IL GIORNALISMO COME GUESSWORK

Qualunque giornale d’importanza nazionale offre ai lettori due generi di servizi: l’informazione su ciò che è avvenuto e l’informazione su ciò che si pensa avverrà. Il passato (la cronaca nera, la cronaca rosa, i fatti curiosi, lo sport, la cultura) e il futuro (che va dall’esito di un processo famoso all’economia e soprattutto alla politica).
I lettori più adulti reputano interessante pressoché esclusivamente ciò che riguarda il futuro. Se si accenna al passato è per capire il presente e, capito il presente, per prevedere il futuro: chi è scontento vuole sapere se c’è speranza di miglioramento; chi teme che qualcosa possa peggiorare vorrebbe essere rassicurato. Ma il problema è appunto questo: il futuro è imprevedibile. È vero che chi non è informato di nulla non può nemmeno formulare ipotesi ragionevoli, ma è anche vero che lo specialista è come uno che dia un calcio al pallone stando in una stanza vuota: sa che alla fine la sfera si fermerà ma non può dire dove. E c’è sempre l’imprevisto: il rischio che voli via dalla finestra.
I non competenti vogliono sapere dai competenti come andrà e questi sono obbligati a far congetture. A cercare di capire come stanno o staranno le cose, un’attività che in inglese si chiama guesswork: tirare a indovinare. Sono costretti a farlo perché diversamente i lettori andrebbero a leggere altri quotidiani. Tuttavia devono stare molto attenti: se non dicono niente di interessante, il lettore lascia l’articolo a metà; se si lanciano a dire “andrà sicuramente così”, si espongono a pessime figure: il guesswork è un esercizio di equilibrismo.
Riguardo al futuro, bisogna indicare la linea di sviluppo tenendo conto dei dati disponibili, e questi a volte sono costanti ed ineliminabili: la geografia della Russia, la mancanza di soluzioni alternative per Israele da un lato e l’irragionevolezza dei palestinesi dall’altro, il peso della religione in Arabia Saudita, l’arretratezza dell’Africa nera. Ecco perché Obama oggi delude: perché le sue prediche elettorali non tenevano conto dei dati immodificabili. Tuttavia, anche basandosi su ciò che è sempre stato vero, bisogna avere la prudenza di ripetere che tutto potrebbe andare diversamente; che non si dispone della palla di vetro; che i comportamenti umani sono imprevedibili e che potrebbe sempre avvenire qualcosa che rivoluziona i dati sul tappeto. Perfino nella nostra piccola Italia. Fino ad un dato giorno tutti hanno discusso accanitamente della giustezza delle posizioni e dei progetti di Enrico Berlinguer, poi improvvisamente il leader è morto ed è stato necessario rimettere tutti i pezzi sulla scacchiera.
In questi giorni la frenesia del guesswork sta toccando vette insolite. Dal momento che, per quanto riguarda la maggioranza e la stabilità del governo, non si sa nulla di nulla, tutti si credono in obbligo di dire la propria. Il risultato è un vocio assordante e indistinto dal quale è meglio astrarsi come ci si astrae dal rumore continuo  di un motore.
Non che il problema sia insulso. Ne dipende, quanto meno a breve termine, il futuro dello Stato. Ma il desiderio di sapere qualcosa non basta a rendere conoscibile l’inconoscibile. Tutti ignoriamo le vere intenzioni dei protagonisti e queste intenzioni sono a loro volta condizionate da dati di cui solo i protagonisti sono in possesso. Più esattamente, credono di essere in possesso: infatti quei dati potrebbero rivelarsi sbagliati. O potrebbero essere giusti nel momento in cui si elaborano i piani e divenire sbagliati nel momento in cui si mettono in pratica. Inoltre, la risultante dipende da forze troppo numerose e, soprattutto, tremendamente umane. Quanti, di quelli che hanno tradito, si pentiranno e torneranno indietro? Quanti, di quelli che promettono fedeltà, tradiranno?
I giornalisti non ne sanno molto di più dei loro lettori. A volte non esitano a riferire fra virgolette pensieri e opinioni di personaggi importanti, come se avessero piazzato un microfono sotto il tavolo, ma è spesso guessework, cronaca immaginaria. Neanche loro conoscono le intenzioni dei protagonisti. E se quelli che hanno le mani in pasta possono sbagliare, figurarsi quante sono le possibilità di prevedere il futuro per chi tira ad indovinare. I giornalisti a volte somigliano a qualcuno che, stando fuori dallo stadio, cerchi di indovinare dalle urla della folla come va la partita di calcio.
Il mese di agosto è quello in cui l’Europa è in stand by. Non rimane che rassegnarsi e non essere impazienti. Per essere delusi o indignati – come probabilmente saremo – non c’è da aver premura.
Gianni Pardo, giannipardo@libero.it
21 agosto 2010

IL GIORNALISMO COME GUESSWORKultima modifica: 2010-08-21T17:51:06+02:00da gianni.pardo
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9 pensieri su “IL GIORNALISMO COME GUESSWORK

  1. Gentile professore, la leggo da tempo, affascinata, pur non intervenendo mai.
    Mi ha colpito, adesso, questa sua frase: “la mancanza di soluzioni alternative per Israele da un lato e l’irragionevolezza dei palestinesi dall’altro…”
    Le chiedo, come risolverebbe lei, dall’alto della sua enciclopedica cultura, questa annosa questione?

    Grazie anticipate per la sicura e cortese risposta

    Annalia

  2. Gentile Annalia,
    la ringrazio. Non ho la cultura che lei mi attribuisce: mi capita soltanto di avere idee chiare su alcuni argomenti e di avere il coraggio di pensare cose scomode.
    Anni fa Edward Luttwak, mentre erano in corso gli scontri sanguinosi e le rappresaglie delle varie fazioni nella ex Jugoslavia, ebbe il coraggio di scrivere che le forze di pace impedivano che alla pace si arrivasse. Sosteneva insomma che, in questi casi, o verdi uccidono tutti i gialli, o i verdi prevalgono e i gialli se ne vanno, o viceversa. Se non si ha una di queste soluzioni, se si impedisce uno scontro risolutivo, il conflitto diverrà endemico e riesploderà. Visione durissima della storia, ma certo non assurda.
    Per quanto riguarda i palestinesi, non volendomi attirare un diluvio di insulti, le dirò solo questo: il problema è che costoro non hanno ancora accettato di avere perso non la, ma le guerre.
    Se non le fosse chiaro ciò che dico, mi scriva privatamente e le risponderò.

  3. Mi perdoni professore ma un brivido ha percorso la mia schiena leggendo di verdi e gialli nel modo di cui scrive lei. Mi sta forse dicendo che, se Hitler avesse portato a termine il suo scellerato piano di sterminio totale, a quest’ora il conflitto già sarebbe risolto di per sè?

    Annalia

  4. Hitler non combatteva una guerra contro gli ebrei, perché gli ebrei erano disarmati. Il suo è stato uno sterminio attuato dall’alto, per così dire senza contraddittorio.
    Luttwak si riferiva non ad uno scontro quasi bellico, ma allo scontro di due comunità (come quello dei Tutsi e degli Hutu, in Africa, che tempo fa costò molte migliaia di morti ed infiniti orrori) che si odiano.
    Le comunità organizzate in Stati, e composte da persone mediamente ragionevoli, si inchinano alla realtà. La Germania reclamava come sue l’Alsazia e la Lorena e il tentativo è andato male. La Germania si è rassegnata e oggi nessuno si chiede se quelle due regioni debbano essere francesi o tedesche.
    I palestinesi invece, benché siano state perdute tre guerre contro Israele, parlano di porre la loro capitale nella capitale nemica o, diversamente, si rifiutano di firmare un trattato di pace. Se le sembra ragionevole… Insomma, hanno perso e pongono condizioni. Come se l’Italia, avendo perso la guerra che dichiarò alla Francia nel 1940, avesse preteso, per firmare il trattato di pace, che so, che le fosse restituita Nizza.

  5. A rigor di logica, vista la sproporzione delle forze in campo, anche i palestinesi sono dei disarmati combattuti da una potenza nucleare.
    Ad ogni buon conto, ho capito quanto può dare lei sull’argomento. La saluto e la ringrazio vivamente per la cortese attenzione riservatami.

    Annalia

  6. Né combattuti né sterminati, da una potenza nucleare che non sa come ottenere di essere lasciata in pace nel proprio territorio.
    Noto con dispiacere che non ribatte alle mie argomentazioni, ma la ringrazio per essere intervenuta.
    Cordialmente,
    Gianni Pardo

  7. Beh, proprio disarmati i palestinesi non sono, e di sicuro non combattono da soli.
    La sproporzione a sfavore esiste, ma sul versante israeliano direi. Il nodo gordiano mediorientale è troppo complesso per essere ridotto ad una vicenda di aggressori (che tali non sono) e poveri aggrediti (che, identicamente, tali non possono venire ritenuti). Ci si dimentica che a litigare si è sempre in (almeno) due.
    A volte mi chiedo se mai finirà, questa epitome della follia, ma non nutrendo particolare fiducia su certo animo umano non so darmi una risposta. Almeno non quella che vorrei.

  8. La realtà giornalistica italiana è fortemente arretrata rispetto il resto del mondo nei contenuti, nell’obiettività e nel format.
    I giornalisti in maggiore evidenza, con il relativo canale mediatico sono ,volenti o nolenti, schierati e la maggior parte dei media si sa anche da chi è direttamente o indirettamente controllata e influenzata e cioè Berlusconi.
    Parlando di quelli che vengono percepiti come giornalisti (iscritti all’ordine), non si tratta, nella maggior parte dei casi, di liberi pensatori, ma di speculatori politici sulla notizia e nei casi peggiori di “bocche di fuoco”, veri e propri uomini pagati e utilizzati per diffamare avversari e dissidenti fino alla consunzione della loro credibilità da giornalisti, per poi essere rimpiazzati con altri personggi usa e getta indefinitamente con l’obiettivo palese di influenzare in momenti critici l’opinione dell’area moderata e meno autonoma nel pensiero.
    Poche volte si ha la percezione di comunicazioni tecniche, asettiche, che riguardano solo e in modo trasparente, e comprensibile al padre di famiglia medio italiano I FATTI.
    Fino ai casi più imbarazzanti tipo Emilio Fede e i suoi panegirici alla faccia di ogni deontologia professionale.
    La cosa più indisponente è l’utilizzo di parole d’ordine, di moda, ripetute sino alla nausea… tipo disobbedienti invece di noglobal o altro possibile identificativo… processo breve, escort, antipolitica, flessibilità, devolution ecc. nel tentativo di realizzare quella speculazione di cui accennavo pocanzi e fare accettare ai più i propri concetti.
    Annalia, Il conflitto israelo palestinese da qualunque parte lo si voglia osservare non ha soluzione. Finchè una delle due parti non darà la resa o non accetterà un accordo definitivo con l’altra.
    Se poi muoiono martiri per religione o nazionalismo ambo le parti, peggio per loro poveri, poveri stolti.
    Onestamente penso, si scannino tra loro ciascuno con le armi che può, sono fatti che non mi riguardano.
    La guerra è una faccenda sbagliata quanto religione e nazionalismo, siamo solo uomini sapiens sapiens su questo pianeta.
    So che se metto la mano nel camino acceso mi ustiono. Posso evitarlo non mettendocela, ma se lo faccio poi non devo lamentarmi che la ferita brucia.

  9. Non sono molto d’accordo con la sua visione dietrologica e un po’ manichea (cita i dieci minuti di Fede e non le ore di Santoro) del giornalismo italiano. Si ricordi l’aurea massima per cui “tutto ciò che è esagerato è insignificante”.

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