UN PROVINCIALE A NEW YORK

Oggi due possibilità di lettura: un paio di barzellette  (dopo questo articolo) per chi ha poco tempo e una relazione di viaggio perché di tempo ne ha da perdere.

UN PROVINCIALE A NEW YORK
New York è una città che va digerita, nel senso che la quantità di stimoli che subisce il visitatore è tale che ci vuole un certo tempo, per venirne a capo. Solo dopo, riordinando le idee, si riesce a fare un inventario.
Una delle prime cose che colpiscono è il rumore. La città è estremamente sonora e lo si capisce pensando alla quantità di furgoni, di automobili e di taxi che rendono giallo il panorama delle strade: ma c’è una seconda ragione. Dinanzi a questo problema insolubile si direbbe che gli abitanti si siano rassegnati e non provino neanche a limitare i danni. Gli autocarri sembrano non avere silenziatore, nel senso che già a folle fanno un gran baccano; e poi, quando accelerano per ripartire, è la fine del mondo. Né gli autobus sono da meno: hanno dei motori da fare concorrenza a un quadrigetto e quando questi mezzi sono più d’uno, e scatta il verde, il frastuono è indescrivibile.
Manhattan è così rumorosa che alla fine nessuno fa caso al livello sonoro e nessuno tende a limitarlo. Tutti gridano o quasi invece di parlare e questo si chiama vita normale. Si vedono cartelli, vicino a certi grandi palazzi, che pregano di non fumare a meno di quindici metri da quell’ingresso, talmente la fobia del fumo è divenuta pressante: ma la stessa città che si preoccupa tanto per i polmoni dei suoi cittadini sembra poi ignorare del tutto, anche di notte, che quegli stessi cittadini hanno delle orecchie.
Le leggende sul rapporto malato dei nuovaiorchesi con la temperatura non sono leggende: sono realtà. Entrati in un locale pubblico si è assaliti da un’aria calda soffocante: non è un’impressione personale, il termometro segna realmente venticinque-ventisei gradi e la temperatura non è regolabile. Mosè ha detto che deve essere quella. Anche al ritorno nella stanza d’albergo si è costretti a spogliarsi in tutta fretta e a dormire col solo lenzuolo. E con la finestra aperta. Alla fine di novembre. In compenso, in estate l’aria condizionata è tenuta a livelli polari. Insomma all’aperto in inverno, e in estate al chiuso, bisogna vestirsi con abiti pesanti e caldi, all’aperto in estate, e in inverno al chiuso, bisogna invece vestirsi con abiti leggeri, o ancora meglio farne a meno.
Il bagno dell’albergo è ottimo a due uniche condizioni: che si dimentichi l’abitudine di usare il bidet – questa lasciva invenzione francese – e che si stia attenti a non farsi lessare dall’acqua calda. Mosè sul Sinai ha sentito che dev’essere a ottanta gradi o giù di lì.
Come ci si nutre a New York? Facilmente. Non solo si incontrano dappertutto carrettini che permettono snack e spuntini, ma i caffè offrono moltissimo: basta non avere preoccupazioni per la spesa e per ciò che ne penserà la bilancia di casa. In generale il cibo è buono e soprattutto non è il caso di dire male della pizza. Ne esistono infinite varietà, per ogni gusto, e se ne può comprare una fetta senza formalità. Le avessimo in Italia! La pizza noi l’abbiamo creata, loro l’hanno resa facile, varia, appetitosa e ben condita. Tanto di cappello. Se vivessi a New York, sarei un cliente affezionato.
I nuovaiorchesi sono più gentili e disposti ad aiutare di quanto ci si sarebbe potuto aspettare. Molto più facilmente di come potrebbe avvenire a Parigi, se uno è smarrito o guarda una mappa della città si vede avvicinare da persone che chiedono dove si vuole andare. E questa cortesia si estende anche ai concittadini: si direbbe che tutti tengano moltissimo a non dare fastidi per non averne. Forse dipende dal fatto che la città è immensa e si vive a contatto di gomito col prossimo. Un minimo di gentilezza diviene condizione di sopravvivenza. E a volte anche un’ottima tecnica commerciale: siamo entrati, vestiti da turisti poveri, nel negozio di Tiffany e invece di essere trattati come cani in chiesa ci siamo sentiti ringraziare quando, fatto un giro fra i banconi, ci siamo avviati verso l’uscita. Chapeau.
Gli stessi autisti degli autobus sono un buon esempio. Diversamente che da noi non si spazientiscono se qualcuno, salito sull’autobus, chiede informazioni, se perde tempo per trovare l’inevitabile tessera con cui “pagare” il biglietto o addirittura arriva correndo e chiede di entrare anche dopo che la porta è stata chiusa. L’autista, paziente, attende e poi riapre. La stranissima sensazione è che gli autobus di New York siano al servizio del pubblico. L’unica cosa che non è tollerata è che si stia nella parte anteriore dell’autobus, accanto all’autista. Stay behind the white line, state dietro la linea bianca, se no l’autista vi morde.
Gli americani parlano fra loro e, come è evidente, si capiscono. La cosa suscita un’intensa meraviglia in chi parla inglese. Infatti a me è successo di parlare, di essere capito e poi di non capire la risposta che mi veniva data. Per quella che è la mia esperienza, l’inglese è una lingua che va da Londra a New York ma non riesce a tornare indietro. Bisogna imparare che forisecon significa quarantaduesima strada e ueraiuuonnagou dove volete andare. Io sono riuscito a non capire la parola “milk”, per come l’ha pronunziata un commesso. Chissà, forse in un’altra vita studierò l’americano: per ora sono fermo all’inglese.
I giornali dicono che l’obesità in America è divenuta “a plague”, un flagello biblico: “I costi della sanità aumentano perché aumenta il giro vita degli americani”. La quantità di persone sovrappeso è in effetti impressionante: uomini simili al simbolo della Michelin, donne debordanti, anche giovani, nere soprattutto, dalle cosce come barilotti di birra, che portano in giro con fatica gli infiniti pound della loro persona con supremo sprezzo del loro aspetto e, perché no? della loro appetibilità. Uno le guarda e spera che le cuciture dei vestiti reggano e che quelle membra malamente compresse non esplodano. Sperando soprattutto che non vengano a sedersi accanto a noi, visto che le poverine occupano un posto e mezzo. A New York un obeso può perdere i suoi complessi oppure, vinto dal disgusto, intraprendere una volta per tutte la strada di migliori abitudini alimentari.
Manhattan è meravigliosa. Non è una città con qualche grattacielo per fare qualche fotografia: è una selva di grattacieli in un oceano di strade, per centinaia e centinaia di metri, anzi per chilometri e chilometri. Camminando instancabilmente, su un eterno cammino di San Giacomo di Compostela, si vive immersi in una tempesta di luci, di persone, di negozi, di traffico, di rumori. Si parte preparati a vedere le meraviglie della Quinta Avenue, con i suoi negozi di lusso, e poi si scopre che strade come la Quinta Avenue ce ne sono molte, anche dove uno non se le aspetta. La città è grande ed è spesso così distinta che si ha la sensazione di essere nel vero centro , per poi scoprire che di “veri centri” ce n’è un altro e un altro ancora. New York è talmente metropoli che, alla fine, si ha la sensazione che qualunque altra città sia provinciale e potrebbe essere contenuta in essa come qualunque chiesa potrebbe essere contenuta entro San Pietro in Roma.
E tuttavia questa immensa macchina accoglie il visitatore con la stessa benevola indifferenza con cui tratta i suoi innumerevoli abitanti. Il traffico corre veloce, senza incidenti e senza ingorghi, anche perché usare l’automobile – che molti neppure posseggono – è insieme inutile ed economicamente rovinoso. A Midtown mezz’ora di parcheggio costa sugli otto euro e un abbonamento alla metropolitana rende la macchina inutile. Addirittura, quando c’è uno spazio per parcheggiare i nuovaiorchesi ci installano dei “ponti”, come quelli delle officine, per mettere i veicoli su due strati. Manca poco che le tengano appese a grappoli. Ed ecco che i marciapiedi, larghi come strade, sono continuamente invasi da una folla in movimento: gli Stati Uniti con la Ford T hanno creato l’uomo a quattro ruote, e la loro capitale economica va a piedi. Se uno, chiesta un’informazione, si appresta a prendere un autobus, viene guardato con sorpresa: “Ma sono solo cinque isolati!”, meno d’un chilometro, un nulla, per questi maratoneti professionisti.
Se si vuole, si possono trovare ambienti diversi senza uscire da questa isola. Lo sterminato Central Park ridà il sentimento della natura, Chinatown quello di una città di un altro continente. Caratterizzata da un diverso grado di pulizia, da un ben diverso tipo di negozi e soprattutto da odori diversi e forti. Quando se ne esce, si può anche essere contenti di essere tornati in America. Viceversa Little Italy a momenti non esiste più. O è Very Little, o più semplicemente è divenuta anch’essa Chinatown.
Di italiano si può facilmente avere un espresso, ma non è detto che sia preferibile al caffè americano. Per chi ama i long drink, e in particolare per chi è già un abituale consumatore di tè, il caffè americano è una bevanda lunga, calda, saporita, corroborante, una consolazione e una compagnia. Che lo si beva in bicchieroni di carta col coperchio di plastica e una cannuccia è solo un particolare secondario: di fatto lascia un bel ricordo e il rimpianto di non poterlo ordinare in Italia.
La polizia a New York è onnipresente. La sensazione di sicurezza che si ha deriva anche dalla coscienza della costante presenza degli “uomini in blu” che, malgrado il loro frequente sovrappeso, la loro aria stracca, la loro cintura appesantita da pistola, manette, radio e chissà che altro ancora, sono chiaramente lì per ogni evenienza. Un giorno, vicino Battery Park (l’estremo sud dell’isola di Manhattan) abbiamo visto una fila di auto della polizia accostate al marciapiede. Dieci? Venti? Trenta? Ad un ufficiale che passava ho osato chiedere: “Ma scusi, che fanno tutte queste auto qui?” La risposta mi ha sorpreso. Infatti l’omone mi ha gentilmente detto che erano lì per “prevenire il terrorismo, proteggere la città e tutti i cittadini…” Trattenendomi dal ridere gli ho ribattuto che questo lo sapevo, ma perché erano tutti proprio lì? Perché, mi spiegò finalmente, attendevano di sapere dove sarebbero dovuti andare a prendere servizio. Ma è interessante che gli sia venuta in mente, per prima cosa, la funzione ideale della polizia.
Come si sa, i turisti, soprattutto da quando dispongono delle macchine digitali, scattano centinaia di fotografie. C’è gente che il mondo lo vede sul retro delle fotocamere. Ma c’è un solo posto di cui non si possono avere immagini: un’aula di giustizia. Per questo, stanco degli infiniti processi filmistici e televisivi, ho voluto vederne uno di presenza. E finalmente, dopo molti equivoci parlando di Hall of justice, Court House, Tribunal, ho saputo che avrei dovuto chiedere della Criminal Court e sono atterrato al numero 100 di Center Street. Qui, quando ho detto all’ingresso che volevo vedere un processo, mi è stato detto con un sorriso: “Niente di più facile”. Quasi dicesse: “Si comporti male e ne vedrà uno”. Così sono stato indirizzato ad un’aula in cui i processi, forse per ubriachezza molesta o per furtarelli, duravano cinque minuti. Non c’era giuria, la giudice decideva in fretta, e il tutto avveniva a voce bassissima. Non ho sentito una parola ma non mi sono dispiaciuto perché, tanto, non l’avrei capita.
Poi ho chiesto a destra e a manca di vedere un’aula “vera”, con i giurati e tutto e, per fortuna, sono stato capito. Jurors? Trial? Undicesimo piano. All’undicesimo piano siamo finalmente entrati nel telefilm. Pardon, nell’aula di giustizia. Anche qui, un giudice donna, ma ecco i sedici giurati, silenziosi come statue, sulla destra; un accusatore dalla voce inaudibile; un nero come parte lesa seduto nel box dei testimoni, alla sinistra della giudice; un avvocato difensore che non apriva bocca e tutto andava avanti lentissimamente. Venivano mostrate diapositive delle ferite e l’arma del delitto, il nero rispondeva alle domande e tutto pareva irreale a forza d’essere placido, noioso, lentissimo. Decisamente i tempi della giustizia vera non sono quelli dei telefilm. Alla fine, considerando che mia moglie è una beata, ma non ancora una santa, ho rinunziato a vedere il seguito. Eravamo arrivati che si interrogava il nero, ce ne siamo andati parecchi minuti dopo che si interrogava ancora il nero. Ma avevamo visto la Criminal Court e non potevamo chiedere di più, Vostro Onore.
New York in conclusione è una città indimenticabile. Se Roma è stata per secoli l’urbs, la città per antonomasia, oggi la city per antonomasia è New York. Anche metropoli sterminate e popolosissime non possono farle concorrenza, in questo campo. La Grande Mela non è bella come Praga, non è gloriosa come Roma, non ha il fascino misterioso e ammaliatore di Istanbul, ma incanta con la sua grandiosa e mite potenza. New York è troppo grande per essere impressionata da chicchessia. Essendo un granello indistinto di quella grande spiaggia, si è a casa propria quanto gli altri. La metropoli mette sullo stesso livello tutti, americani e stranieri, ricchi e poveri, bianchi e neri, uomini e donne. Si è solo esseri umani, tutti.
Se già amavo e stimavo gli Stati Uniti, oggi li stimo e li amo ancora di più. Perché è il posto in cui la libertà del singolo è rispettata al massimo livello: al livello dell’indifferenza. Si può passeggiare per Madison o Park Avenue con la tranquilla coscienza di essere “invisibili” come lo si sarebbe in un bosco: noi possiamo guardare il cielo e gli alberi e gli arbusti, ma meglio non farsi illusioni. Né il cielo, né gli alberi, né gli arbusti guarderanno noi.
New York è una città in cui la folla può anche chiamarsi serena solitudine. È l’ideale per chi ama il prossimo come massa lontana che si fa i fatti suoi. Per questo non vorrei vivere a Brooklyn, che pure è a un passo, anzi un ponte, di distanza. Brooklyn è una città come ne abbiamo in Europa. Solo Manhattan è veramente speciale, come lo è, in un’altra, meravigliosa direzione quel miracolo che chiamano Venezia.

Gianni Pardo, 23 novembre 2009
giannipardo@libero.it

UN PROVINCIALE A NEW YORKultima modifica: 2009-11-23T14:27:00+01:00da gianni.pardo
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