ABBECEDARIO ECONOMICO, DALLA MONETA A KEYNES

 

 

1. È possibile lo scambio senza moneta? Evidentemente sì. Sembra una banalità ribadirlo, ma c’è gente convinta che la moneta sia sempre esistita. Non solo storicamente prima della moneta c’è stato il baratto, ma lo scambio senza moneta esiste ancora oggi. Si immaginino due signore che vanno a comprare delle camicette e, una volta che le hanno pagate, si accorgono che ognuna avrebbe voluto comprare quella dell’altra, e se le scambiano. In questo caso si ha scambio senza moneta, ancora oggi.

2. L’utilità dello scambio. L’esempio delle camicette è utile per ricordare un altro concetto economico. In ogni libero scambio la somma delle utilità non è pari a zero. Le due signore, cedendo la propria camicetta, pensano di guadagnarci, dal momento che piace loro di più l’altra: ed è effettivamente così. Si chiama utilità dello scambio. Se qualcuno compra un telefonino per cento euro è segno che per lui il telefonino vale più di cento euro, altrimenti si terrebbe la banconota. E per il venditore è l’inverso. I cento euro rappresentano il punto d’incontro delle due valutazioni.

3. La moneta-merce. La moneta è nata per sopperire agli inconvenienti derivanti dal baratto (che non saranno qui elencati). In un primo momento è stata costituita da una merce pressoché standard e gradita da tutti. In una società agricolo-pastorale, l’oggetto gradito praticamente a tutti era una pecora. Ciò ha fatto sì che la pecora (da cui pecunia) divenisse l’unità di misura. Purtroppo era indivisibile (non si poteva pagare con mezza pecora), priva di una qualità standard, ecc. In altri casi infatti è stato usato il sale (da cui salario), e soprattutto i metalli, di qualità standard, indefinitamente divisibili e, nel caso dell’oro, incorruttibili. Questo tipo di valuta è stato designato moneta-merce, in quanto esso non rappresenta un valore, ha un valore. Una pecora è una pecora.

4. Le funzioni della moneta. Utilizzando lo schema dell’oro (classica moneta-merce) se ne possono identificare tre funzioni principali. Ammettiamo si dica che un dato oggetto valga tre monete. Tre monete come quell’altro oggetto. Dunque la moneta può essere usata come misura del valore (in questo specifico caso valore di equivalenza, tre monete). Naturalmente, se non ci si limita a valutare, ma effettivamente si ha lo scambio tra l’oggetto e le tre monete, si può dire che la moneta ha la funzione di intermediazione dello scambio (pagamento). Infine, se qualcuno le monete d’oro di cui è giunto in possesso non le usa per comprare qualcosa, e rinvia questo atto ad un momento successivo, si ha il risparmio.

5. La moneta-merce rende l’inflazione quasi impossibile. Una nota non inutile è che, con la moneta-merce, l’inflazione è quasi impossibile. Certo, può variare il valore delle merce-moneta (nel nostro esempio l’oro) come conseguenza della quantità di metallo immessa nel mercato dalle miniere o – come è avvenuto – in conseguenza di un evento eccezionale, come la scoperta dell’America. Ma sono fatti rari e comunque di ampiezza limitata. Con la circolazione aurea l’inflazione della Repubblica di Weimar – o più recentemente quella della Turchia – sarebbero state impossibili.

6. La cartamoneta e l’inflazione. La moneta-merce fa parte del passato. Saltando il periodo della moneta convertibile (presentando le banconote alla Banca Centrale si poteva ottenere in cambio oro) passiamo alla moneta cartacea. In questo caso la moneta in sé non vale nulla, ma le tre funzioni prima accennate (par.4) rimangono lo stesso. Con una limitazione: il valore della banconota cambia se se ne immette più o meno in circolazione. In particolare, se se ne immette troppa, si ha l’inflazione e diminuisce il suo potere d’acquisto. Con la cartamoneta il risparmio diveene aleatorio. Chi ha messo da parte cento grammi d’oro avrà sempre e comunque cento grammi d’oro. Invece, se c’è inflazione, per esempio del 10%, le cento banconote messe da parte, pur senza che nessuno le abbia toccate, è come se fossero divenute novanta, come potere d’acquisto,

7. Il corso forzoso. Questo difetto è tanto grave da costituire la spiegazione del perché la moneta è a “corso forzoso”. Lo Stato, quando stampa cartamoneta, impone a tutti di accettarla in pagamento, tanto che, se il creditore la rifiuta, il debitore è liberato dal suo dovere (art.1209 del Codice Civile). Mentre, si ricordi, la moneta-merce vive del proprio valore, e non è necessario imporne la circolazione. Anche se a volte i re dichiaravano che la loro moneta d’oro pesava, poniamo, dieci grammi, e poi ce ne mettevano nove. Ma si sa, a volte lo Stato è un falsario che punisce gli altri falsari.

8. Il finanziamento dello Stato. Per esercitare le sue innumerevoli funzioni, lo Stato dispone di due principali fonti di finanziamento: il denaro ottenuto dai cittadini con le imposte e le tasse, e quello stampato “a fronte di niente” (contante immesso nel mercato ed emissione di Bot e Btp). La differenza fra i due tipi di moneta che lo Stato spende è fondamentale. I tributi pagati dai cittadini corrispondono ad utilità da essi prodotte e conferite allo Stato, mentre nel caso del denaro inflazionario (cioè che lo Stato spende pur non avendolo incassato con i tributi) queste utilità non sono state prodotte. La prima fonte (i tributi) corrisponde a “crediti” dei cittadini, ottenuti col loro lavoro, che essi versano allo Stato e che lo Stato poi eroga a loro vantaggio con beni e servizi. Questo è il sistema onesto. Invece con le banconote ” nuove”, lo Stato pretende (attraverso i suoi beneficiari) beni e servizi solo in virtù del corso forzoso della carta che stampa. Il denaro inflazionario è qualcosa di simile al furto, in quanto lo Stato ottiene (o regala) beni e servizi senza dar nulla a sua volta.

Lo Stato, quando è padrone della sua moneta, può stampare “denaro a fronte di niente” pressoché indefinitamente. Può così anche pagare stipendi per posti di lavoro inutili, per sostenere imprese decotte, per realizzare lavori pubblici magari inutili o lasciati a metà. Naturalmente, in una certa misura quel quantum di moneta in più può essere assorbito dalla società se si ha un aumento della ricchezza prodotta dalla nazione, e in parte ritorna allo Stato come maggiore gettito fiscale, ma normalmente, soprattutto se la pratica dura a lungo, si crea inflazione. Cioè lo Stato effettua spese sottraendo a tutti i cittadini una fettina del loro potere d’acquisto. Infatti, aumentando il denaro circolante, ne risulta un aumento generalizzato dei prezzi e dunque una diminuzione del potere d’acquisto del denaro detenuto dai cittadini.

 9. L’inflazione. Qualcuno ha definito l’inflazione un ” aumento prolungato del livello medio generale dei prezzi di beni e servizi in un dato periodo di tempo, che genera una diminuzione del potere d’acquisto della moneta“. La formula trascura di menzionare la causa del fenomeno. È come se si definisse l’incendio doloso quel fatto “per il quale si ha un tale aumento della temperatura da provocare la distruzione di un edificio”, omettendo di parlare di chi ha appiccato il fuoco. È vero che l’aumento dei prezzi provoca la diminuzione del potere d’acquisto della moneta; ed è anche vero che diminuendo il potere d’acquisto della moneta si possono acquistare meno beni e servizi (infatti i prezzi sono divenuti troppo alti, per chi dispone della moneta ottenuta prima dell’inflazione) ma si trascura in modo circolare di dire che cosa ha provocato quell’aumento dei prezzi e quella diminuzione del potere d’acquisto. Chi ha appiccato l’incendio è l’aumento del denaro circolante stampato “a fronte di niente”. Non per un aumento del gettito tributario (per esempio dell’Iva), oppure corrispondente ad un aumento della ricchezza reale prodotta dal sistema, ma semplicemente cartamoneta inserita nel circuito in forza del fatto che lo Stato dispone della zecca.

Non si parla dell’inflazione da eccesso di domanda o da aumento dei costi di produzione perché, di solito, si tratta di fenomeni soltanto settoriali, come la richiesta di candele (che ne fa aumentare il prezzo) in vista di un blackout elettrico.

10. Sintesi del pensiero di Keynes. È ovvio che, trattandosi di un economista e di una teoria molti discussi, le critiche che seguono non sono “scienza economica” ma l’opinione dello scrivente, il quale sottolinea tuttavia che non si discute tanto la teoria in sé (tecnica congiunturale) quanto l’uso improprio che se ne è fatto (deficit spending di lungo periodo).

John Maynard Keynes ha molto influenzato il mondo economico nel XX Secolo ed ancora oggi è quasi considerato un profeta incontestabile. La sua teoria è che l’economia non è in grado di prosperare da sola ed ha bisogno della guida dello Stato. Con questa affermazione contraddice naturalmente l’economia classica, la quale crede all’autoregolazione del mercato. Inoltre teorizza che in momenti di crisi economica e disoccupazione lo Stato deve inserire nel sistema forti somme di denaro (che semplicemente stampa) sotto forma di aumenti salariali (consumi), grandi lavori pubblici (investimenti), sussidi alle imprese in difficoltà, in particolare banche, in modo che i cittadini, avendo più denaro da spendere, consumino di più. E come conseguenza, per rispondere a questo aumentato consumo, le imprese producano di più, assumano di più, sicché in totale l’economia della nazione ne risulta rilanciata. Poiché questa teoria insiste sui consumi, si dice che è fondata sulla domanda totale (aggregata) di beni e servizi.

11.1. Critiche alla teoria. Lo Statalismo. La prima idea discutibile è che lo Stato debba dirigere l’economia del Paese. Se fosse vero, il massimo risultato si sarebbe dovuto ottenere là dove lo Stato ha avuto un controllo totale: e invece non risulta affatto che l’Unione Sovietica fosse economicamente prospera. Ciò malgrado, questa convinzione  riguardante l’incapacità della “mano invisibile” di Adam Smith di raddrizzare gli errori del mercato (per via di autoregolazione) per decenni è apparsa come un articolo di fede. E se tale è, basterà rispondere che è lecito avere la fede opposta, e preferire ancora oggi la “mano invisibile” di Adam Smith. Del resto, lo stesso Keynes, poco prima di morire, nel 1946, disse ad Henry Clay, un professore consigliere della Banca d’Inghilterra: “Mi accorgo di contare sempre più, per la soluzione dei nostri problemi, sulla mano invisibile che ho provato ad espellere dal pensiero economico venti anni fa”.

Per contestare l’idea che lo Stato possa con i suoi interventi determinare la prosperità di un Paese, basta inoltre chiedersi: se si inviasse la signora Merkel a governare il Burundi, quel Paese in breve tempo sarebbe prospero come la Germania?  Il meridione d’Italia non è il Burundi, ed ha lo stesso governo della Lombardia:  come va che, dall’Unità d’Italia, lo Stato che secondo Keynes è tanto bravo a guidare l’economia non è riuscito né a industrializzarlo né a rilanciarlo? È tanto azzardato pensare che il successo dell’economia dipenda più dal mercato che dalla dirigenza?

11,2. Critiche alla teoria. L’inflazione. Come si sa, l’intervento inflattivo dello Stato, che spende il denaro che non ha, è effettuato con la speranza (multiplier effect) di superare un momento di stasi economica. Nessuna persona sana di mente infatti può concepire di vivere eternamente a credito, cioè con lo Stato che si procura il denaro stampandolo ed emettendo titoli di Stato, Bot e Btp). Nessuna persona sana di mente può immaginare di creare inflazione all’infinito, perché si corre verso l’abisso: la Germania ha conosciuto questo genere di disastro ai tempi della Repubblica di Weimar, e non l’ha mai dimenticato, come si vede anche dalla sua attuale politica economica. Purtroppo, una immensa folla di sprovveduti ha frainteso la teoria di Keynes e chiede sempre più soldi allo Stato. Come se stampare fogli di carta corrispondesse a creare ricchezza che si può distribuire.

11.3. Un esempio del pensiero keynesiano. Say sosteneva che, in caso di rallentamento dell’economia, i lavoratori sarebbero stati disposti ad accettare un abbassamento dei loro salari, pur di invogliare i datori di lavoro ad assumerli. Keynes pensa invece (teoria della price stickness) che ciò non avvenga. Anche se disoccupati, i lavoratori non accettano salari inferiori, e per questo deve intervenire lo Stato. L’affermazione, anche ad essere vera, non dipende dalla falsità della teoria di Say, ma dal fatto che quei disoccupati, benché tali,  continuano a mangiare. Dunque è chiaro: o ricevono un contributo di disoccupazione, o qualcun altro in famiglia guadagna a sufficienza per tutti. Se l’alternativa fosse veramente la fame, la teoria di Say ritroverebbe tutt’intera la sua validità. Si può non essere d’accordo con la “invisible hand” di Adam Smith, ma se le si impedisce d’agire poi non se ne può negare la validità. Essa funziona se i sindacati non falsano il mercato con un cartello dei dipendenti e se lo Stato non è troppo generoso con i disoccupati. La difesa degli alti salari si giustificherebbe se essi fossero artificialmente bassi, a causa dell’avidità dei datori di lavoro; ma se per caso essi fossero economicamente insostenibili, l’intervento dello Stato creerebbe soltanto una distorsione economica, e dunque una diseconomia. Quanto al fatto che qualcuno potrebbe sostenere che i lavoratori non accettano salari più bassi in quanto con essi non potrebbero vivere, l’assunto è dimostrato falso dal fatto che, non accettandoli, dimostrano di poter vivere senza. La realtà è che, in questi casi, essi aspettano che lo Stato li aiuti.

Che Keynes non abbia pensato a tutto questo rende perplessi riguardo al suo senso del reale.

12. La validità astratta della teoria. Ma non bisogna essere programmaticamente pessimisti. La manovra keynesiana può avere successo? Certamente sì. Se è correttamente applicata. Se cioè attuata nella situazione di un rallentamento puramente congiunturale, al buon momento, e con i giusti mezzi. Ma tutto ciò è difficile da identificare. Sicché il problema è che, prima di applicarla, non si può essere sicuri che questa speranza di raddrizzamento si realizzi, mentre sono sicuri gli alti costi da pagare. Né, contrariamente a quanto spesso si sente dire in giro,  si può citare, come un successo della teoria, l’uscita dalla crisi americana del ’29, col New Deal rooseveltiano: perché il magnum opus di Keynes, The General Theory of Employment, Interest and Money è stato pubblicato nel 1936. Alcuni dei provvedimenti di Roosevelt appaiono in linea con le teorie di Keynes, ma si trattava, appunto, di superare una congiuntura, come in occasione del salvataggio delle banche.

Il punto più importante della teoria è infatti che, contrariamente a quanto molta gente ha finito col pensare, la manovra keynesiana è congiunturale, non strutturale. Che sia strutturale – e cioè che si possa continuare indefinitamente a spendere più di quanto si incassa – è del resto impossibile. Come è impossibile il moto perpetuo, l’indefinito successo della Catena di S.Antonio, e che si possa sempre vivere a credito. Purtroppo, storicamente, in Italia si è creduto che il deficit spending (il denaro speso dallo Stato a fronte di niente) fosse il Pozzo di San Patrizio a cui sarebbe stato stupido non attingere spensieratamente. È così si è creato quel debito pubblico che ci ha portati sull’orlo del fallimento. Un fallimento che non è neppure detto riusciremo ad evitare. Nel frattempo, continuiamo a pagare circa ottanta miliardi di interessi l’anno, senza nessuna speranza di rimborsare il capitale. L’unica possibilità sarà, un giorno, quella di fare marameo ai creditori. Ma al prezzo di una crisi indimenticabile.

13. Conclusione su Keynes. La teoria di Keynes, secondo cui lo Stato può rilanciare occupazione e produzione con l’immissione di molto circolante a fronte di niente, in modo da creare la domanda e conseguentemente l’aumento della produzione, può darsi che sia esatta astrattamente, ma è difficile sapere quando, come, e per quanto tempo applicarla. E infatti non sempre riesce. Inoltre ha causato danni perché, per come è stata intesa da molti Stati, si è tradotta in una montagna di debito pubblico dai possibili esiti catastrofici. E poiché in economia contano i risultati, le teorie di Keynes sono oggi guardate con grande sospetto. Malgrado la più grave crisi che si ricordi, e malgrado le grandi pressioni che ricevono, le autorità europee si guardano bene dall’applicarle.

Purtroppo nel frattempo non applicano nessun’altra soluzione e si naviga sottocosta, col rischio di sbattere lo stesso sugli scogli.

Gianni Pardo, pardonuovo@myblog.it

12 dicembre 2014

 

ABBECEDARIO ECONOMICO, DALLA MONETA A KEYNESultima modifica: 2014-12-12T14:41:00+01:00da gianni.pardo
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