UNA SPERANZA PER LO ZIMBABWE

La notizia, in sintesi, è che il dittatore dello Zimbabwe (pronunziare /sim’babue/ con la “s” dolce, o sonora, e con due “b”), Robert Mugabe, è stato rimosso da un colpo di Stato militare. L’evento riguarda un dittatore africano non dei migliori, e giunge con circa trent’anni di ritardo sul desiderato. Chi sia e che cosa abbia fatto questo signore è lungo da raccontare, e chiunque può leggerlo su Wikipedia. Se poi legge l’inglese, può avere notizie ancor più particolareggiate su en.wikipedia.org. Ma qui basta l’essenziale.
Il colonialismo è stato un fenomeno storico che ha fatto il suo tempo. Come tutti gli eventi storici ha avuto luci ed ombre. Non fu giusto definirlo “the burden of the white man”, il fardello dell’uomo bianco, come se andare a comandare a casa d’altri fosse un dovere di cui farsi carico, nell’esclusivo interesse dei sottoposti. Ma certo non fu giusto demonizzarlo e renderlo responsabile di tutti i mali dell’Africa, della sua povertà e delle sue ingiustizie, come poi avvenne negli anni del sinistrismo delirante. Infatti quello sfortunato continente ha vissuto il peggio da quando gli europei lo hanno lasciato al suo destino.
La lista è lunghissima. Il Congo ha avuto una lunga e sanguinosa guerra civile. La Somalia ha cessato di essere uno Stato ed è ancora dominata dai terroristi. Uganda e Burundi hanno conosciuto massacri orribili. L’Algeria, prospera sotto i francesi, è arrivata anni fa alla “guerra del pane”. La Libia, che cominciò a fiorire sotto gli italiani, è divenuta prima una dittatura e oggi neppure quella. Lo Stato più fiorente (e infatti meta di una enorme immigrazione di neri) è stato a lungo quello con la maggiore quantità di bianchi, il Sud Africa. Proprio quello demonizzato per l’apartheid. Ma forse il caso più emblematico è stato proprio lo Zimbabwe (pronunziare /sim’babue/ con la “s” dolce, o sonora, e con due “b”). Questo relativamente piccolo Paese (che tuttavia è di un terzo più grande dell’Italia) è stato un tempo, quando ancora lo governava Ian Smith e si chiamava Rhodesia, così verde, così prospero, così ordinato, da essere detto “la Svizzera dell’Africa”.
Poi ci fu la ventata dell’anticolonialismo, il Paese ottenne l’indipendenza, e il risultato fu che i bianchi che potevano andar via andarono via, mentre i “farmers”, che erano lì dalla nascita e amministravano prospere fattorie, furono prima pressantemente invitati ad andarsene e infine brutalmente espropriati senza indennizzo.
Non val la pena di riprendere la brutalità della dittatura, le repressioni sanguinose, le tante imprese di Mugabe che ne hanno fatto un personaggio indecente o – come si usa dire oggi, come se si trattasse del ballo delle debuttanti – impresentabile. Lasciamo perdere il lato immorale e criminale di questa dittatura che dura all’incirca da trentasette anni. La domanda importante è: i provvedimenti conseguenti all’indipendenza hanno almeno prodotto la prosperità degli abitanti? La risposta è un risoluto no. Non soltanto la popolazione non è stata più ricca, ma l’ex Rhodesia ha conosciuto qualcosa che le era ignoto: la fame. L’economia è crollata, il popolo è stato talmente infelice che l’emigrazione si cifra in tre o quattro milioni di persone, cioè una buona parte degli abitanti dello Zimbabwe (pronunziare /sim’babue/ con la “s” dolce, o sonora e con due “b”).
Oggi c’è un colpo di Sato che rimuove Mugabe, ma a parte il fatto che quel dittatore ha novantatré anni, e se non lo rimuovono i militari lo rimuove una signora con la falce, ci si può chiedere se la nuova dirigenza sarà migliore della vecchia. Non dovrebbe essere difficile, ma non si sa mai. Ciò che è sicuro è che la Rhodesia è stato un posto molto più bello e comodo, in cui vivere, rispetto allo Zimbabwe (pronunziare /sim’babue/ con la “s” dolce, o sonora, e con due “b” ). Dunque, quando si parla di colonialismo, bisognerebbe stare un po’ più attenti.
Gianni Pardo, giannipardo@libero.it
15 novembre 2017

UNA SPERANZA PER LO ZIMBABWEultima modifica: 2017-11-15T11:31:50+01:00da gianni.pardo
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