ANCHE TU SEI UN FALLITO

Che cosa dobbiamo pensare di coloro che hanno avuto successo, sono migliori di noi?
Un errore fondamentale, per quanto riguarda la conquista del successo, è l’illusione che esso dipenda esclusivamente dalle qualità specifiche. Chi legge la biografia dei grandi vede invece che spesso la vita ha fatto di tutto per scoraggiarli: se sono riusciti è tanto a causa del loro genio che della loro tenacia. Alcuni scrittori sono divenuti celebri con un libro prima rifiutato da decine di editori. Di famiglia agiata, Molière visse per anni da capocomico di un’infima compagnia inseguita dalla fame. Se nascesse un secondo Molière, non diverrebbe famoso se non avesse anche la testardaggine, il coraggio, la capacità di sopportazione del primo.
È raro che il successo sia gratuito. Chi arriva in alto ha sicuramente qualità naturali, ma normalmente ha faticato più di altri, si è impegnato più di altri, ha sofferto più di altri. Salvo essere risolutamente favoriti dalla sorte. In Italia per esempio non si diviene professori d’università perché particolarmente competenti in una materia. La qualità fondamentale è una parentela quanto più è possibile stretta con qualche importante professore. Poi, se si ha qualche competenza, è anche meglio.
Questo è un buon esempio per sottolineare che le regole del gioco, per il successo, non sono quelle teoriche ma quelle concrete. Per divenire primario ospedaliero non è necessario essere un ottimo medico: la raccomandazione di un politico è migliore di un attestato di Harvard.
Visto che si parla di politica: qui più della competenza tecnica vale la capacità di dissimulare, di promettere senza mantenere, di tradire gli amici, di favorire solo chi  può essere utile, di vincere in una lotta senza preoccupazioni etiche e senza esclusione di colpi. Tutto questo fa schifo? Bene, non ci si impegni in politica. Ma non si dica: “Io al suo posto farei molto meglio”.
Lo stesso per la ricchezza. Inutile dire: “Se quel tale è divenuto miliardario, è segno che è un disonesto. Io sono migliore di lui”. Perché, ammesso che si divenga miliardari essendo disonesti, forse che tutti i disonesti divengono miliardari? E forse che noi abbiamo avuto l’occasione di divenirlo e l’abbiamo rifiutata? Suvvia.
Fra l’altro, se si divenisse miliardari solo essendo insieme geniali e disonesti, è ovvio che chi mancasse della disonestà mancherebbe di una qualità essenziale. Dunque non si dovrebbe mai dire: “Ah, se solo avessi voluto”.
Nessuno è autorizzato a sminuire il successo altrui con un giudizio morale, perché spesso il successo si ottiene con metodi non morali. Né sappiamo come ci saremmo comportati noi, avendone l’occasione. Non possiamo dire: “Sono migliore di lui proprio nel suo campo”, perché, anche ad essere vero,  può darsi che ci siano mancate le qualità secondarie e tuttavia essenziali: l’ambizione, la pazienza, la tenacia, l’umiltà. Non possiamo sminuire il successo altrui sostenendo che “saremmo stati capaci di fare altrettanto”, perché questo troppo spesso non è vero. Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Soprattutto non è vero che saremmo stati capaci di fare altrettanto se fossimo stati disposti a sporcarci le mani: perché di persone disposte a sporcarsi le mani ce ne sono legioni e non tutte arrivano al successo.
Questa storia dello “sporcarsi le mani” è fastidiosa. Totò Riina le mani se le è sporcate più di tutti, e di sangue per giunta: ma non è per questo che è divenuto il capo. Non basta essere disposti a delinquere e ad uccidere: queste “qualità” le hanno in molti. Per giungere al livello di Riina bisogna essere uomini superiori alla media. È un peccato che un simile individuo si sia dedicato al male.
Non basta avere le qualità teoriche, non bastano le qualità secondarie, non basta sporcarsi le mani, è necessaria la combinazione di questi elementi, ai massimi livelli, richiesta in concreto.
Alcuni dicono comunque: “Io non mi levo il cappello dinanzi a nessuno. Ho fatto la vita che volevo fare. Non sono un fallito”. Il cappello, a dire il vero, dobbiamo essere pronti a togliercelo. Forse non ci sogneremmo di scalare nemmeno una collina ma dobbiamo lo stesso ammirare Reinhold Messner: è un essere eccezionale. Quanto al successo privato, esso  può essere costituito da una vita serena e allietata dagli affetti, ma la società non dichiara “uomo di successo” chi è amato dal coniuge e dai figli. Dunque bisogna dire: “Socialmente sono un fallito ma sono felice e dunque non cambierei il mio posto con nessuno”. Senza andare oltre.
E qui arriviamo a ciò che fa scorrere fiumi di saliva. Quando dico di essere un fallito, tutti mi saltano addosso, ripetendomi quanto io sia stimato, quanto affetto abbia raccolto, quanto di magnifico avrei potuto fare se solo avessi voluto, ecc. E queste cose non mi sono dette per consolarmi ma per darmi del cretino. In realtà, parlare delle “grandi cose che avrei potuto fare” non ha senso. Se non ho avuto l’ambizione, la forza, la costanza, la pazienza necessarie, è segno che mi mancavano proprio le qualità per fare quelle grandi cose.
Ma non c’è verso. Prevale la teoria che si può così riassumere: “Se Berlusconi è ricco, chissà che imbrogli ha fatto. Per questo io, che sono una persona per bene, rifiuto di riconoscerlo superiore a me”. Perfino in economia.
Temo gli amici si intestardiscano a dichiarare che io non sono un fallito per non dover riconoscere che lo sono anche loro.
Gianni Pardo, giannipardo@libero.it
28 gennaio 2010

ANCHE TU SEI UN FALLITOultima modifica: 2010-01-29T10:01:48+01:00da gianni.pardo
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9 pensieri su “ANCHE TU SEI UN FALLITO

  1. Gentilissimo G. Pardo: probabilmente la gente reagisce alla sua affermazione “io sono un fallito”, perche’ presume che chi dice cio’ sia triste, depresso, mortificato o peggio.

    Lei dice questo in un stato analitico completamente diverso, che i suoi interlocutori non capiscono, da qui nasce uno dei fraintendimenti a cui credo che lei si riferisca.

    Per quanto riguarda il ragionamento “Se tizio e’ ricco, sicuramente ruba”, e’ molto comune. E’ semplicemente una reazione per mascherare l’invidia. Io penso che questo atteggiamento si attivi quasi in maniera inconscia, nel senso che queste persone sono veramente convinte che chi e’ ricco sia per forza uno che ha rubato. Chi pensa cosi’ e’ probabilmente quasi in buona fede.

    Io penso che si tratti di un automatismo di autodifesa che accade nelle persone semplici. Se non assumessero questo atteggiamento, si deprimerebbero o sarebbero paralizzate dall’invidia non combinando piu’ nulla. Invece questo modo di ragionare, le porta a sentirsi nel giusto e tornano tranquillamente alle loro attivita’. Dopotutto meglio cosi’…

    MF

  2. perché un uomo normale, partecipe degli eventi del suo tempo, normalmente propenso a lavorare (se trova lavoro), a sposarsi e mettere su famiglia (se trova la persona adatta), etc… dovrebbe chiedersi se è un fallito? Rispetto a quale traguardo?
    Perché tutti dovrebbero sentirsi a disagio se non sono considerati degli “arrivati”? e perché una esistenza “media” dovrebbe evocare lo spauracchio del “fallimento”?
    Orazio non cantava forse l’”aurea mediocritas”?
    A me fanno pena i cosiddetti VIP e non vorrei mai dover vivere le loro giornate così piene di spostamenti continui e presumibilmente defatiganti,(specie ad una certa età), donne/uomini di piacevole contorno e/o di pronto comando, discussioni interminabili di argomento “denaro e potere”, etc… ci vuole un “fisico bestiale” oltre alla “volontà di potenza” ed è impensabile che tutti possano imitarli.
    Allora, conscio che il mondo globalizzato sta andando ineluttabilmente (leggi: a meno dello scoppio della guerra nucleare finale) alla percentuale d’equilibrio 80 vs 20%, cioè 80% futuri “assistiti senza lavoro” e 20% “produttori”, perché dovrei sentirmi “fallito” qualora non solo non rientrassi nella categoria VIP ma neanche nel 20% che deciderà tutto per tutti?
    Una goccia di acqua del mare può sentirsi frustrata in mezzo a miliardi di altre gocce?
    Per evitare frustrazione, invidia, e altri sentimenti poco nobili occorre prepararci consapevolmente al “fallimento” del progetto uomo sulla terra: siamo suscettibili di frustrazione perché siamo stati abituati a considerare l’”individuo” come un valore. Ricerchiamo il “creativo”, colui che si distingue dalla massa e ne facciamo un idolo, perché siamo ciechi e troppo orgogliosi delle potenzialità della specie. Quando l’uomo sarà estinto da milioni di anni su questa palla di fango sperduta nell’universo le uniche creature che si scalderanno al sole saranno le formiche, unici esseri organizzati ad aver capito le leggi della sopravvivenza non dell’individuo ma della specie.

  3. fallisce chi avvia una “impresa” e poi demorde… rinnega se stesso che si ritiene e dichiara d’esser, ad esempio, liberale e poi campa solo in virtù di quello statalismo fatto di sovvenzioni, pensioni baby e fannullatoi pubblici ch’esso stesso vitupera ad ogni piè sospinto.

  4. @ giovanni

    non so cosa intendi per “diventare amico” né se sia una richiesta ironica.
    incontrarti su questo blog, entrambi ospiti del prof. Pardo, mi sembra già una specie d’amicizia se, come me, intendi l’amicizia come una forma di “socializzazione” sincera volta a condividere idee e aspirazioni e, soprattutto, ad ascoltare e meditare quelle degli altri interlocutori. se questo per te è “essere amico” allora sicuramente siamo amici.
    un cordiale saluto

  5. Caro Ferraro, il suo commento mi consola. Ne riporto le frasi essenziali: “Gentilissimo G. Pardo: probabilmente la gente reagisce alla sua affermazione “io sono un fallito”, perche’ presume che chi dice cio’ sia triste, depresso, mortificato o peggio. Lei dice questo in un stato analitico completamente diverso”. Infatti io non mi lamento affatto e sono felice. Vorrei solo che nessuno sminuisse il successo altrui ed io per primo, per questo, mi dichiaro un fallito. Cioè, dal punto di vista sociale, non mi metto sullo stesso piano di chi ha fatto tanto più di me. Poi, perché io non l’abbia fatto, questo di più, non è cosa che cambi il risultato finale.

  6. Per oudé. Perché chiedersi se si è falliti? Non è necessario. Necessario è non mettersi disinvoltamente sullo stesso piano di chi ha avuto più successo di noi e non dire “se solo avessi voluto”. Perché in questo caso sì, si è dei patetici falliti. Viceversa, se uno è contento della propria vita, se è felice, ha veramente avuto l’unico successo che val la pena di avere. Ma deve assolutamente evitare l’invidia e la negazione dei meriti altrui.
    L’aurea mediocritas non deve indurci a crederci gli uguali di Augusto.
    “Per evitare frustrazione, invidia, e altri sentimenti poco nobili occorre prepararci consapevolmente al “fallimento” del progetto uomo sulla terra: siamo suscettibili di frustrazione perché siamo stati abituati a considerare l’”individuo” come un valore”. Queste sono considerazioni filosofiche che posso anche condividere, ma che non annullano il fatto che Messmer sia più bravo di me, come scalatore. E che io lo devo proclamare un uomo eccezionale, nel suo campo.

  7. Il punto, secondo me, è tutta in questa frase:
    “Quando dico di essere un fallito, tutti mi saltano addosso, ripetendomi quanto io sia stimato, quanto affetto abbia raccolto”

    E cioè… siamo quello che pensiamo di essere o siamo ciò che gli altri vedono?
    In soldoni: il successo, il nostro successo, è quello riconosciuto dagli altri o il raggiungimento di un qualsiasi obiettivo che sentiamo intimo, meramente interiore? Anche se legato a qualche azione pratica, reale?
    Il successo, ha bisogno di pubblicità?

    Molti sherpa raggiungono diverse volte nella loro vita vette oltre gli 8000, per noi sono alpinisti anonimi, eppure il successo, a loro modo, è stato raggiunto.
    Un noto alpinista sarà riconosciuto come bravo “nel suo campo” ma si sentirà d’aver ottenuto il successo? Potrebbe ad esempio vivere con i rimorsi per aver trascurato gli affetti.

    Non è che forse, a volte, si tende a confondere la fama con il successo?

  8. Caro ErreBi,
    siamo quello che siamo ma, dal punto di vista del successo sociale, siamo ciò che gli altri vedono. Io, per i miei vicini di casa, sono un perfetto “nessuno”. Non è che possa fermarli per le scale e dir loro a muso duro e a freddo: “Voi non sapete chi sono io!”, solo perché ho una buona opinione di me stesso.
    Lei ha colto il punto: il successo è collegato alla fama, a ciò che gli altri pensano, è un fatto “SOCIALE”. Poi un singolo può essere perfettamente realizzato e felice. Può anche avere un successo “sociale” nell’ambito della propria famiglia e degli amici, ma non credo si possa chiamare questo “successo”, nel senso corrente del termine.
    Le distinzioni essenziali sono fra personale e sociale e tra felicità e successo.

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