Stati Uniti? Perché non farla sorvolare da stormi enormi da bombardieri capaci di distruggere con bombe convenzionali un’intera città, come è avvenuto a Dresda? Insomma, se Kim Jong-un mette a rumore il mondo con minacce insensate e atti che costituiscono casus belli, perché non rispondergli con parole insensate e atti che costituiscono casus belli?
Lo scopo sarebbe quello di sgonfiare la sua retorica guerriera agli occhi del suo popolo, dimostrando che è una tigre di carta, non potendo usare l’atomica. Fra l’altro, se l’esercito nordcoreano osasse reagire, sarebbe una buona scusa per spianare il territorio in cui si trova la contraerea nel raggio di un chilometro tutt’intorno. Tanto per essere chiari.
Come si vede, sarebbe provocazione contro provocazione. Perché questa mossa è sbagliata?
Gianni Pardo
30 agosto 2017

ARTICOLI ARRETRATIultima modifica: 2017-09-04T07:37:24+02:00da gianni.pardo
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