IL RISCHIO DI CHIAMARSI MATTEO

Matteo Salvini non è simpatico e non è neanche bello Ha un viso tondo e paffuto, non ha mento, ha una barba che lo imbruttisce e gli dà un’aria sporca. Ora qualcuno potrebbe osservare che questi rilievi sul suo aspetto sono del tutto fuor di luogo. Uno strumento chirurgico, un’arma, un asciugacapelli non vanno valutati per il loro aspetto, ma per la capacità di assolvere la loro funzione. E l’osservazione è giusta. Anzi proprio quella che speravo di vedermi fare. Perché essa corrisponde a dire che si può perdonare l’aspetto, ma non l’essere antipatico. Cosa che infatti, nella difesa, non è menzionata.
L’obiezione giusta avrebbe dovuto essere che un grande politico ha soltanto il dovere di essere un grande politico. Ché anzi, se il non essere simpatico fosse funzionale al risultato che si vuole ottenere, essere simpatico sarebbe un difetto.
Abbiamo un buon esempio sotto gli occhi: Donald Trump. L’attuale Presidente degli Stati Uniti è stato accolto da moltissimi, anche all’estero, con la stessa apertura e benevolenza con cui la sinistra italiana ha accolto Silvio Berlusconi. Ma “The Donald”, come lo chiamano, non è un milanesone, di quelli che accolgono il prossimo a braccia aperte. È stato eletto in odio ad un certo strato della società, e di questa ostilità si è fatto una bandiera, dimostrando di essere impermeabile alla paura e insensibile all’ostilità. Anche nella politica internazionale ha ripudiato la maestà e la prudenza che tutti hanno reputato doverosa nel sovrano laico di Washington. All’occasione si è comportato con gli stessi metodi brutali del mondo degli affari. È stato aggressivo, contraddittorio, imprevedibile, “matto”, in una parola, in modo da non dare agli avversari nemmeno il vantaggio di apparire, loro, matti e pericolosi. In questo senso la sua stretta di mano all’ultimo dei Kim, una dinastia di giocatori di poker dediti al bluff, era, più che stupefacente, inevitabile.
Un grande uomo di Stato non sempre migliorerebbe il bon ton di un salotto borghese. È un guerriero, non un cortigiano. Cortigiani possono essere quelli che gli stanno intorno, non lui. Dunque parlargli di regole, di moderazione e di diplomazia è parlare a un sordo. Ovviamente in privato è un galantuomo che non farebbe male a una mosca e paga le tasse fino all’ultimo centesimo. Ma quando si tratta di dirigere lo Stato ha una sola religione: l’interesse della sua patria. Per esso non solo calpesterebbe tutti e quattro i codici, ma passerebbe sul cadavere di sua madre. Ecco perché il processo di Norimberga è stato criticabile: si è giudicata una guerra mondiale con la mentalità del tempo di pace. I gerarchi andavano condannati per i crimini contro l’umanità, non per avere lanciato “una guerra d’aggressione”. Perché di questo crimine, se tale è, si sono resi colpevoli un bel po’ di grandi della storia, da Alessandro il Macedone a Giulio Cesare, da Hernán Cortés a Napoleone. Dei vincitori si ricordano le vittorie, non gli illeciti. Cesare, varcando il Rubicone, si rese colpevole di un reato passibile di pena di morte, ma non molti lo ricordano.
E così si arriva a Salvini. Ovviamente è incomparabile con i giganti appena menzionati, ma lo stile è simile. Lui fa spesso la prima mossa, quella che costringe tutti gli altri a giocare in difesa. Nella faccenda della nave Aquarius gli altri hanno parlato di principi morali e di trattati, ma l’uomo d’azione si cura delle anime belle quanto un allevatore di maiali dell’opinione dei vegani. I giuristi si sono divisi – perché la sua mossa è probabilmente più coraggiosa che illegittima – e comunque gli altri Stati si son dovuti chiedere: “Che dobbiamo fare, se costui mantiene la sua posizione? Per caso ci conviene dichiarare di essere stati, ‘da sempre’, d’accordo con lui?”
Da mesi Salvini si mostra più furbo e spregiudicato di tutti. Cerca di togliere la sedia da sotto il sedere di Berlusconi, ma se lo tiene buono sia per non distruggere Forza Italia (nella speranza di ereditarla) sia per poter eventualmente tornare nella coalizione, nel caso volesse lasciare il governo. Poi, come se non bastasse, ha chiesto per sé il Ministero dell’Interno, che non ha in programma le più costose riforme contenute nel “Contratto”, e così è riuscito a fare la voce grossa a costo zero. In un paio di settimane si è reso protagonista in campo nazionale ed europeo, mentre il suo collega Di Maio rimarrà impantanato in problemi costosi e irresolubili come quello dell’Ilva di Taranto, per non parlare delle altre riforme impossibili promesse dal suo partito. E infatti sembra spento, in confronto a lui. Né ha prospettive rosee, perché si è assunto un compito che nessuno – né lui, né Salvini e nemmeno Ercole – potrebbe portare a buon fine.
Matteo Salvini ha dei punti in comune con l’altro Matteo, Renzi, e già lo batte in antipatia. Rimane soltanto da sperare che, come lui, non esageri fino a provocare la vendetta degli dei. Non bisognerebbe mai dimenticare che la folla perdona tutto ai vincitori, ma non ha nessuna pietà di chi è sconfitto. Chiamarsi Matteo non è rischio dappoco.
Gianni Pardo, giannipardo@libero.it
giugno 2018

IL RISCHIO DI CHIAMARSI MATTEOultima modifica: 2018-06-16T08:05:35+02:00da gianni.pardo
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3 pensieri su “IL RISCHIO DI CHIAMARSI MATTEO

  1. a me Salvini non è affatto antipatico,
    non capisco perchè ce l’abbia tanto con lui…
    Forse perchè ha abbandonato Berlusconi??

  2. È strano che lei non si accorga che le lodi provenienti da qualcuno che giudica antipatica la persona di cui si parla hanno un valore maggiore delle altre.
    Se a lei Salvini fosse stato antipatico, e a me simpatico, e ne avessi detto bene, siamo sicuri che non mi avrebbe accusato di dirne bene soltanto perché mi era simpatico, perché apparteneva al mio partito (quale?) o per qualche altro motivo poco commendevole?

  3. ” L’attuale Presidente degli Stati Uniti è stato accolto da moltissimi, anche all’estero, con la stessa apertura e benevolenza con cui la sinistra italiana ha accolto Silvio Berlusconi.”
    E ciò probabilmente l’ha influenzata, tanto da non aver mai trovato niente da ridire sull’operato di Trump. Eppure le occasioni non sono mancate. Pensiamo a come Trump ha gestito la questione coreana. Prima ha minacciato fuoco e fiamme , pardon, fuoco e furia, poi, visto che Rocket Man non s’impressionava, gli ha concesso un incontro senza ottenere nulla in cambio. Un comportamento che potrebbe indurre gli avversari a considerarlo una tigre di carta, con i rischi che un convincimento simile porta con sé.
    https://shareblue.com/north-korea-summit-intelligence-report/

    Per non parlare dei dazi. Un accordo con l’UE non sarebbe stato difficile da trovare e avrebbe consentito di fare fronte comune contro la Cina . Invece ha preferito trattare tutti a pesci in faccia col risultato di spingere l’UE a schierarsi a fianco della Cina.

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