IL PROGRESSO E LO SFATICATO

 

Montaigne, nei famosi “Essais”, parla in prima persona per centinaia di pagine eppure nessuno scambierebbe la sua opera per un diario e men che meno per una celebrazione narcisistica del suo “io”. Né cede alla tentazione di fingere una confessione “autofustigatoria” come Rousseau o da ultimo Sartre. Il suo “moi” è soltanto un punto d’osservazione sul mondo, per parlare del mondo. Al massimo, con quella prima persona, ammette l’opinabilità delle conclusioni cui giunge a mano a mano. Non per niente era fondamentalmente scettico.

Senza nemmeno tentare di paragonarsi a Montaigne, dev’essere lecito parlare dell’esperienza personale quando essa può servire da testimonianza. È in questo senso che amerei porre un problema che è stato mio e potrebbe essere di altri. O forse far identificare una sindrome più o meno patologica.

Come ho più volte ammesso, avendone la possibilità, ho approfittato di una legge demenziale per mettermi in pensione al più presto, sicché, se pure modestamente, vivo a spese del prossimo da decenni. Dovrei avere avuto degli scrupoli e invece in tutto questo tempo ho reputato la mia situazione assolutamente la migliore possibile. Non c’è stato un solo giorno in cui abbia rimpianto il lavoro.

La cosa non sorprende. Sin da bambino, il mio giorno preferito è stato la domenica. Pinocchio avrebbe voluto una settimana di sei giovedì e una domenica, perché allora il giovedì era vacanza. Io da professore ho realizzato il sogno di Pinocchio prima adottando come giorno libero il giovedì, poi ottenendo realmente una settimana di sei giovedì e una domenica.

Da alunno invece reputavo le vacanze di Natale il periodo più bello dell’anno, superato soltanto dalle vacanze estive e infine dalla pensione. Durante gli anni di lavoro ho sempre cercato di fare il mio dovere (quello per intero) ma senza zelo e senza regalare un minuto.  L’atteggiamento, come si vede, è generale. Non ci sono mai stati vantaggi o riconoscimenti che mi abbiano invogliato all’azione, a strapazzarmi per ottenere qualcosa di più. Il denaro è perfettamente rientrato in questo quadro: il grande lusso non è mai stato quello di potermi concedere un oggetto tanto costoso che gli altri non potessero permetterselo, quanto il piacere di essere libero e di dedicarmi agli otia.

I miei desideri sono sempre stati minimi. E sono stato anche capace di rinunziare al piacere del cibo per non ingrassare. Le uniche cose che mi sono piaciute sono state i viaggi e le lingue. Ma ambedue queste cose, come la passione vagamente turistica per la storia e la letteratura, avevano uno scopo: conoscere il mondo, studiare l’umanità, se possibile al di fuori della scatola chiusa del proprio tempo e della propria nazionalità. Infatti, conseguito un piccolo bagaglio, mi sono chiuso nella mia stanza a titolo definitivo.

Il quadro è allarmante. Con un simile atteggiamento, forse l’umanità non sarebbe passata dall’età del bronzo a quella del ferro. Ma se non si cede all’attivismo moraleggiante, al mito e al dovere del progresso, la domanda diviene: che val la pena di fare, nella vita? Tanti padri della Chiesa, tanti filosofi, tanti maîtres à penser si sono sbracciati a parlare di vanitas vanitatum, possibile che se poi nasce uno che veramente li prende sul serio dobbiamo considerarlo pazzo? E perché non citare il poeta Jules Laforgue, che ha scritto questi due versi terribili: “Et devant ta présence épouvantable, ô mort, je pense qu’aucun but ne vaut aucun effort”, e dinanzi alla tua spaventosa presenza, o morte, penso che nessuno scopo valga nessuno sforzo.

È meglio lasciare la questione impregiudicata. Personalmente mi sono appassionato soltanto alla conoscenza eclettica, perché l’eclettismo sta alla cultura seria come il sesso fra innamorati sta a quel pilastro dell’umanità che è il matrimonio.

Gianni Pardo, pardonuovo@myblog.it

6 marzo 2015

IL PROGRESSO E LO SFATICATOultima modifica: 2015-03-06T19:17:08+01:00da gianni.pardo
Reposta per primo quest’articolo