LA (DIS)UNITA’ D’ITALIA

Per decenni, finché c’è stata l’Unione Sovietica, il liberale è stato ideologicamente tranquillo. Era facile distinguere gli italiani in persone di buon senso da un lato e ingenui, disinformati, fanatici dall’altro. Questi ultimi erano capaci di ingoiare senza vomitare la propaganda comunista a favore di Stalin e successori. Bastava compatirli. I dirigenti invece, essendo in malafede, andavano disprezzati e condannati. Il quadro era chiaro.
Era pure comprensibile l’animosità dei due gruppi, in particolare l’animosità dei comunisti verso i non comunisti, socialisti inclusi. Essi infatti non si limitavano a sperare che, prevalendo la loro fazione, l’Italia sarebbe migliorata: pensavano che sarebbe stata rivoluzionata. Si aspettavano che si sarebbe aperta un’era di prosperità economica; di giustizia sociale; di solidarietà con i più deboli e i più poveri; di drammatica elevazione del livello di moralità sociale. Una palingenesi che avrebbe reso l’Italia simile a quel Paese felice che era la Russia di Stalin. Come non “odiare” chi, per miopia, si opponeva ad un simile mirabolante progetto?
Il liberale sapeva di vivere in questa Italia. Da un lato era rassegnato a sentirsi disprezzato e odiato dai comunisti, dall’altro rimaneva grato ai parroci, alle beghine, a tutti coloro che per i motivi più diversi impedivano al Pci di conquistare il potere. Era una tale situazione di emergenza che vigeva il principio per il quale “il nemico del mio nemico è mio amico”. Anche se in concreto si aveva l’ansia di poter fare la fine della Cecoslovacchia dopo il 1948, ideologicamente il mondo era comprensibile.
Naturalmente, con l’implosione dell’Unione Sovietica, il quadro generale cambiò completamente. L’Armata Rossa non era più una minaccia, né per l’Ungheria, né per la Cecoslovacchia e neppure per l’Italia. Fu lecito sperare che la follia comunista avesse termine. Finalmente si era tutti d’accordo sul punto che Stalin era stato un orribile dittatore, che il popolo russo era stato miserabile ed oppresso, che l’economia marxista non funzionava. I partiti comunisti si vergognavano perfino del loro nome e fu lecito sperare che in Italia la guerra civile fredda finisse. E fu invece allora che il liberale ebbe la migliore occasione di essere sorpreso.
Colmato il solco che divideva comunismo da anticomunismo, gli italiani se ne inventarono un altro, non meno virulento. Al punto che oggi, pur essendo tutti – a destra come a sinistra – per la democrazia, per l’economia di mercato, per l’attuale modello di società, la nazione è spaccata in due e le due metà si disprezzano, si odiano e si vorrebbero annientare. Qualcuno dice che il discrimine è Silvio Berlusconi, sicché o si è berlusconiani o si è antiberlusconiani: ma se ne può dubitare. Dal momento che un singolo uomo non è sufficiente per dividere il Paese più di quanto non abbiano fatto a suo tempo il Papa e l’Imperatore, c’è da pensare che il Cavaliere sia un pretesto. Se domani scomparisse, le due fazioni rimarrebbero quello che sono – continuando a disprezzarsi, a odiarsi, a volersi annientare – e scomparsa una frontiera ne troverebbero un’altra. Pur di potersi schierare gli uni da un lato e gli altri dall’altro.
La guerra civile fredda italiana non dipende dai guelfi e dai ghibellini, dai bianchi e dai neri, dai Cerchi e dai Donati. E neppure dai berlusconiani e dagli antiberlusconiani. Dipende dal fatto che abbiamo l’irrefrenabile bisogno di odiarci. L’Italia, linguisticamente e culturalmente, ha le sue radici nella Toscana e ancora oggi questa regione è caratterizzata dalla più feroce animosità interna. Meglio un morto in casa che un livornese all’uscio. Il calcio fiorentino, che dovrebbe essere una rappresentazione tradizionale e folcloristica di uno sport che fu, è giocato con furibonda energia e selvaggia aggressività. Del resto l’intera regione è di sinistra forse perché così, dai tempi di Stalin, ha modo di essere contro la maggioranza della nazione.
Sono considerazioni amare e nel contempo consolanti. Il liberale trova una nuova tranquillità ideologica. Un tempo poteva dire che i comunisti avevano torto e gli altri ragione, oggi è salito ad un livello più alto. In Italia non ha importanza chi abbia torto e chi abbia ragione: importante è essere di parere diverso e stabilire, una volta per tutte, che la controparte è in malafede, cretina, interessata e ignobile. Quelli che stanno dall’altra parte meriterebbero la morte e bisognerebbe scendere in piazza per impiccarli tutti ai lampioni.
È veramente un peccato che non si possa. Ma si dovrebbe.
Gianni Pardo, giannipardo@libero.it
17 marzo 2011

LA (DIS)UNITA’ D’ITALIAultima modifica: 2011-03-18T11:43:42+01:00da gianni.pardo
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Un pensiero su “LA (DIS)UNITA’ D’ITALIA

  1. Incredibile, la sua teoria sull’animosità Toscana (e quindi comunista) è basata su una battuta, come di quelle che se ne dicono in ogni regione d’Italia.

    E poi, ragionando con il suo stesso metro verrebbe da pensare che vista la differenza tra la ricchezza della Toscana e la povertà della sua Sicilia sarebbe meglio il comunismo, anzi lo stalinismo.

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