LA TIRANNIA DELL’ARITMETICA

Avevo un amico che si chiamava Amico di cognome. Era una persona molto gradevole che purtroppo soffriva di calcoli renali. Quando aveva degli attacchi soffriva orribilmente (una volta ho dovuto fare dieci chilometri in automobile per andare ad iniettargli un antidolorifico) ma aveva troppa paura dei chirurghi per farsi operare. E così avvenne che ebbe una crisi più grave delle altre e ci lasciò le penne. Ciò posto, sarebbe stato crudele chi, prima, si fosse augurato che avesse una crisi dolorosissima, in modo che si rassegnasse a farsi operare quando ancora avrebbe sopportato benissimo l’intervento? Se così fosse andata, oggi ci ritroveremmo ancora per delle belle cenette in famiglia.

A tutto questo ho pensato quando ho scoperto che desidero ardentemente che Etihad si ritiri dalle trattative e che l’Alitalia fallisca. Qualcuno sarà scandalizzato: come si può desiderare il fallimento della compagnia di bandiera? Come si può desiderare che quindicimila persone perdano improvvisamente il lavoro? Ma forse, avrebbe detto Polonio, c’è un metodo nella mia follia.

Il problema dell’Alitalia dura da molto tempo e la sua dirigenza non l’ha mai risolto semplicemente perché da ogni parte si è sempre reputato che lasciar fallire quella compagnia sarebbe stato inconcepibile. Tanto i suoi dipendenti quanto i suoi sindacati hanno sempre discusso tutto – stipendi, livelli occupazionali, condizioni di lavoro – partendo dal presupposto che comunque fosse andata, anche ad obbligare la società a lavorare in perdita, l’impresa non avrebbe chiuso. È questo che ci ha condotti ad avere, da anni, una compagnia di bandiera che produce deficit. Per ripianare le perdite si sono avute ripetute iniezioni di liquidità, pudicamente chiamate aumenti di capitale, e in questo campo gravemente colpevole è stato anche Silvio Berlusconi che anni fa si è intestardito a salvare quel carrozzone. Dimenticando che non si possono raddrizzare le gambe ai cani.

Oggi l’Alitalia è come sempre gravemente in rosso e c’è un ricco emirato, forse fin troppo ottimista, disposto a metterci dei soldi se cambiano alcune cose, in particolare se si riduce il personale. Ma i sindacati e i lavoratori non accettano queste condizioni. Il posto di lavoro è sacro. Anche se non serve a niente, anche se non ci sono i soldi per pagarlo, il lavoratore non può essere mandato a spasso o in cassa integrazione, né lui né le altre migliaia di colleghi in esubero: i soldi si devono trovare. E se non si trovano, ce li deve mettere lo Stato. I trattati dell’Unione Europea lo vietano? E che importa? Di dove trovare i soldi si può discutere, del fatto che comunque vanno trovati no.

Ecco perché si può desiderare ardentemente che l’Alitalia fallisca. Naturalmente nessuno si nasconde il dramma di migliaia di famiglie, improvvisamente private del reddito cui erano abituate. Ma non è un dramma diverso da quello vissuto dalle centinaia di migliaia di lavoratori che in questi anni hanno perso il lavoro. Non è che la famiglia del commesso di negozio licenziato – cui nessuno neanche immagina di fornire un sussidio – soffra di un tipo di fame diverso da quello di chi prima guadagnava parecchie migliaia di euro al mese. In un’Italia in cui il mercato del lavoro è anchilosato, riciclarsi dopo che si è perduto un impiego è impresa pressoché impossibile, anche perché l’intera retorica nazionale è concentrata a proteggere chi un lavoro l’ha già, non chi non l’ha o non l’ha più.

E tuttavia il fallimento di una grande impresa insegnerebbe forse all’Italia, una volta per tutte, che nessuno può operare stabilmente in perdita. E ciò vale tanto per l’artigiano dell’angolo quanto per le grandi compagnie. È già triste che debba necessariamente operare in perdita lo Stato, ed è infatti una delle cause della nostra crisi. Ma perché deve operare in perdita la nostra compagnia aerea, che può essere facilmente sostituita da un’altra, da un giorno all’altro?

L’Italia sembra in crisi irreversibile perché per decenni si sono accumulati i pregiudizi. L’aritmetica funziona soltanto se i sindacati sono d’accordo. Diversamente la collettività deve ripianare il deficit. E si ricordi che i contribuenti sono coloro che operano economicamente. Insomma i produttivi, che non ricevono un soldo da nessuno, sono costretti a far vivere gli improduttivi, che producono diseconomie.

Oggi l’Italia ha bisogno della crisi di una grande impresa per capire che “troppo grande per fallire” è una regola che vale finché chi può impedire quel fallimento è lui stesso in buona salute. Ma attualmente l’intera nazione italiana ha le pezze sul sedere ed è bene che ci si convinca che la pacchia è finita. È tornato l’impero dell’aritmetica, anche contro il parere della Triplice.

Gianni Pardo, pardo.ilcannocchiale.it

26 luglio 2014

LA TIRANNIA DELL’ARITMETICAultima modifica: 2014-07-27T12:44:02+02:00da gianni.pardo
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