TRA FARE E GIUDICAR4E

È lecito che una persona normale senta antipatia per i magistrati. Sentire antipatia non costituisce vilipendio. Diversamente uno sarebbe stato costretto a trovare simpatico Oscar Luigi Scalfaro. Invece, se un gip demente avesse pensato di rinviare a giudizio un cittadino per non aver trovato simpatico quell’indimenticabile Presidente (ai sensi dell’art.278 del Codice Penale) questo cittadino avrebbe potuto reclamare l’assoluzione recitando il brocardo latino: ad impossibilia nemo tenetur, nessuno è tenuto a fare l’impossibile.

Ci sono mestieri che sono necessari alla comunità e tuttavia non rendono gradevole chi li esercita: l’esattore delle tasse, per esempio, il boia, spesso persino il semplice vigile urbano. Ma mentre l’esattore delle tasse e perfino il boia possono scusarsi, quando operano, asserendo che fanno ciò che è loro ordinato, i magistrati – ammesso che facciano parte delle categorie antipatiche – possono essere visti con maggiore ostilità perché agiscono in proprio. Il reo dirà: “È lui che ha deciso di condannarmi, non altri. Non gliel’ha ordinato nessuno di non tener conto delle mie buone ragioni”. E il povero giudice paga la severità di una legge che sta soltanto applicando. 

I magistrati sono anche resi antipatici da una speciale malattia professionale che pochissimi di loro riescono a non contrarre. Chiunque agisca commette a volte degli errori. L’ingegnere comprenderà dunque l’errore di diagnosi del medico perché anche a lui è capitato di sbagliare sull’origine di una macchia di umidità, il commerciante comprenderà l’errore dell’operatore di Borsa perché anche a lui è capitato di concludere un cattivo affare. Chiunque agisca sa di non essere infallibile. E se anche fosse tanto stolto da dimenticarlo, colleghi e clienti si preoccuperebbero di ricordarglielo. Ma i giudici, appunto,  non agiscono: hanno la funzione superiore di valutare gli errori altrui e di infliggere una sanzione a chi li ha commessi; inoltre, esercitando costantemente questa attività, finiscono con l’interiorizzare il principio che gli altri possono sbagliare – del resto lo constatano ogni giorno – e loro no. E da questo a reputarsi infallibili e superiori – visto che nessuno mai li punisce per i giudizi emessi – il passo è breve. Alla fine non fanno parte degli inferiori soltanto gli imputati e le parti, ma anche i loro avvocati e i testimoni, i poliziotti, e chiunque non sia un altro magistrato. 

Ecco perché i giudici italiani sono più antipatici di quelli americani. I giudici anglosassoni arrivano ad essere tali dopo essere stati a lungo avvocati, cioè dopo essersi visti trattare da inferiori dai giudici e dopo avere affrontato a muso duro i colleghi avversari. Dopo essere stati uguali fra uguali e avere fatto ampiamente l’esperienza sia dei successi sia degli sbagli, con annesse cattive figure e umiliazioni. Da noi invece dei giovanotti vincono un concorso e dal giorno dopo sono più infallibili ed intangibili di Salomone. Mai dimenticare la massima di Lord Acton: “Il potere corrompe, e il potere assoluto corrompe assolutamente”.

La malattia professionale, nel caso dei pubblici ministeri, presenta un’aggravante. Mentre il giudicante ha l’unica pecca di reputarsi infallibile e superiore, il requirente aggiunge a volte a questa sindrome quella di credersi il raddrizzatore dei torti della società. Non si limita, come il giudice, a costituire le gambe su cui cammina la giustizia quando si è avuto il rinvio a giudizio, è capace di spingere il sentimento del suo dovere fino a cercare la notitia criminis, fino ad ascoltare denunzianti interessati e sicofanti di basso livello. Il suo intento è quello di salvare la società dal male ed indirizzarla verso il bene. Atteggiamento che non raramente, dopo avere dato adito a sospetti di paranoia, sfocia in confessata attività politica in Parlamento.

Il magistrato, formalmente, fa bene ad essere riservato, impeccabile, persino distante: ne guadagna la credibilità e la maestà della giustizia. In cuor suo invece dovrebbe mantenere una grande umiltà ed essere spaventato dalla straordinaria responsabilità che il sistema scarica sulle sue spalle. Se invece si convince della propria infallibilità e dell’inferiorità antropologica del resto dell’umanità, se scambia la maestà della giustizia per la maestà sua personale, è vittima di una malattia professionale più grave del saturnismo dei tipografi di una volta. Perché il saturnismo, quanto meno, non attaccava il cervello.

Gianni Pardo, pardonuovo.myblog.it

10 ottobre 2013

TRA FARE E GIUDICAR4Eultima modifica: 2013-10-15T10:15:32+02:00da gianni.pardo
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3 pensieri su “TRA FARE E GIUDICAR4E

  1. Gianni, lei sottovaluta Google. Ormai la cultura ce la si fa li’. Qualche battuta sulla tastiera, evvai. Tutto pronto per l’uso, di fronte a te. E magari domani te ne sei gia’ dimenticato, perche’ e’ cultura appiccicaticcia. Ma tanto puoi sempre ritornarci sopra, all’occorrenza. “Carneade, chi era costui?” non esiste piu’.

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