IL CRIMINE DI BEETHOVEN

La musica è stata a lungo una cosa semplice e gradevole. Persino umile: non intendeva imporsi e non richiedeva il raccoglimento dovuto al magico e al sacro. Spesso era soltanto musica da ballo. Lo provano fra l’altro le indicazioni di un’infinità di pezzi di Bach: giga, gagliarda, minuetto, gavotta, allemanda, passacaglia… tutti termini che indicano danze. Questa concezione della musica – ancella della religione o delle serate danzanti – è durata a lungo. Solo per stabilire un punto di riferimento, diciamo che arriva a Haydn.
Haydn, uomo dal carattere eccellente, non tiene a presentarsi come un vate dell’arte: è soltanto un impiegato – neanche dei più importanti – dei principi Esterhazy. La sua musica, invariabilmente gradevole e a volte molto bella, si può ascoltare con distesa delizia, magari facendo altro. Soprattutto oggi che non si deve pagare quell’orchestra che allora si potevano permettere gli Esterhazy.
Proprio sul finire del Settecento avviene tuttavia un cambiamento epocale. Nasce il Romanticismo e l’artista cessa di essere un artigiano al servizio di vescovi e nobili; diviene un rappresentante dell’Arte, intesa come un tale valore da rivaleggiare con i massimi. Quando gli Esterhazy ricevevano degli ospiti, li accoglieva anche la servitù allineata, e Haydn, stava vicino ai guardiani dei cani. Beethoven, e dopo Beethoven tutti gli artisti, si sono invece reputati all’altezza delle persone più importanti, come rango. Anche perché, per esempio in letteratura, con la diffusione dei libri gli artisti hanno potuto vivere di ciò che scrivevano (si pensi a Balzac o Lamartine) mentre prima o si acconciavano ad essere per così dire “poeti di corte” oppure dovevano essere nobili e ricchi loro stessi. L’accentuazione della dignità dell’artista ha avuto il suo massimo con la diffusione dei mezzi di comunicazione: e infatti oggi un ragazzotto che canta può essere più noto e più apprezzato del Primo Ministro.
Col romanticismo anche la musica è cambiata, e non ha più voluto essere soltanto gradevole, ha voluto essere “supremamente bella”. Ha voluto suggerire qualcosa di vago ma di profondo, forse quell’anelito, quel “mal du siècle” che fu caratteristico dell’Ottocento.
Non che prima la grande musica non fosse “supremamente bella”. Basta pensare a tante opere di Bach, il cui livello, pur rimanendo lontanissimo dall’enfasi romantica e dalle facili seduzioni operistiche, riesce a dare alcune delle emozioni più forti. Per non parlare del “divino Mozart” che era tale proprio perché la sua musica non è confidenziale, sentimentale, appassionata, ma bella al di sopra di ogni altra. Mozart è la musica in sé. E non si può dimenticare il delizioso Schubert, spesso così dolente, che tuttavia non ci racconta le sue lacrime per farsene un’aureola di superiorità ma soltanto per confessare la propria sconfitta di essere umano.
Col romanticismo la musica non soltanto ha voluto essere “supremamente bella”, ha voluto presentarsi come l’occasione di conoscere l’inconoscibile; ha voluto essere la rivelazione d’un mondo diverso e superiore col quale si entra in contatto nel silenzio attento della sala da concerto, come aspettando l’apparizione di una divinità. La musica è divenuta un rito che, nel contatto con l’ascoltatore, si pone come protagonista e non come ancella. E con questo si arriva a Beethoven, alla sua Nona Sinfonia e in particolare all’ultimo tempo.
Beethoven non si sarebbe certo allineato con i servi e i cani. Era cosciente del proprio valore d’artista e non lo nascondeva certo. Quell’ultimo tempo della Nona Sinfonia è di una tale ricchezza, di una complessità così grandiosa, di una potenza tale, con la grande orchestra, i cantanti e il coro, che l’ascoltatore sensibile, pur mentre gode di quell’apoteosi, ne è atterrato, è ridotto alle sue proporzioni di microbo. Quella musica non si propone all’ascolto, al contrario è come un esercito in armi che invade l’anima dell’ascoltatore e non gli lascia scampo. Grande arte, certo, ma anche, quasi, prevaricazione. E che questa fosse, coscientemente o no, l’intenzione del genio di Bonn, si è visto in seguito. Gli organici sono aumentati, fino a divenire pletorici con Wagner. Con Caikovskij la musica è divenuta addirittura violenta, nella sua invadenza di bellezza, ed è diventata oceano con Mahler.
Rimane da dire perché tutto ciò costituisce un crimine, soprattutto dal momento che qui non si è mai smesso di usare le parole bello, bella, bellezza. Il delitto della grande musica dell’Ottocento è quello d’avere vinto, nella sua intenzione di farci intravedere un mondo di superiore armonia, di farci assaggiare il paradiso. Questo può fare molto male a chi poi scopre che quel mondo non esiste e il paradiso ha chiuso i battenti da molto tempo. Di ciò possono soffrire soprattutto i giovani. Se non hanno avuto la rara fortuna di percepire subito la superba, astratta, matematica bellezza dei concerti per violino di Bach e sono stati tuttavia travolti dalla grandiosa musica romantica, è come se poi fossero costretti a scendere ad uno ad uno i gradini della mediocrità della vita, rassegnandosi a condurre un’esistenza di ripiego.
Gianni Pardo, pardonuovo@myblog.it
28 agosto 2015

IL CRIMINE DI BEETHOVENultima modifica: 2015-08-29T10:48:26+02:00da gianni.pardo
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