VI -LA SOCIETÀ ITALIANA E LA POLITICA – Fine


Mentre la Dc negli anni del suo grande potere coltivò solo l’orto dei suoi interessi, il Pci ebbe la geniale intuizione che la battaglia sociale si vinceva sul campo della cultura. E infatti riuscì a creare il pregiudizio che un vero intellettuale non può che essere di sinistra. Non solo: lo favorì talmente, in quanto tale, che molti intellettuali si scoprirono comunisti.
Il Pci ottenne una completa vittoria. Perfino i bifolchi divennero arroganti: essendo di sinistra, si sentivano per ciò stesso superiori. Del resto non si sapeva? A destra niente intelligenza, niente cultura, solo servi del potere. E questa mentalità penetrò tanto in profondità nel Paese  che anche in seguito, quando la sinistra cominciò a perdere grande parte del suo consenso, il pregiudizio sopravvisse da solo: una società non cambia dall’oggi al domani.
Furono allora gettate le basi per alcune caratteristiche della politica italiana. Dal momento che, col Pci, erano nate speranze millenaristiche e vagamente religiose, si è avuta la tendenza ad una semplificazione manichea della politica. “Chi è contro la sinistra è contro il popolo”. “Chi vota per gli anticomunisti lo fa per interesse”; oppure “Perché è cretino”; o ancora meglio: “Perché è un cretino che crede di fare i suoi interessi”. A chi è contro la sinistra, si è stabilito, non bisogna neanche accordare il diritto di parlare, perché, tanto, non può che dire assurdità. Il mondo è risultato diviso in bianco e nero, senza grigi.
Il fanatismo degli ignoranti è stato anche elevato dai dirigenti politici a prova di nobiltà di ideali, anzi di coraggioso perseguimento del bene. E naturalmente così si è creata una simmetrica posizione di chiusura nel campo opposto, in cui la semplificazione manichea è stata: “Chiunque ma non gli ex comunisti. Sono violenti e antidemocratici”.
Il fossato si è mirabilmente innestato nella tradizionale faziosità italiana. Non solo in Toscana c’erano i guelfi e ghibellini, ma non è che i guelfi fossero d’accordo fra loro, c’erano i bianchi e i neri e Dante era un guelfo bianco. In Italia l’odio per la controparte è stato tale che si è preferito uno straniero invasore (Mosca inclusa) al connazionale avversario. Non altra origine hanno le campagne d’Italia di Carlo VIII e Francesco I.
La regola è sempre stata: il nemico del mio nemico è mio amico, anche se poi il nemico del mio nemico dovesse divenire il mio tiranno.
Molta influenza in questo senso ha avuto la mancata unificazione nazionale. Mentre Spagna, Francia e Inghilterra combattevano guerre di ambito Europeo – e mondiale dopo la scoperta dell’America – l’Italia non era unificata e i suoi scontri somigliavano a guerre civili. Quando non a risse e agguati. In totale noi abbiamo sviluppato una più grande animosità verso il nostro vicino di casa di quanta ne sentiamo per chi è lontano da noi. E anche da questo deriva, almeno in parte, lo strano disprezzo degli italiani per gli italiani e l’Italia. Nelle grandi monarchie il governante era un lontano re, aureolato di maestà anche perché poco noto, da noi il principe era un figlio di buona donna, vicino e ben conosciuto. Uno che cercava di approfittare del potere. Lo spagnolo sentiva lo Stato come “cosa sua”, l’italiano – in particolare nel Sud e nello Stato della Chiesa – considerava il governo “cosa loro”. “Cosa nostra” era solo il complesso degli amici. La mafia.
Ne è conseguito l’individualismo, che porta all’egoismo, che porta alla corruzione. Anche perché – pensa il singolo – un altro che fosse al posto mio lo farebbe: io sono forse più scemo?
Questo conduce ad un’altra caratteristica italiana: la pretesa di essere furbi. Gli italiani non si fidano delle notizie ufficiali. Credono di saperla lunga e si buttano sempre nella soluzione più cinica e delinquenziale. “Se hanno deciso questo, è segno che ci guadagnano”. “È segno che dovevano favorire qualcuno”. “È segno che…” Se uno ipotizza uno scopo decente, si becca l’irrisione: “E tu sei tanto ingenuo da crederci?”
Gli onesti in Italia non sono solo rari: sono inverosimili.
La “dietrologia” funziona anche in campo internazionale e la bassa forza riassume tutta la geopolitica nel petrolio. Perché Bush senior ha liberato il Kuwait? Perché il Kuwait ha il petrolio. Perché Bush figlio ha invaso l’Iraq? Semplice, per appropriarsi del petrolio irakeno. Purtroppo in Afghanistan – anche se alcuni non lo sanno – non c’è petrolio: ma sicuramente ci sarà qualche motivo abietto ed inconfessabile, perché gli americani siano lì. E i soldati italiani dovrebbero essere ritirati, visto che l’Italia non ci guadagna niente. Noi il petrolio lo compriamo a caro prezzo.
La società politica italiana è caratterizzata dal vivere, in buona misura, in un mondo tanto deteriore quanto immaginario.
Fine
Gianni Pardo, giannipardo@libero.it
12 dicembre 2010

VI -LA SOCIETÀ ITALIANA E LA POLITICA – Fineultima modifica: 2010-12-16T10:39:09+01:00da gianni.pardo
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7 pensieri su “VI -LA SOCIETÀ ITALIANA E LA POLITICA – Fine

  1. … E molti comunisti si scoprirono intellettuali.
    Si è dimenticato “l’utile idiota”, Pardo, che ben s’incastrava in questo delirio. Ipocrita – non lei, l’oggetto del discorrere; chiariamo senò poi gente dice – come la puntata n.4 del suo breviario; che, volevo dirle, non può essere scissa dal resto perchè la falsificazione ha l’ipocrisia alla propria base.
    Ciò detto, gli onesti esistono. Io non lo farei solo perchè lo farebbe comunque un altro. Che l’altro s’accomodi, se vuole rubare o fare il furbo in più furbe maniere.
    E ora gli utili idioti arriveranno, a dirle che lei è una persona cattiva. Tronfia finanche, m’azzardo.

  2. Qualcuno ha definito il cinismo “un modo sgradevole di dire la verità”. Cosa che confina con la cattiveria.
    Lei non commetterebbe una disonestà solo perché le è utile. Bene. Vorrei la pensassero tutti come lei. Ma molti si dicono: “Forse in un mondo di persone per bene non lo farei, ma in questo…”
    Insomma, chi sceglie l’onestà, l’orgoglio, ed altre belle qualità, spesso sceglie anche di non fare carriera. È bene che lo sappia in anticipo e non si lamenti del suo stato, dopo. Ha liberamente scelto e nessuna grande virtù sarebbe tale se non costasse cara.
    Anche se, poi, per chi è privo di ambizioni, il prezzo finisce con il non essere affatto alto.

  3. # Anche se, poi, per chi è privo di ambizioni, il prezzo finisce con il non essere affatto alto

    ecco il vero motivo della “virtù” dell’uomo comune: la mancanza di ambizione!
    ma per me vale il contrario: se gli ambiziosi fossero improvvisamente “maggioranza” non ci sarebbe più spazio per i vasi di coccio (o gente comune, come me); la carriera intesa come “parametro del proprio valore” non deve diventare il termine di paragone “assoluto”: il vertice rimarrà sempre uno anche moltiplicando i lati di un solido (una ipotetica piramide “sociale”)
    il bilancio di una vita “felice”, dice Edipo, si fa dopo la morte: prima potrebbero venir preparate dagli dei tali disgrazie che anche i più apparentemente fortunati (leggi, quelli che hanno fatto ambiziosamente una invidiata carriera) potrebbero soccombere rovinosamente

  4. Ammiro ogni giorno di più la capacità di Pardo di inventarsi dal nulla un presupposto e costruirci su un discorso logico.

    E’ vero che il PCI intuì che la battaglia sociale si vinceva con la cultura, ma nn nel senso che dice lui. Il PCI pensava alla cultura delle masse, senza cui esse nn “avrebbero potuto prendere coscienza di sè”.

    Fu per questo che, tra l’altro, ad esempio, nelle case del popolo si insegnava ai contadini a leggere e a scrivere.

    Diceva Gramsci :”La cultura […] è organizzazione, disciplina del proprio io interiore; è presa di possesso della propria personalità, e conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti, i propri doveri.”

    Oppure “…Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza…”.

    Non ricordo quale re Borbone (conservatore?) auspicasse invece, che sarebbe bene che il popolo rimanesse ignorante, non imparasse a leggere e a scrivere affinchè “nn si mettesse troppi grilli per la testa”.

    Se la civiltà si è evoluta grazie ai dubbi sollevati da nuove idee, grazie alla scienza e alle rivoluzioni, come può poi un intellettuale nn essere progressista??? Le vicende di P.P.Pasolini, inoltre, spiegano bene quanto sia sciocco dire che gli intellettuali si scoprivano comunisti per convenienza.

    Ma non c’è bisogno di andare tanto lontano, basta stare ai nostri giorni per vedere quanto la destra rifugga dalla cultura e dagli intellettuali: Saviano, Fo, Monicelli. Oppure inserire nel calederone dei comunisti chi comunista nn lo è mai stato: Montanelli, Biagi, Travaglio.
    Questi ultimi sono stati “adottati” perchè al solito a sinistra non si guarda alla forma, ma alla sostanza. Pertanto non importa che divisa si indossi, ma che idee che si esprimono.

    Da inserire nella Hall of Fame di Pardo la frase secondo cui “gli italiani non si fidano delle notizie ufficiali”. Wikileaks, processo Mills, Previti e Mondadori saranno notizie ufficiose evidentemente, chiacchiere tra comari secondo lui. (Dei gas-oleodotti dell’Afghanistan invece nn ne ha mai sentito parlare).

    Stendiamo un velo pietoso sul discorso della furbizia degli italiani, la stessa che dovrebbe spiegargli il perchè di certi successi elettorali, in manifesta contraddizione col suo commento secondo cui chi è onesto nn ha successo…bha!?!?!

    P.S. Ma nn s’era detto che siamo noi sinistri a parlar male dell’Italia e degli italiani???

  5. Ho liberamente scelto da tempo Gianni. Ho liberamente imparato da genitori retti, e poichè andava bene a loro, e a loro donava il sorriso a fine giornata, ho capito che la via maestra per ardua che fosse era questa. Costerà sacrifici? Pazienza. Un buon gioco non è tale se non fa dolorare i muscoli alla fine; ma lascia il sorriso, a fine partita.
    E’ in QUESTO mondo che non lo farei, e faccio; in un mondo per bene la cosa sarebbe troppo facile. L’ambizione non c’entra nulla.
    Anche perchè, capiamoci: non sono un politico. Non mi serve, per superiori fini comuni, di rubare caramelle ai bambini un giorno si e l’altro pure.

  6. Scusi se mi permetto, ma le ultime righe che ha scritto confermano in realtà il caro vecchio vizio italiano di credere a qualsiasi fesseria, a patto che a dircela sia la nostra parrocchia.
    I comunisti pare che credessero davvero che “allaRRussia” c’era il paradiso dei lavoratori, oggi qualcuno che comunista non lo è mai stato crede ancora che gli Stati Uniti siano andati in Iraq per amore della Democrazia e della Libertà e non per succhiare un bel po’ di oro nero e per far guadagnare un bel po’ di soldi all’industria delle armi e a quella della ricostruzione. (Beh, in realtà una buona dose di carica “ideale” nell’impresa iraqena c’era: legata soprattutto al millennarismo fondamentalista…).
    In Afganistan il petrolio non c’è, ma c’era la necessità di costruire gasdotti, ma di questo si parla raramente.
    Lei dice che «Gli italiani non si fidano delle notizie ufficiali.» Questo non è un difetto, anzi, sarebbe uno dei nostri più grandi pregi, se non ci portasse a credere a ricostruzioni semplicistiche e spesso ottusamente parziali.

    Lo stesso oggi poco meno della età degli italiani crede davvero che la causa di tutti i mali d’Italia sia Berlusconi, e magari preferirebbe un governo tecnico guidato da Mario Draghi, convinti che farebbe meno macelleria sociale di Berlusconi.
    Mentre l’altra metà meno qualcuno crede che sia tutta colpa “del precedente governo” e che tutti i giudici ce l’abbiano con Silvio perché “sono tutti comunisti”.

  7. Caro oude, cari gio,
    è vero, è una fortuna che la maggioranza non sia tremendamente ambiziosa. Anche se lo è già troppo per i miei gusti. Nel senso che l’uomo comune di cui lei parla “si rassegna” ad essere un uomo comune e non capisce che se è saggio e felice, ha toccato il vertice. Dunque spesso il non ambizioso è soltanto qualcuno la cui piccola ambizione è stata frustrata, tanto che l’ha lasciata perdere.
    Il punto è che, giusto o sbagliato che sia, la società ha decretato una volta per tutte che il successo è costituito dal denaro, dal comando, dalla notorietà, e un po’ anche dalla stima universale. Tutte cose che somigliano all’ “avere”, piuttosto che all’ “essere”. Ma è anche vero che l’essere non è dimostrabile, l’avere sì. Dunque se io dico “mi sento migliore di Fini”, e qualcuno mi ride in faccia, è lui che ha ragione. Chi io sia o potrei essere non posso dimostrarlo, chi Fini sia lo ha dimostrato. Né il singolo può opporre al mondo la sua felicità coniugale, la stima degli amici o il piacere che gli dànno i suoi hobby.
    Tutti staremmo meglio se mettessimo il valore “felicità” prima del valore “successo”. Ma questa è una predica inutile. E rischia per giunta di apparire consolatoria per i falliti.

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