CONIGLI E LEONI

Tutti i giornali riportano la notizia: la Cassazione  – con la sentenza n.34992 della Sesta Sezione Penale, presieduta da Nicola Milo – ha condannato a quindici giorni di reclusione una professoressa di Palermo che, per punire un ragazzo di undici anni che si era reso colpevole di gravi atti di bullismo nei confronti di un coetaneo, gli ha imposto di scrivere cento volte “sono un deficiente”. La motivazione è stata scritta dal consigliere Francesco Ippolito. Si dànno tutti questi particolari perché è necessario insistere sulla autenticità della notizia. Infatti di primo acchito è facile pensare: “Ecco dove siamo arrivati, con i giudici di pace!” E invece si tratta della sentenza di un giudice togato. Addirittura della Cassazione. Dunque è chiaro che siamo noi a sbagliarci. La Cassazione non può sbagliare. 

Il reato è quello previsto dall’art.571 del Codice Penale, “Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina”. Eccolo: “Chiunque abusa dei mezzi di correzione o di disciplina in danno di una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito, se dal fatto deriva il pericolo di una malattia nel corpo o nella mente, con la reclusione fino a sei mesi. Se dal fatto deriva una lesione personale, si applicano le pene stabilite negli articoli 582 e 583, ridotte a un terzo; se ne deriva la morte, si applica la reclusione da tre a otto anni”.

La (ri)lettura dell’articolo induce tuttavia a perseverare nell’errore di dissentire dalla Cassazione. Innanzi tutto la denominazione dell’articolo implica che si punisce l’abuso, non l’uso dei mezzi di correzione e di disciplina. Se in pieno inverno un professore di Bolzano, per punire un ragazzo, lo chiude fuori dalla scuola per un’ora, senza cappotto e mentre nevica, è chiaro che il ragazzo rischia – se va bene – di buscarsi un raffreddore. E scatta l’art.571. Si noti che la sua sofferenza non conta, il codice penale non parla di una sofferenza ma del pericolo di una malattia. E per questo sorge più che un dubbio per la sussistenza del reato nel caso di una percossa. Infatti uno schiaffo, salvo essere un manrovescio da staccare la testa, non comporta il rischio di una malattia. Naturalmente è ovvio che, nel caso dello schiaffo, l’Italia intera insorgerebbe come un sol uomo chiedendo la punizione del o della colpevole con poco meno dell’ergastolo. 

E tuttavia l’articolo dimostra benissimo come il legislatore pensasse esclusivamente ad un abuso veramente serio: diversamente non avrebbe fatto l’ipotesi delle lesioni personali (per le quali tuttavia già prevede la diminuzione di un terzo della pena) e perfino della morte. Caso in cui, si badi, invece della reclusione da dieci a diciotto anni, come è normale per l’omicidio preterintenzionale, limita la pena a un tempo fra tre e otto anni. Talmente si tiene presente l’intenzione educativa di chi commette il reato. Costui va punito, certo, ma perché ha sbagliato la misura, non perché avesse una volontà criminale. Per informazione: l’omicidio preterintenzionale si ha quando si attacca qualcuno per fargli male (per esempio dandogli un pugno) e quello muore, per esempio perché cade battendo la testa.

Oggi invece si è arrivati al punto che l’azione educativa deve totalmente prescindere da qualunque mezzo di coercizione, inclusa la semplice dichiarazione della verità. Forse è permesso dire: “Non hai studiato”; forse è permesso dire: “Non sai nulla”; certo non è permesso dire: “Sei un asino”. E non importa che, per lo Zingarelli, “asino” significhi anche “persona ignorante”. Gli alunni, anche i bambini di undici anni (“bimbi”, per i cuori sensibili dei giornalisti) hanno una tale “dignità”, a sentire la Cassazione, che non gli si può dire nulla che offenda la loro sensibilità. Addirittura rischiano di ammalarsi, in questo caso: lo dimostra la Cassazione con questa condanna. 

I genitori, nei confronti dei figli, sono ormai condannati alle più gravi perplessità: se un figlio corre verso il burrone bisogna lasciarlo andare o trattenerlo per un braccio, a rischio di sentirsi accusare di violenza privata? E comunque, data la brutalità del gesto, che gli potrebbe slogare l’arto, di abuso di mezzi di correzione e di disciplina?

C’è qualcosa di più triste della condanna della professoressa di Palermo: è l’educazione che si impartisce ai giovani. Li si convince da piccoli che sono capolavori della natura da rispettare, onorare e riverire, anche se non studiano e si comportano male. E poi si constata che a quindici anni hanno bisogno dello psicologo e a trenta sono ancora in casa dei genitori perché non hanno né la capacità di trovarsi un lavoro, né la capacità di affrontare da soli il mondo.

Se si alleva una generazione di conigli poi non ci si deve aspettare che da grandi diventino leoni.

Gianni Pardo, giannipardo@libero.it

10 settembre 2012

 
CONIGLI E LEONIultima modifica: 2012-09-11T08:20:46+02:00da gianni.pardo
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