LA SINISTRA AL GOVERNO

Ammettiamo che cada il governo e ammettiamo che si vada ad elezioni anticipate. Ammettiamo che vinca il centro-sinistra e che la situazione della crisi economica, in quel momento, non sia diversa dall’attuale: cioè che non sia stata ancora risolta e non sia nemmeno drammaticamente peggiorata. Ammettiamo che l’Europa attenda ancora in quel momento, e con crescente, minacciosa impazienza,  che l’Italia realizzi alcune riforme. Ammettiamo infine che un governo di centro-sinistra si trovi a fronteggiare la crisi come deve fare in questo momento il governo Berlusconi: che avverrebbe?

Se il Pd fosse ancora il Pci avremmo la risposta. Allora i comunisti credevano nell’inevitabile crisi finale del capitalismo: dunque il crollo economico dell’Italia sarebbe stato il risultato scientificamente fatale dello sviluppo storico della società secondo la teoria di Karl Marx. Essi per conseguenza non avrebbero affatto tentato di salvare l’Italia e il suo modello “capitalistico”; non avrebbero parlato – come ha fatto Pierluigi Bersani in piazza S.Giovanni – di “ricostruzione”: avrebbero parlato di rivoluzione, di cambiamento del modulo di produzione, di comunismo.

Ma il Pd, pur se molti dei suoi membri anche ex democristiani hanno mantenuto la mentalità comunista, non è più il Pci. Oggi si può realmente credere alla sua conversione democratica, anche perché la vecchia via si è irrimediabilmente rivelata un vicolo cieco. Il socialismo reale resiste – con la forza, e sempre meno – solo a Cuba e in qualche altro angolo sperduto del mondo. Non certo in Cina. Dunque il Pd dovrebbe effettivamente provare a rimettere l’Italia in piedi senza cambiare modello sociale e senza metterla nei guai in cui si trova la Grecia.

Se oggi si interroga il Pd su ciò che farebbe se fosse al governo, si ottengono le solite giaculatorie – “rilanciare lo sviluppo”, “razionalizzare l’amministrazione dello Stato”, “risanare l’economia”, espressioni prive di un contenuto concreto – oppure soluzioni mitologiche come “combattere l’evasione fiscale”, “tassare i ricchi”, “imporre una patrimoniale”. Se ci si fa caso, queste ultime ricette possono essere tradotte tutte così: “tasse, tasse e tasse”. Un drammatico sintomo di mancanza di idee. 

Con un simile programma, a parte il fatto che il popolo non sarebbe contento (la patrimoniale, in particolare, è puramente e semplicemente una rapina) sembra si dimentichi un principio essenziale della scienza delle finanze: tasse e imposte non sono a costo sociale zero. Se, tanto per fare un’ipotesi, lo Stato raddoppiasse il costo della benzina, la conseguenza non sarebbero soltanto le imprecazioni degli automobilisti. La conseguenza sarebbe in primo luogo che il gettito non si raddoppierebbe, per l’eccellente ragione che si consumerebbe meno carburante, essendo questo carissimo. Poi aumenterebbe il costo (e per conseguenza il prezzo per il consumatore) di tutto ciò che implica uno spostamento sul territorio. E poiché quasi tutti i beni richiedono questa mobilità, in un modo o nell’altro, l’effetto totale sarebbe inflattivo. Invece di risanare l’Italia, si aumenterebbe il disavanzo sul pil, esattamente l’inverso di ciò che richiedono l’Europa e il buon senso.

L’erario sa benissimo che la pecora va tosata, non ammazzata, e in Italia la pressione fiscale è già enorme. Inoltre, dal momento che essa rappresenta un pesante freno allo sviluppo (basta vedere il differenziale tra ciò che il datore di lavoro sborsa e ciò che riceve l’operaio), bisognerebbe piuttosto tendere, all’opposto, a diminuire tasse e imposte. Ciò rilancerebbe l’economia ma purtroppo questa è una cosa che si può ottenere solo diminuendo i servizi e le spese dello Stato. A cominciare da ciò che sborsa per le pensioni. E gli italiani invece dallo Stato si aspettano tutto.

Qui si vede chiaramente la differenza tra operare e criticare. Quando il governo parlava di fare il Ponte sullo Stretto di Messina tutti i critici si affannavano a dire: con quei soldi (dimenticando che per due terzi ce li mettevano i privati) si potrebbe invece fare questa cosa, anzi quest’altra, anzi quest’altra cosa ancora. Almeno una ventina di proposte e in realtà, se se ne fosse accettata una, si sarebbe detto no a tutte le altre. Qualcuno ha detto che “decidere significa ridurre gli errori a uno”.

Se tutto questo è vero, il governo di centro-sinistra si troverebbe dinanzi al dilemma di lasciar affondare l’Italia fino al default – cosa non del tutto improbabile – oppure di attuare tutti quei provvedimenti che fino ad ora ha visto come il fumo negli occhi. Quei provvedimenti che ci ha chiesto l’Europa. Insomma quei provvedimenti che Berlusconi ha tentato di adottare. Ma tu guarda.

Gianni Pardo, giannipardo@libero.it, www.DailyBlog.it

8 novembre 2011

LA SINISTRA AL GOVERNOultima modifica: 2011-11-08T07:57:09+01:00da gianni.pardo
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