“MA È MIO FIGLIO!”

 

In occasione delle disavventure di Umberto Bossi a causa dei figli, qualche giornale è andato a ripescare i tristi episodi che hanno riguardato altri politici per ragioni analoghe. Il caso più tragico è stato quello di Carlo Donat Cattin il cui figlio fu un militante dell’organizzazione terroristica  Prima Linea. Ma la lista è inutile: il fatto è notorio. Gli stessi imperatori romani di solito si associavano da vivi un successore, adottandolo, piuttosto che lasciare il potere a un figlio naturale che non valeva quello scelto. Saggia si è dimostrata pure la Chiesa che, vietando ai sacerdoti di avere figli, ha anche evitato che un Papa fosse figlio di un altro Papa. Rimane comunque da vedere perché tanta gente si sia messa nei guai a causa dei figli e perché in Italia il fenomeno sia ancor più grave che altrove.

Come tutti i primati, ogni uomo ha l’istinto di propagare i propri geni e per questo non è istintivamente monogamo. Tuttavia, questo istinto deve convivere con le necessità di cure parentali le quali, nella nostra specie, sono particolarmente gravose e fisiologicamente destinate a durare finché i figli siano in grado di sopravvivere e riprodursi da soli. Cioè fino alla pubertà. È stato così per milioni di anni, tanto da riuscire ad appaiare maternità e paternità, e a rendere il padre un genitore responsabile quasi quanto la madre.

Le cose si sono molto complicate nella civiltà moderna. Se una volta l’inserimento nella società avveniva naturalmente con la maturazione delle capacità riproduttive e muscolari – cioè prima dei sedici anni – oggi l’inserimento avviene molto più tardi e, nella “buona borghesia” un paio d’anni dopo la laurea. Ciò ha esteso le cure parentali ad un arco di tempo enorme. Una volta presa l’abitudine di considerare i figli sempre figli e sempre bisognosi di aiuto, anche quando hanno oltre venticinque anni, il gradino finale dei doveri è rendergli facile anche l’ultimo sforzo: quello di procurarsi un reddito.

Ecco perché l’infantilizzazione dei figli è in Italia più grave che altrove. Se il mercato lavorativo è favorevole, il giovane può facilmente affrancarsi dai genitori e l’istinto dell’indipendenza può spingerlo a lasciare la casa paterna; viceversa, in una società in cui è difficilissimo trovare un lavoro, è naturale che i genitori attivino risorse finanziarie e relazioni sociali per favorire i figli. Spesso dandosi da fare più dei figli stessi.

Chi ha dovuto farsi posto nella vita senza l’aiuto di nessuno sa che differenza faccia. Il figlio dell’avvocato sarà immensamente più favorito del figlio dell’idraulico che si è laureato in legge. Avviene correntemente che il primo abbia tanto di studio, anche se è un mediocre, mentre il secondo, brillante giurista, cercherà disperatamente di superare il concorso per divenire vigile urbano. Il risultato è quasi il blocco della mobilità sociale, un’ingiustizia patente e tuttavia talmente “umana” che non bisogna dire “io non mi comporterei così”.

Per i genitori i figli sono persone diverse da tutte le altre. Per loro trovano sempre giustificazioni e sperano di portarli almeno al proprio livello. L’avvocato di cui si diceva sarebbe molto deluso di sapere il figlio divenuto impiegato presso uno spedizioniere. Eppure perché mai quel figlio, che è riuscito a stento a divenire geometra in una scuola estremamente generosa di diplomi, dovrebbe meritare una migliore carriera? E tuttavia: “Sarà una nullità ma è mio figlio”.

Gli errori di un Umberto Bossi che cerca disperatamente di negare i limiti di un figlio che non riesce nemmeno a farsi regalare l’esame di Stato sono patetici. È sintomatico che cerchi di dare la colpa di quelle bocciature ai professori o perfino alle mene politiche. Meglio la fantasia dell’universale complotto dei docenti che la realtà dell’impreparazione del rampollo.

Longanesi diceva che sulla bandiera italiana dovremmo scrivere “Ho famiglia”, ed aveva ragione. Ma forse quella scritta andrebbe completata così: “E voi mi capite”. Infatti la retorica nazionale è ben lungi dal predicare il distacco dagli affetti in nome del proprio dovere e del proprio onore. Fra l’altro, se lo facesse, predicherebbe nel deserto.

Bossi si è lasciato guidare dall’istinto e dalle cattive abitudini di un Paese che, in questo campo, è un immenso Meridione, altro che Padania. Per questo, se non possiamo perdonarlo, possiamo almeno capirlo.

Gianni Pardo, giannipardo@libero.it

7 aprile 2012

 

“MA È MIO FIGLIO!”ultima modifica: 2012-04-07T11:16:16+02:00da gianni.pardo
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