MANSON E IL FONDAMENTO DELLA MORALE

Benché il suo crimine risalga al 1969, molti non avranno dimenticato chi sia stato Charles Manson. Quest’uomo e i suoi complici, senza nessuna ragione, sequestrarono e torturarono a morte alcune persone, tra cui Sharon Tate, la bellissima attrice, moglie di Roman Polanski, incinta all’ottavo mese. Manson sfuggì alla pena di morte (perché nello Stato in cui fu giudicato fu abolita) e fu condannato all’ergastolo. In Italia la parola ergastolo si è annacquata, negli Stati Uniti significa ancora “fine pena mai”. E infatti quello sciagurato, prima di morire è stato quarantotto anni in prigione. Quarantotto anni. Più della vita media di un uomo di qualche secolo fa.
Il problema delle azioni di personaggi come Manson è morale, giuridico e psichiatrico. È normale che si chieda come impedire che fatti del genere avvengano, e come reagire, una volta che siano stati commessi. Ma qui si vuol esaminare il punto di vista di un criminale.
Socrate aveva ragione quando sosteneva che ciascuno agisce per ciò che considera il meglio in quel momento. Dunque il criminale, quando compie una strage, preferisce il suo divertimento, l’esercizio di una punizione ispirata da Dio, lo sfogo dell’odio per i benestanti o i famosi, la vendetta o qualunque sia la sua motivazione, all’angoscia, alla tremenda sofferenza e alla morte di alcuni innocenti. Ci si può chiedere: ha calcolato la possibilità che la società gli presenti il conto?
In particolare: ad ammettere che, soggettivamente, Manson sentisse di avere ragione di compiere quel massacro, quell’azione valeva quarantotto anni di carcere? La domanda è fondamentale e l’ha posta fra i primi, in forma umoristica, Mark Twain. Dopo aver lodato oltre ogni ragionevolezza e verosimiglianza il cocomero meridionale, scrive: “La mela di Eva non fu un cocomero meridionale. Lo sappiamo perché lei si pentì”. La “mela” di Manson valeva quarantotto anni di carcere?
Il sistema penale ha due scopi principali: la “prevenzione speciale”, cioè che quel colpevole non commetta più quel reato, e la “prevenzione generale”, cioè che la punizione a lui inflitta serva da monito per tutti gli altri. La prevenzione generale funziona col meccanismo di causa ed effetto, al di fuori di ogni valutazione. Infatti la repressione induce ad astenersi anche da atti che personalmente si considerano giusti. Essa funziona come quella recinzione blandamente elettrificata che serve ad impedire alle mucche di sconfinare dal prato assegnatogli, mentre per le persone morali il limite non è quel filo elettrificato, ma l’imperativo morale. E di esso bisogna ricercare il fondamento.
Se si è religiosi, si pensa che le norme morali siano state dettate da Dio. Se non si è religiosi, o si obbedisce ad un impulso di cui non si conosce la motivazione (è questo il senso di “categorico”, quando Kant parla di “imperativo categorico” della morale), o si arriva alla conclusione che la morale non ha nessun fondamento. E dunque “tutto è permesso”. Naturalmente correndo i rischi che ha corso Manson.
In realtà non è vero che “tutto è permesso”. Il controllo e il giudizio vicendevole degli esseri umani è non soltanto severo per le azioni più importanti, ma è costante e a volte spietato anche per le cose minime. Per cominciare, quanto più ci si frequenta – in famiglia, fra gli amici, o sul lavoro – tanto più sono presi in considerazione e giudicati i particolari più minuti del comportamento di ognuno. Al punto che poi, per non fare cattiva figura, ci si chiede: il cucchiaino per il dolce va posto col manico a destra o col manico a sinistra? Il coltello per il pesce va posto a destra o a sinistra del coltello normale, oppure si deve fornire insieme con la portata di pesce? C’è gente che scrive di queste cose, c’è gente che si informa angosciata, c’è gente che viene criticata perché ha offerto vino bianco in bicchieri da vino rosso. Nessuna norma impone la buona educazione, ma la società la impone con tale severità, che alcuni se ne fanno una sorta di mania. E in conclusione, come suona il detto, “nessuno è un grand’uomo per il suo cameriere”.
Se si vuole essere stimati bisogna obbedire a molte regole. Essere sempre corretti, cortesi, affidabili, disponibili. Onesti fino allo scrupolo e se possibile anche generosi. Non solo nella società non c’è posto per persone come Manson ma non ce n’è neppure per gli arroganti, gli egoisti, i maleducati, i ladruncoli e gli imbroglioncelli. Alla lunga tutti costoro pagano pegno.
Naturalmente ci sono molti che la fanno franca. Si può essere sgarbati e non per questo finire in carcere o licenziati. Si può essere arroganti e riuscire a sopravvivere ma – si veda il caso di Matteo Renzi – pur non avendo commesso nessun reato, si può suscitare una tale avversione da doverne poi pagare le conseguenze. A volte tutt’altro che irrilevanti.
La conclusione è che, razionalmente, la base della moralità è il vantaggio che essa offre a chi la osserva. Chi si comporta bene è stimato e amato da tutti, e questo è un incommensurabile vantaggio. Significa avere amici, essere accolti col sorriso dovunque si vada, e avere la vita facilitata da chi è contento di favorirvi. Inoltre, comportandosi così, si fa un piacere agli altri, sicché aveva ragione Jeremy Bentham, il padre dell’ “utilitarismo”, quando sosteneva che il bene è “la maggior felicità del maggior numero”.
Sembrerà paradossale, ma il primo fondamento della morale è l’egoismo.
Gianni Pardo, giannipardo@libero.it
23 novembre 2017

MANSON E IL FONDAMENTO DELLA MORALEultima modifica: 2017-11-22T14:33:11+01:00da gianni.pardo
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