ANCHE IL POPOLO PUO’ SBAGLIARE

In questi giorni si inseguono notizie drammatiche. A Sestri Levante e a Castellammare di Stabia si parla di chiudere stabilimenti della Fincantieri ed è scoppiata una mezza rivoluzione. I dimostranti non intendono ragioni e pretendono di avere rassicurazioni – con data certa – non da parte di “ministri finti” ma di Silvio Berlusconi personalmente. Nel frattempo, attacchi alle istituzioni, violenze e feriti.
A Catania il comune ha deciso di sgomberare un edificio pericolante, occupato da abusivi, ed ha offerto loro altri alloggi. La cosa ha provocato serie proteste. Non solo gli abusivi si sono lamentati dei nuovi appartamenti, ma sono passati alle vie di fatto, con feriti fra le forze dell’ordine. Un prete ha proposto di aprire le case sfitte e darle a chi ne ha bisogno. Nel Veneto infine gli allevatori minacciano di accogliere a schioppettate gli esattori del fisco che si presenteranno a riscuotere le multe per violazione delle quote-latte.
C’è da rimanere sbalorditi: se un gruppo di persone è sufficientemente numeroso, passa dalla difesa dei propri diritti all’attacco di quelli altrui: “Ho un certo interesse e lo Stato deve fare quello che gli ordino. Anche se ho torto. Anche se è contro la legge”. Questo novello Caligola afferma sprezzante: “Si fa così perché lo voglio io. Anche se è sbagliato e anche se è contro la legalità. Sarò pazzo ma sono anche l’imperatore”.
Naturalmente è vero che il licenziamento è drammatico, per non dire tragico, e lo stato d’animo dei dipendenti della Fincantieri è comprensibile. Siamo oppressi dalla disoccupazione e al di là di una certa età la ricerca di un nuovo lavoro è impresa disperata. Come pure è drammatico essere messi fuori da “casa propria” o dover pagare multe salate per illeciti che si reputano dovuti a ragioni di mera sopravvivenza. Ma ciò detto non si possono ignorare alcune verità.
Le vicende di Sestri Levanti e di Castellammare, come prima quella di Pomigliano d’Arco, rispondono alla logica sindacale che un tempo Luciano Lama riassunse col celebre principio per cui il salario è una variabile indipendente. Non importa se la Fiat, la Fincantieri o qualunque impresa operi in condizioni antieconomiche; importa che continui a pagare i salari. La protesta nei confronti dello Stato ha un  senso preciso: se si ammette che l’impresa opera in perdita, ne deriva che lo Stato deve ripianare queste perdite. Qualcuno deve comunque pagare gli stipendi.
Le persone ragionevoli osservano che ciò che i gruppi organizzati pretendono è in netto contrasto con ciò che avviene al singolo lavoratore, licenziato, quando capita, nell’indifferenza generale. Senza scandalo e senza cassa integrazione guadagni. E dunque loro pretendono di essere “più uguali degli altri”. Inoltre i soldi dell’Erario provengono da imposte pagate da altri italiani: e “ogni volta che qualcuno riceva un’utilità che non ha prodotto, c’è qualcuno che NON riceve un’utilità che prodotto”. Ma nulla può scalfire il dogma: il salario è intoccabile. Quegli stessi che hanno predicato l’odio per il datore di lavoro poi fanno la rivoluzione se il padrone vuole chiudere.
La risposta dei lavoratori dovrebbe essere un’altra: se l’impresa rischia di andare in rosso vediamo insieme quali provvedimenti possiamo adottare. Invece per i sindacati questo è compito esclusivo del “padrone”. Come debba fare sono affari suoi. O dello Stato. La Fiom vigila sul rispetto dei diritti dei lavoratori.
Anche l’altro episodio è significativo. Gli abusivi di Catania non solo non temono di essere puniti perché tali, ma si aggrappano ad un fantomatico “diritto alla casa” e sono abbastanza numerosi e violenti per porre un problema di ordine pubblico. Si lamentano addirittura se il Comune non li tratta secondo i loro meriti. Infine il religioso che propone di espropriare le case sfitte dimostra di essere più adatto a guidare un soviet che una parrocchia. Dimentica che se oggi ci sono case sfitte è perché lo Stato ha fatto tanto, per gli inquilini, che i proprietari temono, locandole, di perderne per sempre la disponibilità. Persino se l’inquilino non paga il fitto. Del resto per gli alloggi popolari il mancato pagamento della pigione è quasi la regola.
Il singolo che perde il lavoro o la casa è un nessuno che può anche andare al diavolo. Se invece si tratta di un notevole numero di persone, la legge cambia, dimostrando che essa si applica ai deboli e non ai forti, e comunque non a quelli che bloccano le autostrade o attaccano la Prefettura. Tanto, se lo Stato dice di no è solo perché vuole proteggere i padroni e non i lavoratori. Così dicono i delegati della Fiom.
Gianni Pardo, giannipardo@libero.it, pardonuovo.myblog.it
24 maggio 2011

ANCHE IL POPOLO PUO’ SBAGLIAREultima modifica: 2011-05-25T08:55:04+02:00da gianni.pardo
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16 pensieri su “ANCHE IL POPOLO PUO’ SBAGLIARE

  1. “ogni volta che qualcuno riceva un’utilità che non ha prodotto, c’è qualcuno che NON riceve un’utilità che prodotto”.

    L’analisi tralascia (volutamente?) un aspetto chiave:
    perchè lo stato permette alle aziende in regime di cassa integrazione di pagare comunque dividendi agli azionisti (vedi fiat)?
    Questi ricevono un’utilità che non hanno prodotto a discapito invece di coloro i quali “si fanno il mazzo” sulle linee ricevendo 1/20 del reale valore del loro lavoro

  2. 1) Non so se ciò che lei scrive a proposito degli azionisti fiat, e di altri, sia vero.
    2) Nel caso fosse vero, andrebbero soppressi quei dividendi. Il principio per cui ogni volta che qualcuno riceva un’utilità che non ha prodotto, c’è qualcuno che NON riceve un’utilità che prodotto” non conosce eccezioni, nell’ambito del lavoro.
    3) Infine è fantastica l’affermazione per la quale il lavoratore riceve un ventesimo della ricchezza che produce.
    4) In che modo lei calcola “il reale valore del loro lavoro”?

  3. 1) allora prima di scrivere certe cose si informi
    2) non è che è comunista?
    3 – 4) nell’azienda dove lavoro in media ogni operaio “produce” o “lavora” circa 25.000 particolari l’anno. il grezzo costa 120 euro il finito viene rivenduto a 213 euro. calcolando che le macchine assorbono circa 180000 euro l’anno di energia, calcolando i costi logistici, manutenzione ,progettazione ecc.. volendo stare larghi c’è un margine di almeno 700 000 euro netti nelle tasche dell’azienda, più di 1/20 dello stipendio che tocca all’operaio (18000 euro l’anno).

  4. 1) Enrico, mi sto informando con lei. Mi documenti, dunque, per favore. Attenzione: per dimostrare la sua tesi lei deve dimostrare che si tratta di dividendi corrispondenti all’esatto periodo in cui la fabbrica è stata chiusa, e cioè non ha prodotto reddito. Se invece alcuni lavoratori sono in cassa integrazione, ma l’impresa continua a produrre con gli altri, è naturale che il capitale – uno dei quattro fattori della produzione, al pari del lavoro – sia normalmente ricompensato.
    2) Ironia fuor di luogo. La coerenza caso mai è anticomunista. Infatti i comunisti affermavano di operare a favore dei lavoratori, e i lavoratori dei paesi comunisti erano i più poveri e i meno liberi.
    3) Tutte le affermazioni del punto tre sono sue ed io non sono obbligato a crederle. Mi basta dirle che sono inverosimili. E comunque, se il padrone ha questa bella vita, lei perché non fa il padrone, invece del dipendente? O crede che tutti i lavoratori autonomi siano come Agnelli (Gianni) che alla Fiat era importante solo perché figlio di suo padre? E se – per caso – non avesse la capacità di lanciare un’impresa (come non l’ho affatto io, sia detto di passaggio), le ricordo che è meglio non manifestare alcuna forma di frustrazione. Perché sa di invidia. Io sono un incapace in campo industriale e commerciale e considero dunque che chiunque si arricchisca in campo industriale e commerciale ha più diritto di me a quel denaro.
    Parlando seriamente, non potrebbe chiedere a un dirigente della sua impresa, come sono suddivisi i costi della produzione e qual è il margine di guadagno? Poi magari mi dirà perché lei personalmente non è d’accordo. Ma gli vuol fare questa domanda, a nome mio?

  5. “un margine di almeno 700 000 euro netti nelle tasche dell’azienda”. Lei mi stupisce. Parla di 700.000 € di utile per l’azienda, “più di 1/20 dello stipendio che tocca all’operaio (18000 euro l’anno)”, qualunque cosa questo significhi. Ma
    18.000 per venti fa 360.000. Se dunque l’impresa ottenesse quel profitto con un solo operaio, lo stipendio dell’operaio non sarebbe un ventesimo ma poco meno di un quarantesimo di ciò che va all’azienda. Se invece l’impresa ha, poniamo, trenta dipendenti, 18.000 x 30 fa 540.000 e se 540 : 700 = x : 100, il 77% degli introiti va ai lavoratori e il 23% va al datore di lavoro, il quale ha ancora i rimanenti costi, dal momento che, l’ha indicato lei stesso, il lavoro è solo una delle voci.
    Insomma io ho sentito dire che quando la Fiat distribuisce dividendi dell’ordine del 2 o 3% agli azionisti, è grasso che cola. A sentir lei, dovrebbe distribuire dividendi dell’ordine del 2000 %. Capisce perché ho scritto che i suoi calcoli mi sembravano inverosimili?
    Comunque è vero, quando mi lancio in calcoli, mi capita di sbagliare tutto. Se mi dimostra che ho sbagliato non solo lo riconoscerò, ma aggiungerò che la cosa non mi stupisce affatto.

  6. Per dimostrarle quello che dico non mi basterebbe un trattato( comunque c’è qualcuno che lo ha fatto prima di me). Io ho detto “in media ogni operaio “produce” o “lavora” circa 25.000 particolari l’anno” non ho detto che l’azienda produce in totale quel bene. Sempre per mancanza di spazio e purtroppo di tempo non ho precisato che per ogni operaio di lavorazione ce n’è uno di montaggio che produce un valore nettamente inferiore. ecco che il 40esimo di cui lei parla si trasforma nel 20esimo reale.
    infine: il 2% di 10 euro è poco ma il 2% di 1 miliardo è veramente tanto.

    Io non faccio l’imprenditore perchè non ne sarei capace e non ne ho le possibilità. non è negabile però che il salario in italia potrebbe essere più equo. se si passasse da 1/20 a 1/18 magari i padroni sarebbero meno ricchi ma gli operai meno poveri

  7. Insomma lei vuol dire che il padrone guadagna venti volte quello che guadagna l’operaio e se ne lamenta per due ragioni.
    La prima, che questo corrisponde ad un’ingiustizia sociale.
    La seconda, che ciò che guadagna in più il padrone è sottratto al lavoratore.
    Ambedue le affermazioni, a mio parere, sono sbagliate.
    L’economia libera è dominata dall’interesse di ciascuno e l’equilibrio lo raggiunge non quando a lei sembra che si sia finalmente attinta la giustizia sociale, ma quando c’è l’incontro della domanda con l’offerta. Se l’operaio non si sente abbastanza ben pagato cambia posto di lavoro, nell’economia libera. È così che, dal tempo della rivoluzione industriale, i salari degli operai sono molto, molto aumentati. E non per merito dei sindacati, ma, appunto, del gioco della domanda e dell’offerta.
    La seconda affermazione nasce dal pregiudizio che ciò che in più ha uno corrisponde a qualcosa in meno che ha un altro. Questo riconduce alla ricchezza come quantità fissa (se l’ha uno non l’ha un altro), ed è un concetto banale e falso. Inoltre non tiene conto né della ricchezza casuale (il ritrovamento di una pepita d’oro) né della ricchezza che deriva dall’intelligenza (dall’inventore al grande professionista).
    Infine lei dimentica le paghe di certi dirigenti d’azienda che ricevono ben più di venti volte ciò che riceva l’operaio. E questo denaro non gli è regalato, perché glielo pagano gli shareholders, che sarebbero ben contenti di tenerselo. Il fatto è che quel dirigente, ai loro occhi “vale” tutto quel denaro. Pensi a Lee Iacocca che, a suo tempo, ha salvato la Chrysler dal fallimento.
    Infine, mi faccia sorridere concludendo che chi piange sulla paga degli operai, chiedendo che guadagnino di più, condanna l’egoismo del datore di lavoro in nome dell’egoismo dei prestatori d’opera.
    Tu sei egoista se vuoi tenerti il tuo denaro, mentre io voglio il tuo denaro per ragioni di giustizia sociale. Come diceva Dario Fo, ah beh.

  8. Buongiorno.

    mi inserisco nel discorso perchè trovo incredibili i valori che ha riportato, soprattutto a fronte della crisi di questi ultimi anni, (a prima vista penso si siano dimenticate diverse voci che possono rendere il rapporto più vicino alla realtà).
    Sono però molto interessato e curioso quindi volevo chiedere al sig. Enrico se poteva cortesemente inviarmi anche in forma privata (dxt127@libero.it) il nome di questa azienda o almeno il settore commerciale in cui opera.

    Ringrazio in anticipo e porgo i migliori saluti
    Paolo

  9. Non sono tanto incredibili i valori riportati, 1/20 poi è pochissimo, nell’azienda dove lavoro abbiamo calcolato che il rapporto è di 1/45-1/50.
    E, caro Paolo, come ovunque è accaduto, la crisi ha colpito gli operai non certo l’imprenditore, il cui profitto è rimasto immutato.

  10. Enrico ha sottostimato il costo del salario di un operaio, ma a parte questo nulla ha detto sulla struttura dei costi dell’azienda. Basta un esempio : un macchinario del costo di un milione di euro deve essere ammortizzato in cinque anni ( 200.000 euro all’anno ). È evidente che il maggior costo per l’azienda è dovuto all’ammortamento del macchinario e non al salario dell’operaio che vi lavora. Gli esempi portati da Enrico ed Ernesto non hanno
    alcun pregio quando isolati da tutte le altre componenti dei costi. Un altro fattore di cui non si tiene conto è la concorrenza. Quando i margini di guadagno su un prodotto sono molto alti aumenta l’offerta di questi prodotti con l’effetto di calmierare i prezzi e quindi i guadagni. Si chiama libero mercato.

  11. La mano invisibile!
    Strano: in tanti credono alla nocività degli ogm, che non è mai stata dimostrata, e così pochi credono nella mano invisibile, la cui capacità di operare è stata dimostrata. Oltre che logicamente inevitabile.

  12. Caro sig. Ernesto.
    L’azienda in cui lavoro è piccola (8 operatori + 2 dirigenti + 2 titolari) e produce particolari di precisione conto terzi in vari settori commerciali.
    La mia mansione è solo la gestione della parte tecnica ma ovviamente, per il suo svolgimento, devo collaborare con i titolari e con il collega che cura la parte commerciale.
    In tale ambito e per le esperienze maturate in differenti settori (aeronautica, tessile, automotive, difesa) ritengo impossibile un simile rapporto.
    Penso siano stati compiuti degli errori di calcolo o non siano state considerate alcune voci.

    Sono però curioso in quanto un simile guadagno permetterebbe ad una persona con le mie competenze di mettersi in proprio.
    Rinnovo quindi l’invito a lei e al sig. Enrico di inviarmi in forma privata (il mio indirizzo è dxt127@libero.it) se non il nome dell’aziende in cui lavorate almeno il settore commerciale.

    un cordiale saluto
    Paolo

  13. Caro Paolo,
    nell’antica Grecia si raccontava l’aneddoto di un tipo che si vantava di avere fatto, a Rodi, un salto formidabile. Ma veramente grande. Ma veramente eccezionale. Finché gli ascoltatori, spazientiti, gli dissero (conosco la frase solo in latino): “Hic Rhodus, hic salta”. Rodi è qui, ora salta qui. Nel senso di dimostrare in concreto quello che si affermava.
    Quel signore non saltò. E temo che anche lei non avrà risposta.

  14. Il settore dell’azienda è il metalmeccanico. Veicoli industriali.4000 dipendenti solo nel comprensorio dove mi trovo. credo di aver dato abbastanza indizi.
    Le macchine che abbiamo in stabilimento sono per il 95% antecedenti gli anni 80 e quindi ampiamente ammortizzate.

    Per quanto riguarda il gentile ospite: la tecnica tesi-antitesi-sintesi è pregevole ma il punto di partenza è sbagliato. Nella maggior parte dei casi non è l’azienda che non fa più profitto ma è l’azionariato che pretende più dividendi. Non riesco a capire come si possa scrivere intorno a questo argomento ignorando o peggio tralasciando un fattore di questa portata.

  15. Caro Enrico
    lei scrive sul blog di un liberista che vive in un mondo dove: “Se l’operaio non si sente abbastanza ben pagato cambia posto di lavoro, nell’economia libera. È così che, dal tempo della rivoluzione industriale, i salari degli operai sono molto, molto aumentati. E non per merito dei sindacati, ma, appunto, del gioco della domanda e dell’offerta.”
    Nel mondo dei liberisti l’imprenditore è dotato di virtù superiori e vince perchè è il migliore.Il dipendente deve ringraziare il cielo se dal basso delle sue inettitudini ha trovato un donatore di lavoro ed è sempre in tempo a cambiare come e quando vuole. Premettendo che gente realmente in gamba c’è stata e c’è e ha meritato e merita di più, i liberisti amano omettere però che noi NON VIVIAMO affatto in una reale economia libera concorrenziale, che in questo paese difficilmente si vince con le mere qualità imprenditoriali e 18000 euro l’anno per 40 ore settimanali e i costi della vita attuale sono quello che sono…

  16. Sarcasmi a parte – cui non rispondo – tutto il problema si concentra nelle parole: “nell’economia libera”. Riconosco che in Italia potrebbe e dovrebbe essercene di più, libertà economica. Di fatto, la protezione fanatica del posto di lavoro a tempo indeterminato ingessa il mercato, il sistema non funziona più e chi non ha o perde il lavoro rischia la disperazione.
    Ma la cosa non fa cambiare la teoria. E infatti sono più prosperi i Paesi più liberi.

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