DEMOGRAFIA, RICCHEZZA, IMMIGRAZIONE

di Ian Morris

Cinquant’anni fa, il poeta inglese Philip Larkin vide che il mondo si stava trasformando sotto i suoi piedi. E così ne parlò nel suo componimento del 1967, Annus Mirabilis.
L’accoppiamento sessuale cominciò
Nel millenovecentosessantatré
(cioè piuttosto tardi, per me)
Fra la fine del bando a Chatterley
E il primo Lp dei Beatles.
La poesia di Larkin aveva come argomento centrale la sua sfortuna, essendo nato troppo presto per ricavare il massimo vantaggio da questo spostamento tettonico, ma il suo talento si manifestò nel modo in cui riuscì a connettere i suoi personali desideri agli sconvolgimenti che percorrevano il globo. Egli spiegava così questo fatto, nel secondo verso:
Fino ad allora c’era stato soltanto
Una sorta di mercanteggiamento,
una discussione per l’anello,
una vergogna che cominciava a sedici anni
e si allargava a tutto il resto.
Per centomila anni, sin da quando gli esseri umani moderni si sono evoluti, il sesso era stato una parte di una più larga tradizione di dispute fra maschi e femmine, giovani e vecchi, riguardo ai bambini, alle proprietà e alle responsabilità. Ma in un batter d’occhio, l’arrivo della contraccezione chimica cambiò tutto. Per la generazione degli anni Sessanta – come osservava con invidia Larkin – il sesso sarebbe stato qualcosa che si faceva per divertimento: “Improvvisamente la discussione svanì… ed ogni vita divenne/un modo brillante di far saltare il banco/un gioco in cui non si poteva perdere”.
Le relazioni fra i sessi, lungo gli ultimi cinquant’anni, sono state un po’ più complicate di così, ma Larkin aveva perfettamente ragione nel vedere che il sempre maggiore controllo delle donne sulla possibilità di rimanere incinte era uno dei più grandi sconvolgimenti della storia. Il modo in cui esso trasformò le relazioni fra i Paesi è stato reso dolorosamente chiaro nelle più recenti campagne elettorali per la Presidenza degli Stati Uniti. Ma esso ha anche trasformato le relazioni fra i Paesi, e – cosa non sorprendente – riappare regolarmente nelle discussioni geostrategiche. Ma è difficile contraddire il sentimento che ancora abbiamo molta strada da fare nel comprendere esattamente come si influenzeranno vicendevolmente nei decenni avvenire, la biologia, l’economia e la politica, per non parlare di come si svilupperà il nostro coraggioso mondo a bassa natalità.
Per la maggior parte del nostro tempo sulla Terra, noi esseri umani siamo stati animali ad alta natalità e ad alta mortalità. Fino a diecimila anni fa, ognuno viveva cacciando animali selvaggi e raccogliendo piante, e il tasso totale di natalità (TTN) – cioè il numero medio di nati vivi che aveva ogni donna – è stato probabilmente intorno a 5,0. Un numero largamente superiore al 2,0 necessario per rimpiazzare la popolazione vivente, ma l’alta mortalità dei neonati e dei bambini faceva sì che la maggior parte delle donne dovesse avere almeno quattro figli per produrre due adulti che vivessero fino all’età riproduttiva.
Il TTN salì ancora di più quando si ebbe l’agricoltura, perché la dieta dei coltivatori era tipicamente più povera di quella dei loro antenati e l’affollamento della vita nel villaggio rendeva più facile la diffusione delle malattie. La moglie del contadino doveva partorire in media sei o sette figli per assicurare la sopravvivenza dell’umanità. Per conseguenza, doveva normalmente divenire fertile alla fine dell’adolescenza e sarebbe morta intorno ai quarant’anni. Quasi ogni donna fertile spendeva la maggior parte della sua vita da adulta essendo incinta ed occupandosi di bambini piccoli.
Il TTN cominciò a diminuire notevolmente soltanto dopo la metà del ‘700, e perfino allora soltanto nel nord-ovest dell’Europa e nelle colonie del Nord America. I miglioramenti nella salute pubblica, l’igiene personale e le forniture di cibo avevano tutti un ruolo nell’abbassamento del tasso di mortalità. Ancora negli anni cinquanta dell’Ottocento, circa un quarto dei bambini nati negli Stati Uniti moriva prima di compiere un anno, ma nel 1970 questa cifra era scesa a 1 su 50. Per alcune generazioni, i tassi di natalità rimasero alti anche quando i tassi di mortalità erano crollati, ciò che significa che le popolazioni europee e nordamericane crescevano rapidamente. Ma ben prima del 1900 le coppie stavano riducendo il numero dei bambini che concepivano ed allevavano. Non è una coincidenza che la prima persona che ha teorizzato le relazioni fra la crescita delle popolazioni e la disponibilità di cibo, Thomas Malthus, lo fece in Inghilterra nel 1798.
I demografi chiamano questo prolungato passaggio dai regimi di alta mortalità e alta fertilità a regimi di bassa mortalità e fertilità “la transizione demografica”. La maggior parte dei Paesi ricchi l’hanno completata intorno al 1900 ed hanno mantenuto il TTN fra 2.0 e 2.2 lungo la maggior parte del Ventesimo Secolo (negli Stati Uniti, il TTN scese al livello di rimpiazzo nel 1979). Ciò non soltanto ha permesso ai genitori di investire di più nell’educazione di ogni figlio ma ha anche liberato le madri in modo che potessero lavorare fuori casa, guadagnando di più per investire nella loro fortunata progenie. Fra il 1940 e il 1990, la proporzione di donne americane che lavoravano fuori casa si è più che raddoppiata, dal 26 al 56%, e addirittura già nel 1950, l’intera metà delle donne americane che lavoravano erano sposate.
Chiaramente, il sesso era cosa che riguardava il divertimento tanto quanto I bambini molto prima del 1963 (il preservativo di gomma, dopo tutto, è stato inventato nel 1920) ma Larkin aveva nondimeno ragione affermando che i primi Anni Sessanta sono stati il momento di svolta per il mondo sviluppato. I tassi di natalità in quel momento scesero molto più dei livelli di rimpiazzo. Già nel 2014, la donna media nell’Unione Europea aveva 1,58 figli, mentre la donna giapponese media riusciva soltanto ad averne 1,40. Tanto straordinaria è questa “morte della nascita” che i demografi olandesi Ron Lesthaeghe e Dirk van de Kaa amano dire che il mondo ricco è passato attraverso una “seconda transizione demografica” che cominciò – esattamente come detto da Larkin – nel 1963.
Se adottiamo una prospettiva globale, sembra che Larkin abbia avuto ancora una volta ragione, anche se saltava un po’ troppo facilmente alle conclusioni. Nel 1968 il TTN, in tutto il mondo, era ancora del 4,9, appena un po’ più giù dell’inizio del Ventesimo Secolo. Ma a quel punto gli asiatici, gli africani e i latino-americani cominciarono a seguire la tendenza degli europei e degli euro-americani, separando il coito dalla riproduzione. Nel 2013, il TTN globale era sceso a 2,3. Soltanto alcuni Paesi, prevalentemente in Africa, hanno ancora un TTN al di sopra di 5,0.
Questa è una vicenda particolare. Attraverso tutta la storia prima della transizione demografica, il TTN alto e la crescita della popolazione sono state le precondizioni della grandezza nazionale, mentre un basso TTN era stato un suicidio strategico.
Ciò era ovvio già allo storico Greco Polibio, nel terzo secolo a.C., e il primo imperatore romano prese la cosa tanto sul serio che nell’anno 9 d.C. fece votare leggi che cercavano di forzare gli aristocratici ad avere più figli. Nel Ventunesimo Secolo, al contrario, la relazione inversa fra tassi di fertilità e successo nazionale sembra così solidamente stabilita che nel 2009 gli autori di una relazione nella stimata rivista scientifica “Nature” la chiamavano “una delle regolarità empiriche più solidamente stabilite e generalmente accettate nelle scienze sociali”.
Da qui la domanda: l’umanità, nel 1963 (o forse nel 1750), ha rotto la ferrea legge della biologia che la riproduzione è il segreto del successo? Oppure – come si dice abbia detto Chou En Lai nel 1972, quando gli chiesero un giudizio sulla Rivoluzione Francese – è ancora troppo presto per affermarlo?
Se è vera la prima affermazione, allora per una volta posso proclamare di essere al sommo di una trasformazione globale. Appartengo infatti a ciò che lo scienziato dell’evoluzione Peter Richerson e l’antropologo Robert Boyd hanno chiamato “una delle più bizzarre transizioni nell’intera storia dell’etnografia… una sottocultura di popolo che dedica più tempo – ed è più fiera di – alla lunghezza della lista delle loro pubblicazioni che al numero dei loro figli”. Essere senza-figli-per-scelta è una medaglia al merito fra i professori universitari occidentali; secondo i miei conti, nel mio dipartimento della Stanford University, diciassette professori hanno in tutto messo al mondo nove bambini. Il nostro TTN del dipartimento – di 1,06 – fa sembrare perfino il Giappone produttivo.
C’è da essere sicuri che noi professori occidentali non siamo affatto la prima sottocultura nella storia che non ce l’ha fatta a riprodursi biologicamente. In teoria, almeno, i preti e i monaci cattolici hanno un TTN di zero e fondato interamente sull’attrazione di nuovi membri dall’esterno dei loro ranghi per perpetuare la loro professione a partire dal momento in cui i loro membri venivano meno. C’è tuttavia una differenza significativa, fra la gerarchia cattolica medievale e la moderna università. Fino all’incirca all’anno mille, preti e monaci normalmente non erano celibi. Questo requisito è stato loro imposto dai fanatici che si impadronirono della direzione della chiesa nell’Undicesimo Secolo. Il più importante fatto che determinò il fenomeno fu il controllo della favolosa ricchezza della Chiesa, la quale permetteva ai detentori di pubblici uffici di accusare i vescovi e i prelati di essere nulla di più di uno Stato parallelo che raggirava i credenti inducendoli a dar loro le proprietà che dopo loro lasciavano in eredità, insieme alle loro cariche, ai figli. I religiosi radicali reagirono puntellando le loro credenziali ideologiche e proponendo un accordo: se i re e gli imperatori non mettevano le mani sulle proprietà della Chiesa e permettevano ai papi e agli arcivescovi di continuare a nominare gli uomini che le controllavano, tutti gli ufficiali della Chiesa avrebbero rinunziato al diritto di allevare i propri eredi.
L’antropologo Ernest Gellner chiamò questa “castrazione” un meccanismo per appianare i conflitti fra governanti e subordinati vitali ma potenzialmente minacciosi impedendo a questi subordinati di riprodursi. A volte la castrazione era letterale, come nella pratica (comune da Bisanzio fino alla Cina) di dare posizioni di vertice, nella burocrazia dello Stato, ad eunuchi. In altri tempi essa fu istituzionale, come nel caso della Chiesa Cattolica. Ma in qualunque modo i governanti imposero la castrazione su gruppi pericolosi come un modo per separarli dal resto della popolazione, che generalmente faceva figli nella massima quantità che poteva.
I professori sono infinitamente lontani dagli antichi gruppi di castrati. I dirigenti dell’università non richiedono che nelle loro facoltà si smetta di fare sesso (salvo che con i loro propri studenti), e neppure si ha una castrazione che separi i professori dal resto della popolazione. Noi professori stiamo scegliendo di non riprodurci per ragioni di stile di vita e di carriera, e l’unica cosa che ci separi dal resto della popolazione è che noi tendiamo a fare questa scelta un po’ più spesso delle altre persone. “Un libro è un bambino”, come piace dire a uno dei miei amici professori, il quale fa notare che ogni nato vivo ha notevoli conseguenze per le carriere, le promozioni e lo stipendio.
Se noi professori siamo di fatto l’avanguardia della rivoluzione della bassa natalità ed altri continuano a seguire il nostro esempio, possiamo aspettarci che il massimo della popolazione mondiale possa essere raggiunto a metà del Ventunesimo Secolo e che poi cominci a declinare, che è poi esattamente ciò che prevedono le Nazioni Unite. L’umanità romperà così di fatto la legge dell’evoluzione della sopravvivenza del più adatto (dal punto di vista riproduttivo), e piccole, ricche popolazioni prevarranno nella lotta evoluzionistica contro le grandi e povere popolazioni. Un bel po’ di pessimisti predicono che i computer e i robot sono sul punto di distruggere la maggior parte dei posti di lavoro della classe media; se hanno ragione, allora le popolazioni che si “restringono” potrebbero rivelarsi le uniche economicamente capaci di sopravvivere.
Un’altra possibilità, tuttavia, è che il legame bassa natalità/alto reddito potrebbe rivelarsi temporaneo. Alcuni demografi stanno già affermando che la relazione fra natalità e reddito è di fatto una curva a J piuttosto che una retta discendente. Benché individualmente il reddito aumenti con la diminuzione del TTN – essi suggeriscono – una volta che la gente abbia raggiunto un certo livello di prosperità, comincerà di nuovo a fare figli. Esattamente come l’esplosione della popolazione del XIX e XX Secolo ha rappresentato uno stadio temporaneo di aggiustamento, sostengono, la stabilizzazione demografica del XXI Secolo è soltanto una fase, che sarebbe seguita da una rinnovata espansione.
Se fosse così, ne potrebbe risultare che i gruppi che hanno sacrificato la natalità alla prosperità, alla fine potrebbero pagare un terribile prezzo. Se la storia ritorna alla norma di lungo periodo e le grandi popolazioni ancora una volta divengono le basi del potere e della prosperità, possiamo aspettarci una rivoluzione geostrategica. La popolazione dell’Africa attualmente si pone a 1,1 miliardi di persone, corrispondente al 15% del totale mondiale. Le Nazioni Unite si aspettano che essa raggiunga i 2,5mld, cioè il 26% del totale, nel 2050, e 4,4mld, ossia il 39% del totale, nel 2100.
I Paesi ricchi stanno già sforzandosi di risolvere il problema di popolazioni che invecchiano e il declino della proporzione fra giovani lavoratori e vecchi consumatori, lasciato loro in eredita dalla caduta della natalità. L’ovvia soluzione – incoraggiare i giovani poveri ad emigrare dai Paesi ad alta natalità in Africa, America Latina e Medio Oriente, verso l’Europa Occidentale e il Nord America –ha provocato gravi problemi politici nel mondo ricco e reazioni contro l’umana mobilità. E tuttavia esiste la reale possibilità che ancora non abbiamo visto niente, e che durante il XXI Secolo la demografia rovesci l’equilibrio internazionale, come ha così spesso fatto in passato. E per il mondo prospero, le ultime righe della poesia di Larkin si rivelino più profetiche di quanto sembrino:
Così la vita non fu mai migliore che
Nel millenovecentosessantatré
(benché troppo tardi per me)
Fra la fine del bando a Chatterley
E il primo Lp dei Beatles.
(Traduzione di Gianni Pardo)

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G.P.

Stratfor0125
Demography: The Basis of Power and Prosperity
Global Affairs
JANUARY 25, 2017 | 08:00 GMT
By Ian Morris
Fifty years ago, the British poet Philip Larkin saw that the world was shifting under his feet. As he described it in his 1967 composition Annus Mirabilis,
Sexual intercourse began
In nineteen sixty-three
(which was rather late for me)—
Between the end of the Chatterley ban
And the Beatles’ first LP.
Larkin’s poem was largely about his own bad luck in having been born too soon to be able to make the most of this tectonic shift, but its artistry lay in the way he connected his personal woes to upheavals that spanned the globe. The issue, he explained in the second verse, was that,
Up to then there’d only been
A sort of bargaining,
A wrangle for the ring,
A shame that started at sixteen
And spread to everything.
For 100,000 years, ever since modern humans evolved, sex had been part of a larger tradition of wrangling between male and female, young and old, about babies, property and responsibility. But in the blink of an eye, the coming of chemical contraception changed everything. For the ’60s generation, Larkin enviously observed, sex would be all about fun: “All at once the quarrel sank … And every life became / A brilliant breaking of the bank, / A quite unlosable game.”
Gender relations across the past 50 years have been a little more complicated than that, but Larkin was quite right to see that women’s rising control over their own conception was one of the greatest upheavals in history. The way it transformed relationships within countries was made painfully clear in the United States’ most recent presidential race. But it also transformed relationships between countries, and not surprisingly, it regularly features in discussions of geostrategy. But it’s hard to shake the feeling that we still have a long way to go in working out exactly how biology, economics and politics fit together, let alone in envisioning just how our brave, new low-fertility world will develop in the decades to come.
Against the Laws of Survival
For most of our time on Earth, we humans have been high-fertility, high-mortality animals. Until 10,000 years ago, everyone lived by hunting wild animals and gathering plants, and the total fertility rate (TFR) — that is, the average number of live births each woman had — was probably around 5.0. This was well above the 2.0 needed to replace the living population, but high infant and child mortality meant that most women needed to have at least four babies to produce two adults who lived to reproductive age.
What is Global Affairs?
The TFR rose still higher after agriculture began because farmers’ diets were typically poorer than foragers’ and the crowding of village life made it easier for infectious diseases to spread. The average farmwife needed to bear six or seven babies to ensure mankind’s survival. Given that she would normally become fertile in her late teens and would be dead by 40, almost every fertile woman spent most of her adult life pregnant and/or caring for small children.
TFRs began to drop sharply only after about 1750, and even then only in northwest Europe and its North American colonies. Improvements in public health, personal hygiene and food supply all played a part in lowering mortality rates. In the 1850s, about a quarter of all babies born in the United States still died before their first birthdays, but by 1970 this figure had fallen to 1 in 50. For a few generations, fertility rates remained high even though mortality rates had fallen, which meant that European and Euro-American populations grew rapidly. Well before 1900, though, couples were reducing the number of babies they conceived and raised. It is no coincidence that the first person to theorize the relationships between population growth and food supply, Thomas Malthus, did so in England in 1798.
Demographers call this drawn-out shift from high-mortality, high-fertility regimes to ones with low mortality and fertility “the demographic transition.” Most rich countries had completed it by 1900 and maintained TFRs between 2.0 and 2.2 through much of the 20th century (in the United States, the TFR sank to replacement level in 1979). This not only allowed parents to invest more in the education of each child but also freed mothers to work outside the home, earning even more to invest in their fortunate offspring. Between 1940 and 1990, the proportion of American women working outside the home more than doubled, from 26 to 56 percent, and as early as 1950, fully half of American workingwomen were married.
Clearly, sex was about fun as much as babies long before 1963 (the rubber condom, after all, was invented in 1920), but Larkin was nevertheless right that the early 1960s were a turning point for the rich world. Birth rates now plummeted well below replacement levels. By 2014, the average woman in the European Union had just 1.58 babies, while the average Japanese woman managed only 1.40. So extraordinary is this “birth dearth” that Dutch demographers Ron Lesthaeghe and Dirk van de Kaa like to say the rich world has gone through a “second demographic transition” that began — exactly as Larkin said — in 1963.
If we take a global perspective, Larkin also appears to have been right, even if he jumped the gun a little. In 1968 the worldwide TFR was still 4.9, barely down at all from the early 20th century. But at that point Asians, Africans and Latin Americans began following the European and Euro-American lead, separating sexual intercourse from reproduction. By 2013, the global TFR was down to 2.3. Only a handful of countries, mostly in Africa, still have TFRs above 5.0.
This is a peculiar story. Through the whole of history prior to the demographic transition, high TFRs and population growth had been preconditions of national greatness, while low TFRs had been strategic suicide. This was already obvious to the Greek historian Polybius in the third century B.C., and Rome’s first emperor took it so seriously that in A.D. 9 he passed laws trying to force aristocrats to have more babies. In the 21st century, by contrast, the inverse relationship between fertility rates and national success seems so firmly established that in 2009 the authors of a paper in the leading scientific journal Nature called it “one of the most solidly established and generally accepted empirical regularities in the social sciences.”
Hence the question: Did humanity in 1963 (or perhaps 1750) break the iron law of biology that reproduction is the secret of success? Or — as Zhou Enlai is supposed to have said in 1972 when asked about the legacy of the French Revolution — is it still too soon to say?
Ahead of the Curve . . .
If the former, then for once I can claim to be at the cutting edge of a global transformation. I belong to what evolutionary scientist Peter Richerson and anthropologist Robert Boyd have called “one of the most bizarre traditions in the whole ethnographic record … a subculture of people who devote more time to, and are prouder of, the length of their publication list than the number of their children.” Being childless-by-choice is a badge of honor among Western academics; by my count, the 17 professors in my department at Stanford University have between us produced just nine children. Our departmental TFR of 1.06 makes even Japan look fruitful.
To be sure, we Western academics are hardly the first subculture in history to have failed to reproduce ourselves biologically. In theory, at least, Catholic priests and monks had a TFR of zero and relied entirely on attracting new members from outside their ranks to perpetuate their profession as insiders died off. There is a telling difference, however, between the medieval Catholic hierarchy and modern academia. Until roughly the year 1000, priests and monks normally were not celibate. This requirement was imposed on them by zealots who seized the church’s leadership in the 11th century. The main issue involved was the church’s control of fabulous wealth, which allowed the holders of political office to accuse bishops and prelates of being nothing more than a parallel state that conned believers into giving them property that they then bequeathed, along with their offices, to their sons. Religious radicals struck back by shoring up their ideological credentials and cutting a deal: If kings and emperors kept their hands off church property and allowed popes and archbishops to go on appointing the men who controlled it, all church officials would forgo the right to breed their own heirs.
The anthropologist Ernest Gellner called this “gelding” — a mechanism for smoothing conflicts between rulers and vital but potentially threatening subordinates by stopping those subordinates from reproducing themselves. Sometimes the gelding was literal, as in the practice (common from Byzantium to China) of giving top positions in the state bureaucracy to eunuchs. Other times it was institutional, as with the Catholic Church. But either way, rulers imposed gelding on dangerous groups as a way to set them apart from the rest of the population, which generally bred as fast as it could.
Professors are worlds apart from the earlier gelded groups. University trustees do not require their faculty to desist from sex (except with their own students), nor does gelding set professors apart from the rest of the population. We professors are choosing not to reproduce for reasons of lifestyle and career, and the only thing that sets us apart is that we tend to make this choice a little more often than other people. (“A kid’s a book,” one of my academic friends likes to say, pointing out that every live birth has major consequences for careers, promotions and salary.)
If we professors are indeed the vanguards of the low-fertility revolution and others continue to follow our lead, we can expect the world’s population to peak in the mid-21st century and then decline — which is, in fact, exactly what the United Nations predicts. Humanity will indeed have broken evolution’s law of the survival of the (reproductively) fittest, and small, rich populations will win the evolutionary struggle against large, poor ones. Plenty of pessimists predict that computers and robots are on the verge of destroying most middle-class jobs; if they are right, then shrinking populations might turn out to be the only ones that are economically viable.
. . . Or Past Our Prime?
Another possibility, though, is that the low fertility-high income link will prove to be temporary. Some demographers are already arguing that the relationship between fertility and income is actually a J-curve rather than a steady decline. Although per capita income increases as TFRs fall, they suggest, once people hit a certain level of prosperity they start breeding again. Just as the population explosion of the 19th and 20th centuries was a temporary stage of adjustment, they argue, the demographic stabilization of the 21st century is also merely a phase, to be followed by renewed expansion.
If so, it might turn out that groups that sacrificed fertility for prosperity will eventually pay a terrible price. If history reverts to the long-term norm and large populations once again become the basis of power and prosperity, we can expect a geostrategic revolution. Africa’s population currently stands at 1.1 billion people, or 15 percent of the world’s total. The United Nations expects it to reach 2.5 billion, or 26 percent of the total, by 2050, and 4.4 billion, or 39 percent of the total, by 2100.
Rich countries are already struggling to come to terms with the aging populations and declining ratios of young workers to old consumers bequeathed to us by falling fertility. The obvious solution — encourage poor, young people to migrate from high-fertility countries in Africa, Latin America and the Middle East to Western Europe and North America — has generated political turmoil in the rich world and backlash against human mobility. There is a real possibility, though, that we ain’t seen nothing yet, and that during the 21st century demography will overturn the international balance, as it has done so often before. And for the rich world, the last lines of Larkin’s poem might turn out to be more prophetic than they seem:
So life was never better than
In nineteen sixty-three
(Though just too late for me)—
Between the end of the Chatterley ban
And the Beatles’ first LP.

DEMOGRAFIA, RICCHEZZA, IMMIGRAZIONEultima modifica: 2017-02-01T15:07:32+01:00da gianni.pardo
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