ROBERT KAPLAN: OBAMA E LA SIRIA

Dal momento che tanti piani di guerra semplicemente non sopravvivono al contatto con la realtà della guerra, ogni guerra è un universo unico e così i paragoni con le guerre precedenti, pure utili, si possono dimostrare illusori. Uno dei molti assunti erronei riguardo alla Seconda Guerra del Golfo prima che cominciasse era che sarebbe stata qualcosa di simile alla Prima Guerra del Golfo, nella quale i pessimisti erano stati umiliati dalla facilità della vittoria. Di fatto, la Seconda Guerra del Golfo si svolse in modo enormemente diverso, dando questa volta ragione ai pessimisti.  Ecco perché il ritornello corrente dei media, che compara un’operazione militare in Siria a quella del Kosovo nel 1999, mi preoccupa.

Vi sono profonde differenze. La Siria ha una popolazione che è dieci volte quella del Kosovo nel 1999. Qualunque cosa in Siria è su una scala molto maggiore, e decidere il risultato con mezzi militari potrebbe essere più difficile nella stessa misura. Il Kosovo subiva violenza ed una dura repressione per mano del leader serbo Slobodan Milosevic, ed essa era contrastata da una campagna separatista a bassa intensità da parte dell’Esercito di Liberazione del Kosovo. La violenza era molto diffusa ma neanche lontanamente comparabile con ciò che avviene in Siria. La Siria è in mezzo ad una completa guerra civile. Far cadere Milosevic, per di più, comportava molto meno rischi di far esplodere un’anarchia di quanto ne comporti far cadere l’autocrate della Siria Bashar al Assad. La vicenda del Kosovo più o meno interessava i Balcani meridionali, con relativamente poche possibilità di tracimare altrove – come si vide – nei Paesi e nei territori vicini. Un’anarchia settaria in Siria minaccia di destabilizzare una regione più vasta. L’Esercito di Liberazione del Kosovo può essere stato composto per parecchi versi da gentaglia, con elementi criminali. Ma non era una minaccia per gli Stati Uniti come i jihadisti transnazionali che attualmente operano in Siria. Per il Presidente Bill Clinton rischiare di dare il potere all’Esercito di Liberazione del Kosovo era una preoccupazione molto minore di quella che potrebbe avere il Presidente Barack Obama nel fare possibilmente da levatrice ad un regime jihadista sunnita. Il Kosovo non aveva un complesso di impianti chimici disseminati in tutto il suo territorio come la Siria, con tutti i mal di testa militari e logistici che comporterebbe cercare di neutralizzarli. La campagna del Kosovo non doveva contenere una Russia forte e irascibile, ma uno Stato che allora si stava riprendendo con difficoltà da un governo incompetente ed anarchico come quello di Boris Yeltsin. Vladimir Putin, che è un notevole azionista della Siria di Assad, potrebbe fare tutto ciò che è in suo potere per minare l’attacco degli Stati Uniti. E tuttavia, bisogna dirlo, le possibilità di Putin, nel caso Obama dovesse optare per una seria campagna militare, sono limitate, all’interno della stessa Siria. Ma Putin può riavvicinarsi all’Iran abolendo il regime delle sanzioni, e incrementare la diplomazia anti-americana della Russia in tutto il mondo più efficacemente di quanto Yeltsin abbia mai voluto o potuto fare. La guerra del Kosovo non impegnò l’Iran come questa deve fare necessariamente. Per quanti missili l’America possa sparare, non ha personale operativo sul terreno come lo ha l’Iran. E neppure potranno gli Stati Uniti necessariamente avere la pazienza e la fermezza di proseguire per lungo tempo un’operazione segreta al livello del territorio, come l’Iran potrebbe per gli anni avvenire, e come ha già fatto. Un Assad indebolito o destituito è una cosa negativa per l’Iran, certamente, ma non per questo ciò costituirebbe in totale un segnale che l’America otterrebbe un buon risultato da questa guerra. Un Iran ferito potrebbe correre ancor più velocemente verso l’opzione nucleare. È un rischio calcolato. La guerra del Kosovo inflisse una notevole sofferenza ai civili serbi attraverso gli attacchi aerei, ma la popolazione siriana è già stata bastonata da una guerra brutale per due anni, sicché è problematico sapere se gli attacchi aerei in questo caso possano infliggere quel dolore psicologico aggiuntivo sulle parti della popolazione che sono ancora leali al regime o indifferenti ad esso. Lo scopo nel Kosovo era di limitare l’influenza geografica della Serbia e di innescare una catena di eventi che avrebbe condotto alla cacciata di Milosevic. Questi scopi furono raggiunti: Milosevic fu forzato ad abbandonare il potere nell’autunno del 2000, in larga misura per una catena di eventi originati da quella guerra. La sua cacciata, come scrissi il 6 ottobre 2000 sul New York Times, significava la morte di fatto dell’ultimo Partito Comunista al potere in Europa, anche se nei suoi ultimi anni esso aveva adottato come tattica il nazional-fascismo. Dal momento che la guerra fu in misura significativa il risultato degli sforzi di una singola persona, il Segretario di Stato Madeleine Albright, essa dimostrò in che modo degli individui possano influenzare molto la storia nella migliore direzione.

Così il Kosovo simbolizzò il potere dell’attività umana sopra le forze impersonali  per strappare una vittoria per i diritti umani. Questa è una causa popolare fra i giornalisti liberal e gli intellettuali, perché costituisce il desiderio di fare qualcosa per punire le massicce violazioni dei diritti umani del regime di al Assad. Il paragone fra Kosovo e Siria discende da questo. Ma è un paragone difettoso. Far cadere elegantemente Milosevic non comportava effetti collaterali negativi. Far cadere al Assad potrebbe condurre ad un potere centrale nel Levante tanto amico dei jihadisti internazionali quanto quello controllato dai Taliban in Afghanistan alla fine degli Anni Novanta e fino al 2001.

Naturalmente l’Amministrazione Obama cercherà di calibrare il suo sforzo militare in modo da evitare un ulteriore caos jihadista in Siria. Ma persino con uno strapotere della forza di fuoco, non sarà necessariamente in grado di controllare il Paese. Mentre far finire il governo di Milosovic significava porre fine alla pulizia etnica, è lungi dall’essere certo che il massacro settario finirebbe avendo scacciato al Assad; potrebbe persino intensificarsi, con i sunniti che esercitano le loro vendette su una comunità alawita indebolita e messa all’angolo.

Obama fronteggia un dilemma ancor più drammatico di quello che Clinton fronteggiava in Kosovo. Se sceglie attacchi militari limitati per inviare un messaggio contro l’uso di armi chimiche, rischia di apparire debole, in particolare dopo la possente retorica usata dal suo Segretario di Stato, John Kerry. Se sceglie il cambio di regime – anche se non lo si chiamerà così – minaccia di scatenare un incubo jihadista. Potrebbe tentare di attuare una scelta di mezzo, calibrata in modo da erodere seriamente la base del potere di al Assad, mentre invia alla Russia e all’Iran un messaggio invitandoli ad aiutarlo ad ottenere uno stabile trasferimento di autorità a Damasco, qualcosa che potrebbe anche aprire la porta a un più largo processo diplomatico con l’Iran. Ma è molto difficile da realizzare.

Tenete a mente ancora un’altra cosa, riguardo al Kosovo. In quel momento, gli Stati Uniti non erano stati coinvolti in guerre di terra per un quarto di secolo e così i cittadini americani non erano stanchi di guerre. E ciò malgrado, Clinton a ragione calcolò che il pubblico non avrebbe tollerato perdite sul terreno in una guerra che non coinvolgeva veri interessi americani. Ma il pubblico americano attualmente ritorna barcollando da più di una decina d’anni di sanguinose guerre di terra, e così Obama ha ancor meno margine di manovra di Clinton, soprattutto tenendo conto che la Siria rappresenta un impegno militare più grande del Kosovo.

Fino ad ora, Obama se l’è cavata accettabilmente bene, nel Medio Oriente. Ha ridotto o eliminato gli impegni di forze in Afghanistan ed Iraq, mentre ha evitato di impantanarsi altrove di fronte ai cambiamenti regionali e al caos. Ciò corrisponde a mantenere la leadership di una potenza globale marittima che ha seri impegni in Asia ed altrove, anche se la sua dipendenza energetica dal Medio Oriente è in fase calante.  Ma Obama ora fronteggia un evento capitale che metterà alla prova il suo impegno di mantenere l’America fuori dalle sabbie mobili regionali, mentre rimane nello stesso tempo capace di esercitare un considerevole potere nella regione. Se Obama attua una operazione militare importante, una cosa è certa: la Siria per gli Stati Uniti sarà la loro personale guerra, con la sua propria narrativa, per il meglio o per il peggio.

Robert Kaplan(1)

Traduzione di Gianni Pardo

 

(1)Syria and the Limits of Comparison Global Affairs 

WEDNESDAY, AUGUST 28, 2013 – 04:57  

Print   Text Size Global Affairs with Robert D. KaplanStratfor 

By Robert D. Kaplan

 Because so many war plans simply do not survive the reality of war itself, each war is a unique universe unto its own and thus comparisons with previous wars, while useful, may also prove illusory. One of the many wrong assumptions about the Second Gulf War before it started was that it would somehow be like the First Gulf War, in which the pessimists had been humiliated by the ease of the victory. Indeed, the Second Gulf War unfolded in vastly different ways, this time proving the pessimists right. That is why the recent media refrain comparing a military operation in Syria with the one in Kosovo in 1999 worries me.

 There are profound differences.

 Syria has a population ten times the size of Kosovo’s in 1999. Because everything in Syria is on a much vaster scale, deciding the outcome by military means could be that much harder.

 Kosovo sustained violence and harsh repression at the hands of Serbian leader Slobodan Milosevic, which was met with a low-intensity separatist campaign by the Kosovo Liberation Army. Violence was widespread but not nearly on the scale of Syria’s. Syria is in the midst of a full-fledged civil war. The toppling of Milosevic, moreover, carried much less risk of ever-expanding anarchy than does the toppling of Syrian ruler Bashar al Assad.

 Kosovo was more or less contained within the southern Balkans, with relatively limited chance for a spillover — as it turned out — into neighboring countries and territories. Full-scale sectarian anarchy in Syria threatens to destabilize a wider region.

 The Kosovo Liberation Army may have been a nasty bunch by some accounts, with criminal elements. But it was not a threat to the United States like the transnational jihadists currently operating in Syria. For President Bill Clinton to risk bringing to power the Kosovo Liberation Army was far less of a concern than President Barack Obama possibly helping to midwife to power a Sunni jihadist regime. Kosovo did not have a complex of chemical weapons facilities scattered throughout its territory as Syria does, with all the military and logistical headaches of trying to neutralize them.

 The Kosovo war campaign did not have to countenance a strong and feisty Russia, which at the time was reeling from Boris Yeltsin’s incompetent, anarchic rule. Vladimir Putin, who has significant equities in al Assad’s Syria, may do everything in his power to undermine a U.S. attack. Though, it must be said, Putin’s options should Obama opt for a significant military campaign are limited within Syria itself. But Putin can move closer to Iran by leaving the sanctions regime, and ratchet-up Russia’s anti-American diplomacy worldwide more effectively than Yeltsin ever wanted to, or was capable of.

 The Kosovo war did not engage Iran as this war must. For all of the missiles that America can fire, it does not have operatives on the ground like Iran has. Neither will the United States necessarily have the patience and fortitude to prosecute a lengthy and covert ground-level operation as Iran might for years to come, and already has. A weakened or toppled al Assad is bad for Iran, surely, but it does not altogether signal that America will therefore receive a good result from this war. A wounded Iran might race even faster toward a nuclear option. It is a calculated risk

 The Kosovo war inflicted significant pain on Serbian civilians through airstrikes, but the Syrian population has already been pummeled by a brutal war for two years now, and so it is problematic whether airstrikes in this case can inflict that much more psychological pain on the parts of the population either still loyal or indifferent to the regime.

 The goal in Kosovo was to limit Serbia’s geographic influence and to ignite a chain of events that would lead to Milosevic’s ouster. Those goals were achieved: Milosevic was forced from power in the fall of 2000, largely because of a chain of events stemming from that war. His ouster, as I wrote in The New York Times on Oct. 6, 2000, meant the de facto death of the last ruling Communist Party in Europe, even if in its final years it had adopted national-fascism as a tactic. Because the war was in significant measure a result of the efforts of a single individual, Secretary of State Madeleine Albright, it demonstrated how individuals can dramatically alter history for the better.

 Kosovo thus symbolized the power of human agency over impersonal forces in order to wrest a victory for human rights. This is a popular cause among liberal journalists and intellectuals, as is the desire to do something to punish the massive human rights violations of the al Assad regime. The comparison between Kosovo and Syria follows from that. But it is a flawed comparison: Elegantly toppling Milosevic incurred no negative side effects. Toppling al Assad could lead to a power center in the Levant as friendly to transnational jihadists as the one in Taliban-controlled Afghanistan was in the late 1990s until 2001.

 Of course, the Obama administration will try to calibrate its military effort in a way to avoid further jihadi chaos in Syria. But even with overwhelming firepower, it is not necessarily in control. Whereas ending Milosevic’s rule meant an end to ethnic cleansing, it is far from certain that sectarian carnage would end with al Assad’s demise; it might possibly even intensify, with Sunnis exacting revenge on a weakened and cornered Alawite community.

 Obama faces a dilemma more extreme than the one Clinton faced in Kosovo. If he chooses limited military strikes to send a message against the use of chemical weapons, he risks looking weak, especially following the powerful rhetoric employed by his secretary of state, John Kerry. If he chooses regime change — while not calling it that — he threatens to unleash a jihadi nightmare. He may try a middle option calibrated to seriously erode al Assad’s power base while sending a message to Russia and Iran to help him negotiate a stable transfer of authority in Damascus — something that might yet open up a wider diplomatic process with Iran. But that is obviously very difficult to do.

 Keep another thing in mind about Kosovo. At that time, the United States had not been in a ground war for a quarter-century and thus the American people were not weary of war. Even so, Clinton rightly calculated that the public would not tolerate casualties on the ground in a war that did not involve a naked American interest. But the American public is now tottering from more than a decade of bloody ground war, and so Obama has even less leeway than Clinton, even as Syria presents a greater military challenge than Kosovo.

 So far, Obama has handled the Middle East tolerably well. He has reduced and ended ground force commitments in Afghanistan and Iraq, while avoiding quagmires elsewhere in the face of regional change and chaos. This is in keeping with the leadership of a global maritime power that has serious military commitments in Asia and elsewhere, even as its energy dependency on the Middle East is on the wane. But Obama now faces a defining event that will test his commitment to keep America out of regional quicksand while being able to wield considerable power in the region at the same time. If Obama prosecutes a significant military operation, one thing is certain: Syria will be its own war for the United States with its own narrative, for better or worse.  

ROBERT KAPLAN: OBAMA E LA SIRIAultima modifica: 2013-08-30T18:00:06+02:00da gianni.pardo
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